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Archive for febbraio 2023

Who has seen the wind?
Neither I nor you.
But when the leaves hang trembling,
The wind is passing through.
Who has seen the wind?
Neither you nor I.
But when the trees bow down their heads,
The wind is passing by.

Chi ha mai visto il vento?

Io no, e neanche tu.

Eppure, se le foglie oscillano tremando,

è lui, il vento, che le sta attraversando.

Chi ha mai visto il vento?

Non tu, e io nemmeno.

Ma se la chioma degli alberi si abbassa

è lui: è il vento che passa.

Christina Rossetti, (Sing Song, a Nursery Rhyme Book, 1872, trad. mia)

Mi credevo originale quando scrissi qualche anno fa una mia poesiola intitolata “Percezioni indirette“:

Sfollano passeri nella sera

dai rami, lo avverti al brivido

lucido delle foglie, come la danza

acrobatica del ragno al flettere

del filo della tela, e il frullo

in punta delle dita ai suoni

che divampano sul frigido

aplomb della tastiera.

(Pietra e farfalla, 2017)

Invece non era proprio così. Bisogna rassegnarsi, se si scrive poesia, al nihil novi. Senza sentirsi, peraltro, affatto sminuiti. Anzi. La originalità assoluta non esiste, almeno sul piano tematico. E la fratellanza poetica è un dono. D’altra parte la poesia (l’arte in generale) è un po’ come il sole oraziano: aliusque et idem nascitur, sempre

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Ogni tanto il solito giornalista o opinionista di grido getta il sasso nello stagno della scuola italiana. Sia chiaro: meglio parlarne che tacerne. Ma gli interventi di questi personaggi, con tutte le buone intenzioni che possono ispirarli, mi suonano parecchio sgangherati, da orecchianti, per intenderci. Lontani, comunque, molte miglia dalla realtà effettuale. Beppe Severgnini ha gettato il suo sasso dal Corriere, con il lodevole scopo di accendere i riflettori sulla nostra scuola liceale, sul classico in particolare, e ravvivare il dibattito intorno al suo attuale stato di salute.

Ho scritto parecchio su questo blog e nei miei libri intorno al liceo classico. Avendolo frequentato, da studente prima e da prof poi, per quasi mezzo secolo, credo di averlo fatto con cognizione di causa, ed anche perciò in maniera realistica, anticonvenzionale, tutt’altro che oleografica.

Severgnini dice del liceo classico cose, mi pare, piuttosto generiche e un po’ contraddittorie.

Prima, pensando forse al vecchio liceo dei suoi (e dei miei) tempi, dice che è una palestra formidabile dove esercitarsi strenuamente da adolescenti, prima di gareggiare da adulti. Sottintende con evidenza la metafora della ginnastica, dell’allenamento duro che prepara all’agonismo sportivo. Se ricordasse un po’ del greco antico aggiungerebbe magari che la parola palàistra (così come certi verbi attinenti agli esercizi che vi si svolgono, come ponèo o askèo) ha a che fare con la fatica e la lotta fisicamente intese, rimanda quindi, come metafora, ad una idea di sacrificio, di impegno, di sudore assidui, necessari nel presente per poter attingere a risultati futuri. Ma fin qui sarei molto d’accordo con lui. Un punto di forza del classico è (ancora) l’attitudine di diversi alunni che vi si iscrivono e di molti prof che vi insegnano a studiare e a lavorare seriamente, creando così l’habitat più adatto a maturare un metodo e una preparazione che trascendono le nozioni delle singole discipline.

Poi però, inspiegabilmente, Severgnini infierisce proprio contro gli insegnanti attuali del classico accusandoli di mortificare ancora oggi gli studenti con l’imposizione di un ingrato e anacronistico carico di lavoro, di uno studio “matto e disperatissimo”.

Qui Severgnini, oltre che contraddirsi, sbaglia di grosso. Va decisamente fuori bersaglio. Il classico degli ultimi due/tre decenni, infatti, non è più quello che io e Severgnini abbiamo frequentato. Allora quella palestra era molto più dura ed era fatta principalmente di greco e di latino: cioè di esercizio stremante e apparentemente ingrato e inattuale (soprattutto nel primo biennio) perché concentrato in gran parte sulle lingue antiche e sulla traduzione dei loro classici. Allora forse si poteva parlare (ma fino a un certo punto, senza generalizzare) di studio ‘matto e disperatissimo’, imposto ancora in modi un po’ autoritari ed ottocenteschi: cinque ore di scuola la mattina e altrettante (se non di più) di compiti pomeridiani.

