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Posts Tagged ‘Esiodo’

culto di iustitia - temi

B.B. non c’è più. Beppe Broccia, il prof Giuseppe Broccia, è scomparso qualche giorno fa. Forse lui, che non amava le parole di circostanza, non avrebbe gradito che un suo ex allievo ne avesse scritto post mortem un ricordo. Ma io ne sento comunque il dovere.  B.B. (così lui si firmava) è stato per me un maestro di primissimo ordine, benché l’università in cui l’ho incontrato fosse un piccolo ateneo di provincia. Piccoli luoghi per grandi incontri. Certo si è trattato di un colpo di fortuna, ma che questo sia capitato in una piccola università non stupisce. Perché in un ambiente accademico ristretto, negli anni Settanta, era ancora possibile sia trovare docenti di rango, sia stringere con loro rapporti didattici e umani oggi impensabili. Del mestiere di filologo classico B.B. mi ha insegnato tutto: la pazienza, l’accuratezza, la concretezza, la diffidenza verso le mode culturali. Egli è stato soprattutto un maestro impareggiabile del metodo. Il metodo è una parola greca che significa la via, la strada che si percorre per inseguire e raggiungere qualcosa o qualcuno, La virtù più grande (ma non certo l’unica) di B.B. è stata proprio quella di educare alla metodologia rigorosa della ricerca menti già iniziate da altri all’amore dello studio e della cultura. B.B. non era un comune insegnante universitario: era, a suo particolare modo, uno scienziato o un detective, anche se si occupava di lingua e di letteratura del mondo classico. Un bravo insegnante che abbia anche la stoffa del grande ricercatore trasmette ai suoi studenti un dono prezioso che trascende di gran lunga la materia specifica che insegna. Mentre tiene uno splendido corso su Ovidio egli insegna nel contempo, senza volerlo, a leggere e a comprendere – con lo stesso acume, la stessa profondità e la stessa onestà intellettuale – anche Shakespeare o Foscolo o, semplicemente, un articolo di giornale o, ancora di più, il mondo stesso. Fu così che B.B., durante i miei anni universitari, integrò e completò al meglio quanto avevo assimilato nei miei studi liceali. Fu grazie a lui che divenni intellettualmente una persona adulta.

E tuttavia B.B. non mi ha insegnato soltanto questo. A tutte le sue qualità professionali, infatti, egli affiancava anche un lodevole ‘difetto’ caratteriale, poco compatibile con il mondo universitario in cui lavorava: una rara dirittura morale. Era uno straordinario uomo di scienza, latinista e grecista originale, apprezzato più all’estero che in Italia (il che è molto significativo), eppure non volle mai partecipare, in nessuna misura, del potere feudale della nostra accademia.  Anzi: la sua indole fierissima di battitore libero e indipendente lo poneva spesso e volentieri in guerra aperta e senza quartiere coi signori del castello. Se solo una parte dei docenti universitari di casa nostra avesse mai seguito il suo esempio professionale, i suoi principii etici, il suo stile, la nostra università sarebbe da tempo guarita dai molti mali che da sempre la affliggono. B.B. invece ha voluto e dovuto contrastare da eroe solitario le tante storture del sistema baronale nostrano. Non so se e quanto sia riuscito a vincere la sua guerra personale, ma certo l’ha combattuta, fino all’ultimo giorno in cui è stato in cattedra, con un coraggio ed una coerenza ammirevoli. Ci ha in questo modo insegnato che la libertà, la dignità e il rispetto della giustizia (la Dike esiodea) – anche in un contesto del tutto ostile – non hanno prezzo: è questa, credo, l’eredità più grande e impegnativa che, sul piano umano e morale, lascia a me come a tutti i suoi ex allievi che insegnano oggi dispersi in vari licei delle Marche e non solo. Una lezione indimenticabile. Unica.

Tibi sit terra levis, magister.

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Presso la rivista online Letture.org è appena uscita una mia intervista intorno al mio volume miscellaneo di contributi di filologia e letteratura classica e leopardiana Noctes vigilare serenas, pubblicato alcuni anni fa presso l’editore Aracne:

L’intervista offre una riflessione sintetica, divulgativa e aggiornata su autori e tematiche affrontate nel libro. Vi si parla nella fattispecie di aspetti importanti della personalità e dell’opera di Esiodo, di Archiloco, di Tucidide, di Lucrezio e di Orazio, oltre che di Giacomo Leopardi. Credo perciò che possa risultare una lettura utile in sé (riguardando grandi scrittori del mondo antico e moderno) oltre che propedeutica, per chi volesse approfondire i singoli argomenti, alla conoscenza diretta del libro.

