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Leggere per non dimenticare: presentazione del libro "Odiare l'odio" di  Walter Veltroni
Il neopuritanesimo non è la strada della sinistra | About…

Non leggo mai libri in classifica, meno che mai quelli scritti da nostri politici. E tuttavia il titolo di un recente libro di Walter Veltroni Odiare l’odio, mi sconcerta e mi fa riflettere. Sconcerta perché il gioco di parole contiene una contraddizione in termini: se si odia il sentimento stesso dell’odio, infatti, quel sentimento, paradossalmente (per quanto indirizzato all’odio stesso) si afferma (e si ammette) di provarlo comunque: si dichiara insomma di non esserne esenti. Questo è il punto critico imbarazzante. Inoltre se l’odio è, come sono convinto che sia, parte integrante della natura umana e non lo si può estirpare senza mutilarla, ne consegue che l’odio verso l’odio non può essere altro che una forma di avversione (distorta, e potenzialmente addirittura patologica) nei confronti della natura umana nella sua integrità. Chi odia l’odio odia la natura umana.

Parlo di mutilazione e mi viene non per caso in mente Il visconte dimezzato di Italo Calvino. In quell’ apologo bizzarro e paradossale (per l’appunto) l’interezza dell’essere umano, il suo impasto irriducibile di bene e di male, viene scissa da un colpo di cannone e le due metà continuano a vivere separate: ma non sono più veri uomini, bensì un mostro di malvagità (ferina e immotivata) il primo e una caricatura di bontà (stucchevole e controproducente) il secondo. Sono insomma una dimostrazione per assurdo della insensatezza di ogni facile dualismo etico e, soprattutto, del rischio che comporta ogni tentativo, anche nobile, di sradicare il male dall’uomo riducendolo alla sua sola componente ‘buona’.

In altre parole chi odia l’odio è uno che vorrebbe riplasmare l’uomo ex novo. Retropensiero allettante ma pericoloso. Affermazione utopica, ovvero ultraideologica e potenzialmente totalitaria (non sto parlando a questo punto del pensiero di Veltroni, ma sto semplicemente deducendo conseguenze logiche generali dall’assunto espresso nel titolo del suo libro). L’uomo nuovo emendato dall’odio era l’obiettivo rivoluzionario del cristianesimo delle origini e sappiamo che in duemila anni di storia umana questo nobile progetto di rinnovamento spirituale e antropologico (almeno qui sulla terra…) ha dato scarsissimi frutti e ha prodotto anzi, in certe epoche, crociate e tribunali dell’inquisizione, oltre che un mare di ipocrisia. L’uomo nuovo – la palingenesi della natura umana – è stato altresì l’obiettivo principe dei totalitarismi e dei terrorismi vari del novecento. Sappiamo com’è finita.

Anche perciò chi – coram populo – dichiara guerra all’odio ed esalta l’amore va sempre guardato con legittimo sospetto.

Chi dichiara guerra all’odio e assolutizza il suo contrario potrebbe perseguire il secondo fine del dominio delle coscienze, cioè il più diabolico dei poteri (non per caso il Grande Fratello orwelliano aveva istituito il Ministero dell’Amore)

Chi dichiara guerra all’odio, inoltre, è uno che non vede (o non vuole vedere) le ingiustizie, le storture e le colpe che dell’odio costituiscono le radici profonde: di quelle radici l’odio è soltanto la chioma visibile. Se la si taglia lasciando intatte le radici l’albero ricrescerà.

Sì perché l’odio – semplificando senza voler rubare il mestiere a psicoanalisti e filosofi morali – è figlio di due genitori: l’uno è il disagio psichico soggettivo della persona (la frustrazione, l’insoddisfazione di sé, il difetto di autostima ecc) che si proietta all’esterno, l’altra è la ingiustizia oggettiva (nelle sue varie forme di oppressione, di conflitto, di sopruso e di violenza) nei rapporti umani, sociali ed economici.

Chi vuole sopprimere l’odio rinuncia, per ottusità o tornaconto, a capire e a curare il primo (il disagio psichico) e a sanare la seconda (l’ingiustizia). Si limita a condannarne o (peggio ancora) a perseguitarne e reprimerne l’effetto. A combattere la febbre anziché curare la malattia.

L’odio dell’odio insomma può nascondere la malafede di un disegno di potere (quando quel potere teme l’odio come reazione legittima alla sua ingiustizia), oppure un buonismo miope ed ottuso che può degenerare in un neo-puritanesimo aggressivo (ed essere pericolosamente strumentalizzato in chiave politica). 