Oggi chi frequenta seriamente il classico deve ancora studiare abbastanza, è vero. Ma intanto non si esige più, come ai tempi miei e di Severgnini, di farlo altrettanto seriamente. La selezione allora – lo ricordo bene – era spietata. Oggi il tasso di respinti e ‘riorientati’ dal classico verso altre scuole è irrisorio rispetto a quei tempi. E soprattutto studiare oggi al classico (per chi vuole ancora farlo sul serio) risulta gravoso sì, ma per ben altri motivi. Non certo perché ci siano ancora al classico, come li chiama Severgnini, prof ‘cattivi’, sadici Kapò che si incarogniscono contro i ragazzi torturandoli con uno studio disumano fatto di polverose nozioni e di regolette di grammatica. Tutt’altro… Se esistessero ancora, questi prof finirebbero subito impallinati dalle famiglie, verrebbero subissati di proteste e di esposti alla presidenza e neutralizzati quanto prima dai dirigenti scolastici. Il metodo dirigenziale, che gli addetti ai lavori conoscono bene, è quello infallibile della “spalmatura” dell’eventuale prof ‘fanatico’ su molte classi contemporaneamente e su piccoli spezzoni di orario, condannato cioè a insegnare solo geografia o geostoria (magari) in molte sezioni o, meglio ancora, esiliato in qualche innocuo progetto extracurricolare.

I tempi sono cambiati. Uno studente del classico di oggi non passa più tutti i santi pomeriggi a studiare senza poter fare altro. Anche perché lui, il ragazzo di oggi, anche il più volenteroso, ha molto più da fare, di pomeriggio, rispetto a noi, ragazzi di allora: ha la sua ora di palestra, di allenamento, di musica, di attività ricreativa programmata ecc.; ma soprattutto dedica un’enormità di tempo al suo smartphone, cazzeggiando per ore coi suoi amici sui social o girovagando sul web.

E allora perché chi frequenta il classico lamenta ancora, oggi forse più di prima, il peso di uno studio opprimente, eccessivo rispetto ad altre scuole? Semplice, direi, per due motivi.

Primo: il classico di oggi, grazie alle ‘riforme’ ministeriali e all’autonomia, ha aggiunto al latino e al greco una enormità di apprendimenti e di attività ulteriori e collaterali ‘moderni’ che non esistevano ai nostri tempi. Il classico non è più da tempo la vecchia scuola (coi suoi pregi e i suoi limiti) incentrata soltanto sul latino e sul greco. Molti ragazzi, proprio perciò, non ce la fanno oggettivamente a reggerne tutto il peso. In genere (come ho già scritto altrove) si arrangiano, cercano varie scorciatoie (la più nota è, per latino e greco, la copiatura acritica, di sana pianta, dal web di frasi e di versioni già tradotte) e così eludono il momento più importante ed efficace dello studio, che è la fatica della rielaborazione lenta, metodica e personale di quello che hanno appreso in classe.

Secondo: il peso dello studio viene avvertito (‘percepito’) oggi anche e soprattutto soggettivamente, cioè in relazione al tempo che si è disponibili, oggi rispetto a ieri, a concedergli. Ai nostri tempi sei ore pomeridiane potevano ben essere occupate da quattro/cinque ore di studio più una o al massimo due di oratorio o di passeggiata. Oggi ben oltre la metà almeno di quelle sei ore sono dedicate a interessi e attività extrascolastici che spesso non si è minimamente disposti (a ragione o a torto) a sacrificare a favore dell’impegno richiesto da una scuola liceale. E il peso più gravoso, si sa, è quello che non si desidera portare…

[PS.: Ringrazio Severgnini per aver linkato nella sua rubrica Italians questo mio post alcuni giorni fa:https://italians.corriere.it/2023/02/14/lettera-liceo-classico-i-tempi-sono-cambiati/ ]

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