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Notte nazionale del Liceo Classico, recitazioni, concerti e degustazioni a  tema Eventi a Ravenna
Il Palmieri partecipa alla "Notte Nazionale del Liceo Classico" | Telerama  News

Nell’incipit dell’Iliade, dove si racconta che Apollo, offeso dall’empietà di Agamennone, scende dall’Olimpo con la pessima intenzione di sterminare gli Achei, la nera collera del dio è paragonata all’oscurità della notte:

[Apollo] scese giù dalle cime d’Olimpo, il petto gonfio di rabbia,

arco in spalla e faretra chiusa d’ambo i lati. L’ira lo ardeva:

dietro le spalle, ad ogni passo, le frecce tintinnavano.

E lui scendeva, nero come la notte.

[Il. I 44ss.]

In un celebre passaggio della Teogonia di Esiodo, dove si parla di tenebrose entità figlie del Chaos primigenio, spicca la progenie numerosa e davvero poco raccomandabile di Notte:

Notte partorì l’odioso Fato e la nera Kere

e Morte, e diede alla luce Sonno e generò la stirpe dei Sogni.

[…]

Notte funesta generò anche Nemesi, rovina

per gli uomini mortali; dopo di lei partorì Inganno

e Amore, Vecchiaia rovinosa e Contesa dal cuore violento.

(Es. Theog. 211ss.)

È curioso che proprio studenti e insegnanti del liceo classico, quelli che hanno (avrebbero) ancora il compito e il privilegio di conoscere e meditare direttamente questi antichissimi testi, rilancino oggi un archetipo così famoso e tradizionalmente spaventevole (e duraturo, con questo significato negativo, nel nostro immaginario e nella nostra cultura) in un senso diametralmente opposto rispetto a quello di Omero e di Esiodo. Da qualche anno a questa parte, nel liceo classico, Notte evoca infatti soprattutto l’evento più luccicante e mondano di questo tipo di scuola, la punta di diamante delle sue iniziative autopromozionali : La notte nazionale del liceo classico. Tutti i licei classici ormai celebrano la loro Notte. Ma per una sorta di enantiosemia la minacciosa oscurità, reale e metaforica, della notte omerica ed esiodea diventa, per questa occasione, la luce (artificiale), sfavillante e psichedelica, di un happening pubblicitario. Notte festosa e luminosa. E soprattutto illuminante. Sì, perché in questa notte speciale studenti e insegnanti, spesso agghindati in costumi d’epoca e tra colonne doriche di polistirolo, cercano di illustrare al mondo la appetibile vitalità del loro corso di studi offrendone al pubblico un catering di assaggini rapidi e sfiziosi: brevi performances teatrali e musicali di drammaturghi e di poeti classici, minirecital di Orazio e di Seneca – ma rigorosamente alternati, si badi bene, con pezzi di Beckett, De André, Shakespeare, Bulgakov e Jovanotti ecc… non accada che la gente pensi che il classico insegni ancora solo robe ammuffite e che proprio per questo stia meritatamente schiattando di decrepita vecchiezza… No, anzi, guardatelo bene! È ancora arzillo, persino ringiovanito, come i vegliardi delle Baccanti euripidee o il Demos di Aristofane! Vale la pena, insomma, frequentarlo perché – udite udite! – il classico di adesso è di tutto e di più: una scuola vecchia e nuova, antica e moderna, per almeno un paio di buoni motivi: primo perché l’antico è sempre attuale, visto che si può studiare anche sul computer; secondo perché, insieme al latino e al greco, al classico si insegna adesso anche tanto inglese e persino molta matematica, fisica e informatica, e si fanno pure tante altre attività integrative e ricreative…

Ma no, no, per favore, no! Raccontiamocela giusta, cari ragazzi ed ex colleghi della Notte: le cose non stanno propriamente così.