E qui vengo al punto che mi preme personalmente di più.

Le nuove crociate contro l’odio potrebbero prendere di mira la grande letteratura. Sta già accadendo (è già accaduto) da varie parti qualcosa, ahimè, di molto simile e di profondamente inquietante.

Si stanno già condannando all’indice giganti della letteratura mondiale solo perché contengono personaggi, pensieri o situazioni non conformi ai nuovi totem (e tabù) del politically correct come il femminismo o l’ambientalismo o l’antirazzismo o l’anticolonialismo. Valori o ideali morali e civili – questi ultimi – nobili ed indiscutibili in sé, beninteso, ma che niente hanno a che vedere con la qualità o con l’essenza di un’opera d’arte.

Se questa assurda campagna moralistica di discriminazione letteraria si allargasse all’odio ecco che dall’epurazione non si salverebbe, tra i classici della letteratura, quasi nessuno: né l’Iliade dove gli Achei odiano i Troiani, né l’Odissea dove Ulisse odia (e stermina) i Proci, né Tacito che odia gli stranieri, né Dante che odia certi papi, né Leopardi o Verga che odiano il progresso ecc. ecc. (ma l’elenco potrebbe essere infinito). L’Orestea di Eschilo o l’Amleto di Shakespeare verrebbero radiati da scuole, librerie e biblioteche.

Sì perché l’autentica letteratura è lo specchio fedele (non certo il giudice morale) della natura umana. Perciò non esiste grande letteratura senza odio (e senza amore, certo: ma perché è il suo pendant complementare e naturale, l’altra faccia dell’odio stesso).

Prepariamoci dunque al peggio perpetrato, in nome del “bene” e dell’”amore”, ai danni della grande letteratura. A nuovi roghi dei capolavori del genio umano sull’altare dell’idiozia benpensante.

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Il Manuale di Scienze umane Pedagogia Psicologia - Pedagogia ...
Fedor Dostoevskij: la libertà del bene e del male

«A un ragazzino può essere detto tutto, proprio tutto. Mi sorprendeva sempre il pensiero che gli adulti conoscano così poco i bambini, persino i propri figli! Non bisogna nascondere nulla ai bambini col pretesto che sono piccoli e che certe cose non conviene le sappiano in così tenera età. Che pensiero triste e disgraziato! E come gli stessi bambini si accorgono bene che i genitori li considerano troppo piccoli e credono che non capiscano nulla, mentre capiscono tutto, invece! Gli adulti non sanno che spesso i bambini sono capaci di dare un consiglio prezioso anche in faccende molto serie…» (F. Dostoevskij, L’idiota, Garzanti, Milano 1980, p. 84 – Trad. di R. Küfferle con ritocchi)

Ascolto ripetutamente in questi giorni nei salotti televisivi litanie di giornalisti e opinionisti (e tra questi ultimi, spesso, psicologi, pedagoghi, sociologi) che tendono ad affermare il contrario di queste parole di Dostoevskij. Dicono che bambini e ragazzi vanno difesi dalla realtà, specie quando è troppo dura e traumatica, allontanati da ogni fonte di disagio e di sofferenza. Sottolineano in particolare che l’alterazione forzata delle loro abitudini di vita in questo periodo di emergenza (la clausura domestica, la lontananza dalle aule scolastiche) può aver causato danni incalcolabili al loro equilibrio psichico.

Chi ha ragione?

La mia lunga esperienza di insegnante e di genitore mi dice che ancora una volta il genio dell’artista ha còlto di più nel segno.

Non sempre invece le scienze umane, quelle psicopedagogiche in particolare, mi sembrano capaci di colpire il bersaglio allo stesso modo. Anzi ho spesso l’impressione che le loro affermazioni discendano più da edificanti ideali antropologici, astratti e precostituiti (e non poco condizionati dal mainstream culturale), che da una concreta ricerca sul campo della realtà umana. E che risultino perciò ben poco scientifiche e addirittura fuorvianti. Oserei azzardare che il bambino o il ragazzo di cui i pedagoghi parlano non sia proprio quello che si incontra nella vita quotidiana, familiare, sociale o scolastica, bensì un essere ipotetico o angelico, costruito e affermato a priori solo per suffragare la presunta coerenza e attuabilità delle loro belle teorie. Un bel circolo vizioso autoreferenziale, quasi inattaccabile, infalsificabile, direi.

Ma chi è (o è stato, come me) a contatto con degli adolescenti non può non fiutare nelle parole di Dostoevskij l’odore della autentica, ancorché misconosciuta ormai, natura dell’umano.