Da decenni il classico – si mormora malevolmente in giro – è un moribondo in prognosi riservata. In realtà, da un bel po’, io temo che il classico sia piuttosto (qui esagero per farmi capire meglio) un morto che cammina. Continuerà a camminare fino a quando qualcuno dall’alto non avrà la forza (e la spudoratezza) politica di seppellirlo. I pochi che si iscrivono ancora al classico sono sempre gli stessi, con lo stesso retroterra familiare e sociale e le stesse motivazioni: figli di persone che hanno frequentato a loro volta il classico; figli di una certa borghesia media o alta (molto più impiegatizia che imprenditoriale: insegnanti, medici, funzionari pubblici); qualche sparuto figlio di nessuno o di papà che avverte una vocazione speciale e precoce per le lettere e le arti e una concomitante allergia per la matematica; qualche ragazzino troppo timido e introverso che teme la giungla di una scuola tecnica o professionale… Questo è il piccolo bacino di reclutamento del classico – si badi bene: una pozzanghera residuale che si va prosciugando. Quasi nessuno sceglie(rà) questa scuola – non illudiamoci – solo perché folgorato dalle luci della sua Notte. Il classico, ahilui, è già defunto e non lo sa. Il latino e il greco si continuano a studiare, da anni ormai, più che altro per finta: tirando giù da internet tutte le traduzioni già bell’è pronte, da quelle dei testi classici a quelle delle versioni, fino alle singole frasette. Così quasi più nessuno (con alcune lodevoli eccezioni) suda e si allena sulle lingue antiche, questa palestra formidabile di metodo trasversale che gioverebbe ancora molto, se venisse davvero praticata a dovere, a tutte le altre discipline. Ma tant’è: nel classico-zombie-frankenstein di oggi il tempo per studiare il greco e il latino è sempre di meno e il peso – ineludibile – delle materie o degli argomenti più ‘moderni’ aggiunti, dei progetti à la page, delle varie attività extra è schiacciante. Il copia e incolla delle traduzioni rimane per molti l’unica scorciatoia. Il classico, quello originale, è morto. Pace all’anima sua. Morte (astruse, specialistiche, lontanissime dalla forma mentis di un ragazzo medio di oggi) sono le lingue che il classico si ostina ancora ad insegnare. Come si può realisticamente pretendere, lo dico sapendo di inimicarmi forse un po’ di gente, che in tempi come questi lo stato continui a finanziare una scuola del genere? In Europa e nel resto del mondo in effetti non esiste niente di simile. Il classico è morto, rassegniamoci. Nessuna magica notte lo risusciterà. Quello che resta doveroso fare, secondo me, non è tenerne ancora in piedi la salma imbalsamata, ma salvarne l’anima, raccoglierne al meglio la preziosa eredità. E l’eredità del classico può essere raccolta solo da una scuola liceale ben riformata, riorganizzata, non saprei con esattezza dire come, ma di certo diversamente da adesso. Una scuola liceale magari unificata ma con percorsi diversificati, nella quale lo studio della lingua greca e latina rimanga opzionale. Ma nella quale la grande eredità della civiltà classica (poesia, teatro, storiografia, archeologia) diventi comunque (un po’come è accaduto per la filosofia greca e la storia dell’arte antica) parte integrante dello studio di tutti quelli che la frequentano.

[PS: Diversi anni fa, nel post Perché salvare il liceo classico, mi esprimevo in modo più ottimista circa lo stato di salute di questo corso di studi. Adesso sono diventato parecchio più scettico. Ma, a guardar bene, le prospettive che, con dispiacere ma con molto realismo, indico ora per questo tipo di scuola (che ho molto a cuore perché ci ho insegnato per una vita) non sono nella sostanza diverse da quelle che indicavo allora: bisogna passare attraverso una sensata e complessiva riforma della scuola liceale]

[PS bis: non ho voluto affatto pronunciare in questo post un giudizio di valore sul liceo classico in sé, ma constatare un dato di fatto, una sorta di necessità storica: il classico così com’è (diventato) è ormai largamente superato dai tempi, purtroppo. Questo non significa ovviamente che non vi siano tuttora nel liceo classico studenti e insegnanti di valore. Tutt’altro: ce ne sono molti. Ma non è questo il punto. Il punto è che questo genere di scuola a mio avviso può sopravvivere solo trasformandosi (meglio forse: annullandosi) intelligentemente in qualcosa di diverso, non solo dal suo passato storico, ma anche e soprattutto dall’ibrido attuale.]

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Il poeta deve nascondere il male, non metterlo in mostra, né insegnarlo. Ai bambini fa scuola il maestro, ai giovani la fanno i poeti. Dunque è nostro dovere non dire altro che cose oneste. (Aristofane, Rane, vv. 1053ss.).

Così il comico ateniese Aristofane fa dire ad Eschilo (che era il suo tragediografo preferito) per condannare Euripide e il suo (per i tempi – siamo nel V sec. A.C.) modernissimo realismo scenico. Aristofane scambia cioè la straordinaria capacità euripidea di rappresentare gli esseri umani così come sono per diseducativo incitamento alla trasgressione dei principi etici della tradizione. E la stigmatizza appellandosi a una concezione moralistica dell’arte tragica (che nella Grecia di allora era tradizionale e ancora diffusa) che pretendeva da essa il ruolo quasi scolastico di educatrice del popolo.

Sul piano estetico le posizioni di Aristofane sono da tempo superate. Ma sul piano pedagogico non direi che egli sollevi un problema per noi ormai del tutto inesistente. Anche oggi chi insegna ai giovani attraverso la letteratura può nutrire il dubbio se proporre o meno un grande autore che, come (o  peggio di) Euripide, rappresenti in maniera troppo cruda e diretta vizi, perversioni, meschinità, malvagità degli esseri umani, o esprima egli stesso (l’autore intendo) troppo apertamente nelle sue pagine sentimenti e pensieri poco consoni con l’elevato ideale etico ed antropologico maturato negli ultimi decenni dalla nostra civiltà. Si pone cioè, per dirla in sintesi con un termine alla moda, il dubbio del diritto di cittadinanza, nelle nostre scuole, per autori importanti ma oggi troppo politically uncorrect. Esiodo e molti altri greci antichi, per esempio, sono spudoratamente antifemminili. Tacito, Dante, Céline, Kerouac (per citarne solo alcuni in ordine sparso tra l’antico e il moderno) sono talora xenofobi e/o omofobi. Ovidio è spesso sessista. Machiavelli un immorale dichiarato. Quanto ai misoneisti reazionari e retrogradi, se ne trovano a iosa e a qualsiasi latitudine spazio-temporale.

Ma si tratta per lo più di un falso dilemma. Quando ci accostiamo alla letteratura o all’arte in generale, la presenza nell’opera di vere  o presunte pecche morali non può e non deve costituire motivo alcuno di censura estetica. L’arte vera – piaccia o no (e mi preoccupano molto quelli cui questo assioma non piace, come il vecchio Platone) – è al di sopra della morale, al di là del bene e del male proprio mentre (e perché) ne rappresenta, nella maniera più visibile e cruda e perciò, direi, paradossalmente e autenticamente educativa, lo scontro o l’intreccio.

Anche i più sacrosanti ed avanzati principi dell’etica dominante diventano invalicabili e ottusi pregiudizi – ideologici, bacchettoni o radical chic – quando giungano impropriamente a interferire col giudizio artistico. Perché impediscono l’accesso alla completa e profonda intelligenza delle grandi opere e ne possono favorire manomissioni ermeneutiche o appropriazioni ideologiche indebite o, peggio ancora, inaccettabili censure.

Certo: misura e gradualità in relazione all’età di chi ci sta davanti sono d’obbligo per chi propone pagine letterarie agli adolescenti. Ma bisogna sempre considerare che le verità che la grande letteratura ci squaderna sono sempre più educative di mille mediocri letture edificanti o conformiste, capaci soprattutto di alimentare l’ipocrisia. Che quello che si guadagna in maturità di visione, complessità di pensiero e profondità di sguardo leggendo certi autori è sempre, enormemente di più di quello che si rischia di perdere in (improbabile) purezza ed in (presunta) innocenza. E l’innocenza per parte sua va – prima o poi, con tutta la cautela e la misura che si deve – turbata e confusa, se si vuole aiutare una persona a diventare adulta.