Difficile, secondo me, dargli torto: la persona giovanissima sa avvertire e comprendere l’avversità e il trauma, sa adattarvisi e reagirvi psicologicamente meglio degli adulti, proprio così come sa resistere fisicamente meglio a un virus ignoto. Non dico che non risenta di quel trauma, ancor meno che debba essere lasciato solo ad affrontarlo, ma sono convinto che sappia affrontarlo e metabolizzarlo con una elasticità ed una adattabilità – e una fantasia – superiore a quella dei suoi genitori e dei suoi nonni. Se presumiamo e addirittura teorizziamo invece che non sappia farlo, che sia un fragile esserino, indifeso e inconsapevole, esposto a tutte le insidie, ai colpi e alle minacce di un mondo per lui incomprensibile, questo accade forse perché gli adulti di oggi, imbevuti e infrolliti fino alle midolla da un edonismo miope ed egocentrico, proiettano indebitamente sui loro piccoli la propria paura e la propria rimozione totale del male, del dolore e della morte. Paura e rimozione che sono, da decenni ormai, la base inscalfibile della loro fragilissima forma mentis. Perciò gli adulti di oggi non educano più i loro figli: perché sono unicamente intenti a proteggerli, finché possono, dal mondo esterno dentro la campana di vetro, perfettamente asettica ed anestetizzata, del loro stesso paradiso artificiale. E da immaturi ed eterni ragazzini impediscono ai loro ragazzi di crescere.

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Chi fa letteratura non può che parlare di se stesso. Non ha altra fonte cui abbeverarsi o altro albero da cui nutrirsi se non quelli del proprio vissuto. Vale a dire l’immagine dell’uomo e della realtà che le lenti deformate della sua coscienza e della sua esperienza gli permettono di osservare. E tuttavia, quando maneggia letterariamente se stesso, l’autore deve farlo con la massima cura. Guardare e non toccare. Non farsene toccare. Osservarlo come attraverso un vetro infrangibile, dentro una teca o sotto l’occhio spesso del microscopio o del binocolo, come si trattasse dell’io e della vita di un altro. Oggettivarlo. Fatica ingrata e crudele. Ma indispensabile per creare qualcosa di buono.

La stessa legge vale per i grandi temi che emotivamente, istintivamente – come esseri umani – ci (scrittori e lettori) coinvolgono: la vita e la morte, il tempo e l’eternità, l’amore e l’odio, il bene e il male. Guai a trattarli troppo scopertamente. Senza nasconderli. Senza distanziarne adeguatamente – foscolianamente – la fiamma. Senza dissimularli dietro un disviante, torturante ‘parlar d’altro’.

Ma una volta fatto salvo questo presupposto irrinunciabile di straniamento e/o di allegoria – cioè d’apparente, astuta, disinvolta esibizione di distanza/estraneità rispetto a ciò che invece più ci sta a cuore – non c’è opera letteraria di qualche peso che non parli sostanzialmente di: vita, morte, odio, amore, bene, male ecc. Come non c’è autore che non parli, sotto qualsiasi forma, di se stesso.

Quando – per esempio – Giovanni Verga narra di Rosso Malpelo o dei contadini rivoltosi di Libertà, sembra prestare la sua arte a una funzione eminentemente storico/documentaria della Sicilia del tempo. In realtà la sottomette soprattutto all’urgenza di esprimere la sua propria (e tragica, e metastorica e, direi quasi, naturalistica) visione della società umana.

 

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Caro Seneca, il tempo

della vita ci è donato

prima – gratis e per amore

di un dio svanito, prodigo

e cieco – in sonanti

zecchini, perché ognuno

di noi ne faccia  poi

come peggio vuole

e scientificamente

gli usi più cretini.

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Non è per caso che infinità e imparzialità dell’amore siano attribuiti dai teologi solo alla divinità. Non si può infatti, da umani, profondere amore verso qualcuno senza sottrarne o negarne – inevitabilmente – ad altri.

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DE HOMINUM NATURA

Se chi parla con te ti dà sempre e immancabilmente ragione, delle due l’una: o ha una spina dorsale di cartilagine oppure una lingua biforcuta.

L’unica eccezione al mondo al principio di reciprocità (ovvero di azione-reazione) sembra essere quello della rottura di scatole: meno le rompi agli altri, più gli altri le romperanno a te. E viceversa. Curioso ma spiegabile paradosso: chi non rompe le scatole altrui, infatti, è ritenuto un debole. Perciò gli altri si sentiranno autorizzati – con presunta garanzia di impunità (= non-reciprocità) – ad approfittarne.

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