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Risultati immagini per resilienza tatuaggioDa una Resilienza reattiva a una Resilienza "Adattiva" - CYBERSECURITY &  RISK MANAGEMENT PROGRAM

« Resilienza. Chi sarebbe costei?» Così- lo confesso- reagii tra me e me, da perfetto Don Abbondio, quando una studentessa, brava e brillante ma troppo fiduciosa nella mia tuttologia, mi chiese consigli a proposito di una tesina di maturità che voleva intitolare in questo modo. Se non conoscessi il latino (che mi suggeriva grosso modo l’idea del “rimbalzare indietro o contro qualcosa”) quel vocabolo mi sarebbe suonato totalmente estraneo. Ne ignoravo l’accezione corrente pur intuendo che si trattava dell’ennesimo anglo-latinismo. Cercai subito sul dizionario che mi rimandava soprattutto a significati scientifici del termine. Poi scovai una voce nel sito dell’Accademia della Crusca che mi chiarì molto circa la storia di questa parola. Resilienza è infatti da qualche anno (specie dall’inizio della crisi economica) un termine alla moda e significa adesso (al netto di tutte le altre accezioni più e meno settoriali assunte nel corso dei secoli): capacità di assorbire i colpi della sfortuna, i mali della vita, e di saperli trasformare con positiva capacità di reazione in occasioni di riscatto. Un rimbalzo virtuoso, una risposta positiva – insomma – e vincente agli schiaffi del principio di realtà. Era su questo tema che la mia alunna intendeva costruire la sua tesina.

Ammetto che a questo punto mi ero illuso (e mi sentivo gratificato dall’idea) che resilienza potesse nobilmente riproporre, a suo proprio e aggiornato modo, un concetto davvero molto arcaico ma basilare della civiltà occidentale: quello che mi piace definire il pessimismo attivo o agonistico sul quale (o insieme al quale) è nata la civiltà greca. Per capirci: Ettore che combatte da eroe contro Achille a dispetto della certezza, appena acquisita, di un destino segnato; Esiodo che sprona il fratello al lavoro mentre per la specie umana – giunta alla sua massima degradazione nell’età del ferro – Zeus prepara il totale annientamento; gli eroi e le eroine della tragedia, da Edipo a Antigone, che sfidano un fato ineluttabile; i Meli che si oppongono (sapendo di soccombere) agli Ateniesi; fino al titanismo e alla ginestra di Leopardi.

Ma poi, indirizzato dalla pagina della Crusca, mi metto a cercare sul web e realizzo molto presto che resilienza non è altro che un modo di risignificare il solito (americanoide) ottimismo obbligatorio, la fiducia il-limitata nel proprio successo contro le avversità, l’ illusione che lo stretto limite segnato dal dolore e dalla sconfitta all’agire umano si possa comunque superare, purché si abbia l’energia e il coraggio di tentare. Non per caso il tatuaggio di questa parola è diventato una moda a partire (guarda guarda!) dall’esempio di un imprenditore nostrano che ha avuto grande successo sul web. No, mi sono detto, non può venire nulla di serio – antropologicamente parlando – dal cervello di un industriale che si mette a filosofeggiare, se non la solita minestra riscaldata (ma pur sempre appetibile) di facili ricette edificanti. Questa resilienza è infatti il desiderio che si sostituisce alla realtà anziché confrontarsi attivamente con essa. Una parola nuova e furba, adattata ai tempi della crisi, che ricicla slogan vecchi o vecchissimi: volere è potere, yes we can, le magnifiche sorti e progressive, suae quisque faber fortunae etc. Così intesa la resilienza non propone altro che la solita rimozione del male, dello scacco e della morte, inciampi intollerabili per una civiltà ancora ubriaca di edonismo e sempre avvelenata dal vangelo consumistico- aziendalista.

Questa resilienza qui – una patacca, credetemi – non ha proprio niente a che fare con il pessimismo agonistico degli antichi greci. Per il semplice motivo che pretende, assurdamente, che il male – quando si presenta – sia in un modo o nell’altro destinato alla sconfitta purché noi sappiamo debitamente combatterlo. La morale perversa di questa storia è sempre la stessa: la sventura abbatte solo chi non sa affrontarla. Ergo: lo sventurato è in certa misura colpevole della sua sventura, almeno in quanto non sa attrezzarsi per contrastarla. Non è insomma, poverino, adeguatamente ‘resiliente’.

Gli antichi Greci (i fondatori della nostra civiltà) dicevano invece che quel male vince sempre, alla fine, a prescindere dalla virtus di chi lo affronta o lo subisce. Che quel cerchio che ci stringe è comunque insuperabile. Ma che nonostante questo bisogna combattere, espandere con tutta l’energia la propria virtù per tutto il limitato spazio che ci è concesso. Ben altra musica. Il loro era un eroismo disperato e tragico, ma comunque fattivo. Una sfida ad un limite inamovibile e fatale, alte haerens. Un destino che non si sognavano di ridurre a variabile dipendente di uno pseudo-umanesimo da telenovela o da spot pubblicitario.

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Diverso tempo fa un genitore, mentre si parlava durante un colloquio non ricordo più di quale argomento pedagogico, se ne uscì con una affermazione tanto accorata quanto perentoria: Se si vogliono educare i giovani, l’ultima cosa che si deve fare è uccidere le loro speranze!

Una frase che lì per lì mi colpì e poi mi rimase inchiodata dentro, per un po’, dopo quel colloquio.

Come succede per le belle, apodittiche sentenze, quelle che paiono creare e significare per il solo motivo che suonano bene.

Come succede quando una di queste frasi – così categoricamente accusatorie – vanno involontariamente ad affondare il dito nella piaga di qualche nostro inconsapevole, oscuro senso di colpa.

Avevo forse commesso anch’io quell’ errore così imperdonabile?

Mi ero mai macchiato dell’orribile colpa di omicidio delle speranze giovanili?

No, non era possibile – mi risposi fra me e me, su due piedi. Altri forse l’avranno fatto. Non io che ho sempre insegnato l’agonismo degli eroi greci, il vitalismo dei poeti antichi, il culto della virtù e della saggezza che infiamma tanti autori classici…

Ma poi cominciai a riflettere che proprio lui, il padre Omero, al culmine della scena del duello fra Ettore e Achille (quella che leggo sempre a ragazzini sedicenni), ci presenta il troiano ormai di fronte a un destino segnato, pesato poc’anzi sulla bilancia della sorte da Zeus in persona – e il piatto è sprofondato giù, nell’Ade, senza rimedio. Atena fedifraga, che aveva illuso Ettore presentandoglisi sotto le mentite spoglie del fratello Deifobo, passa scorrettamente le lance ad Achille. Ettore di colpo capisce. Capisce tutto. Che non si tratta del fratello, ma della dèa che lo perseguita e che sta collaborando col suo avversario e col fato per farlo morire.

Ettore in quel momento non ha più speranze. Gli dèi stessi gliele hanno uccise prima che egli stesso sia ucciso dalla lancia di Achille:

M’è accanto ormai la mala morte, non è più lontana

né la si può evitare […] Ormai m’ha raggiunto la Moira

E allora che fa? Si rassegna alla sconfitta? Si lascia abbattere senza resistere? Rinuncia alla lotta?

Neanche per sogno:

Ebbene, non senza lotta, non senza gloria morirò,

ma avendo compiuto qualcosa di grande, tale

che anche i posteri lo sapranno. 

[Iliade, XXII, 300ss.]

Ettore è uno che lotta di più proprio quando gli hanno già ammazzato la speranza. Un paradosso. Valli a capire questi Greci antichi che traevano il coraggio di agire dalla disperazione.

Vai a capire anche Esiodo, quello che raffigura la speranza come un male rimasto intrappolato nel vaso di Pandora; e tratta pure da sciocchi i contadini suoi colleghi che, anziché lavorare sodo, si affidano alla speranza vuota di una stagione favorevole e di un tempo atmosferico propizio.

Vai a capire anche Sofocle che santifica Edipo solo quando il dio lo ha indotto a strapparsi di dosso tutte le illusorie aspettative di essere un benefattore (potente, intelligente, innocente) dei suoi sudditi e lo ha fatto accecare davanti allo specchio rivelatore della sua orribile e colpevole e disperata nullità.

Prova a capire pure Tucidide che, per bocca degli Ateniesi, fa dare degli ingenui ai Meli perché si affidano alla speranza che gli dèi (oltre che gli Spartani) li aiuteranno contro nemici più potenti di loro…

Speranze, speranze, ameni inganni…. toh, il mio caro Leopardi! Per fortuna non lo insegno, ma ogni tanto in classe, per troppo amore, lo cito; e di lui mi viene in mente pure una delle ultime frasi dello Zibaldone, ripresa poi nel Dialogo di Tristano, dove si dice, più o meno, che la maturità vera e il più grande eroismo di un essere umano consistono nell’accettare l’idea di non avere nulla a sperare.

Accidenti: io tratto a scuola questi autori, propino queste lugubri elucubrazioni di cervelli malati di pessimismo, potenziali, esiziali corruttori della gioventù? Dunque, se non sono un killer delle speranze giovanili, sono quanto meno accusabile di apologia di reato o di favoreggiamento….

Aveva dunque ragione quel genitore.

Il suo anatema mi riguardava, in qualche modo.

Questi bandierai del pensiero negativo, questi antiquati autori dell’antiquata grecità – questi hope killers – andrebbero rimossi dalla scuola!

Insieme ai prof che ancora li insegnano.

Un motivo in più per abolire il liceo classico.

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Che non siamo ancora i tacchini

di Popper l’antivigilia di Natale

che il sole varcherà l’uscio

nostro domani senza disturbare

spegnendo distratto l’ennesima

notte come un mozzicone

gettato tra l’incavo della suola

e la soglia lisa di marmo

della prossima aurora, questa

è la carta che sempre siamo pronti

a rilanciare, anche quando fuori

sul balcone afflitto di pioggia sigilla

una sera di piombo i nostri

dadi nell’infrangibile

vaso di Pandora.

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Esiodo, sempre lui, è vissuto quasi tremila anni fa, eppure contiene riflessioni di incredibile attualità. Per esempio, quando dice che

tale è la legge che agli uomini impose il figlio di Cronos:

ai pesci, alle fiere e agli uccelli alati

di mangiarsi fra loro, perché fra loro giustizia non c’è;

ma agli uomini diede giustizia che è molto migliore.

[Erga, 276ss.]

mi sembra che egli opponga a tutti i vocianti profeti del liberismo d’oggigiorno – quelli che pensano che la civiltà umana si realizzi regredendo sic et simpliciter alla sua vorace, predatoria e incontrollata animalità – una obiezione insuperabile e non sospetta (vista la remota e rozza società contadina in cui Esiodo è vissuto) di pericolose infezioni ideologiche stataliste o, peggio ancora, socialiste, del secolo scorso.

Lui che, d’altra parte (sempre ne Le opere e i giorni), è un genuino assertore della competizione virtuosa, quella che

anche chi è pigro risveglia al lavoro;

perché se uno non lavora e guarda un altro che,

ricco, si sforza di arare e piantare, e di far prosperare la casa,

è allora che il vicino invidia il vicino, che si adopera

per arricchire; e buona è questa contesa per gli uomini;

e il vasaio è emulo del vasaio, e il fabbro del fabbro

[Erga, 20ss.]

Ma non si sogna minimamente di separarla – questa competizione –  dalla Dike, anzi reclama che essa sia sottoposta al controllo delle giuste regole e delle giuste sentenze, cioè alla legge dell’ equità. Non a quella della giungla.

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Nel mito delle età degli Erga, Esiodo dice – a proposito della stirpe dell’età argentea- che essa non era rispetto alla precedente stirpe dell’oro

né per l’aspetto simile né per la mente,

ché per cent’anni il fanciullo presso la madre sua saggia

veniva allevato, giocoso e stolto, dentro la casa…

Fanciullaggine e immaturità degli individui non arriveranno forse oggigiorno a toccare la vecchiaia, come nel mito esiodeo. Ma è indubbio che la società del piacere e della deresponsabilizzazione (accentuata, da noi, dal mammismo cronico) protrae oltremisura in molti adolescenti dell’ultima generazione un habitus psicologico (soprattutto nella sua componente etico – comportamentale) infantile. Ma l’orologio ormonale non si accorge, ovviamente, di questo ritardo e compie puntuale il suo giro. Qui sta il busillis: nella terra di mezzo dove oramai infanzia e pubertà, anziché darsi il cambio, troppo a lungo si sovrappongono e si abbracciano; e stentano a svilupparsi e a separarsi tempestivamente l’una dall’ altra, come una volta accadeva.

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