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Archive for marzo 2019

Risultati immagini per caccia al cinghiale disegno         Risultati immagini per cartello prelievo del cinghiale con carabina

‘SITO DI PRELIEVO DEL CINGHIALE CON CARABINA’

(avviso apposto sopra un cartello stradale al margine di una zona boschiva adibita alla caccia al cinghiale) 

Sito di prelievo: se escludiamo la sua accezione informatica, sito (archeologico, naturalistico, turistico ecc.) evoca tradizionalmente, in sé, un’idea di amenità, di gradevolezza, persino di piacere dei sensi. Vedi p.es. Ariosto: ad una fonte / giunta era, ombrosa e di giocondo sito.

Il prelievo certo è meno poetico, più medicale (p. di sangue) o fiscale (p. d’imposta) o finanziario (p. di una somma in banca), dunque complessivamente più tecnico, ma comunque neutro e anodino. Se ad essere prelevato è un cinghiale, ecco che la fantasia può immaginare – se si prescinde dal contesto reale (extra-linguistico) in cui è calata la frase – un luogo, campestre o silvestre, dove i giocondi e corpulenti animali stanno lì pronti ad essere presi e caricati su con la dovuta gentilezza per essere – non si sa da chi – portati allo zoo o trasferiti altrove.

Se poi il cinghiale appare addirittura fornito di carabina (un cinghiale carabiniere, insomma, arruolato con tutti gli onori nella benemerita) allora la fantasia non può che precisarsi ulteriormente trascendendo ogni realismo e spaziando nel mondo dei cartoons o del cinema di animazione. Sì, perché se uno scrive prelievo del cinghiale con carabina anziché prelievo con carabina del cinghiale l’ordine delle parole detta un significato piuttosto equivocabile in sé (sempre a prescindere, cioè, dal contesto extra-linguistico): vale a dire che la carabina non sia lo strumento del prelievo, bensì il complemento del cinghiale: un porco selvatico che, per conturbante trasformazione genetica, si è antropomorfizzato al punto da montare guardia armata con tanto di carabina alla zona protetta (contrassegnata da un limite invalicabile) in cui abita. Dopodiché si può coerentemente ipotizzare che questi presìdi zoologici (o ronde cinghialesche che dir si voglia) vengano periodicamente sorvegliati e visitati dai superiori con una camionetta militare che li preleva, magari, alla fine del turno, per sostituirli con altri guardiani più riposati. Immaginazione distopica, vagamente orwelliana, di una autoprotezione armata del territorio da parte di una mutata (umanizzata) specie di suino boschivo attualmente in grande, preoccupante proliferazione…

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GALILEO […] Io credo nell’uomo, e questo vuol dire che credo alla sua ragione! Se non avessi questa fede, la mattina non mi sentirei la forza di levarmi dal letto.

SAGREDO Allora stammi a sentire: io non ci credo. In quarant’anni di esistenza tra gli uomini, non ho fatto che constatare come siano refrattari alla ragione. Mostragli il pennacchio fulvo di una cometa, riempili di inspiegabili paure, e li vedrai correre fuori dalle loro case a tale velocità da rompersi le gambe. Ma digli una frase ragionevole, appoggiala con sette argomenti, e ti rideranno sul muso.

GALILEO Non è vero. È una calunnia. Non capisco come tu possa amare la scienza, se sei convinto di questo. Solo i morti non si lasciano smuovere da un argomento valido!

SAGREDO Ma come puoi confondere la loro miserabile furbizia con la ragione!

GALILEO Non parlo della loro furbizia. Lo so: dicono che un asino è un cavallo quando vogliono venderlo, e che un cavallo è un asino quando vogliono comprarlo. E questo per la furbizia! Ma la vecchia donna che, la sera prima del viaggio, pone con la sua mano rozza un fascio di fieno in più davanti al mulo; il navigante che, acquistando le provviste, pensa alle bonacce e alle tempeste; il bambino che si ficca in testa il berretto quando lo hanno convinto che pioverà, tutti costoro sono la mia speranza: perché tutti credono al valore degli argomenti. Si: io credo alla serena supremazia della ragione tra gli uomini. A lungo andare, non le sanno resistere. (B. Brecht, Vita di Galileo)

Difficile condividere oggi la fiducia illuministica del Galileo brechtiano. Difficile credere oggi nel popolo e nella sua educazione razionale, nella sua elevazione culturale, persino più difficile che ai tempi di Galileo. Il rapporto tra il popolo e la cultura alta è sempre stato problematico. Se vogliamo parlarne, bisogna prima intendersi circa il significato di popolo. Il Renzo manzoniano che diffida del latinorum di don Abbondio interpreta un popolo contadino ignorante ma giudizioso, guardingo nei confronti di una classe dirigente che usa farsene gioco anche con l’imbroglio linguistico. La plebe di Recanati nutre disprezzo verso la cultura del contino Leopardi perché, ignorandola, non ne comprende il valore: perciò non può far altro che deriderla, ingiustamente persuasa che quello se ne faccia motivo di vanto e di superbia:

Nè mi diceva il cor che l’età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di se, ma perchè tale estima
Ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno. (Le ricordanze, vv. 28ss.)

In entrambi casi quel popolo univa però al disprezzo e alla diffidenza per la cultura alta la consapevolezza sia della propria ignoranza sia di una subalternità alle élites di allora.

Il ‘popolo’ di cui parliamo oggi mi pare altra cosa.

Pare una massa socialmente ed economicamente eterogenea di individui di bassissima e superficiale e frammentarissima cultura che crede però di avervi facile ed automatico accesso grazie alla profusa disponibilità di mezzi di informazione. Contrariamente al saggio socratico, questa massa, non sapendo sostanzialmente nulla, crede di (poter) sapere tutto, mentre ignora che il sapere vero non è quella accozzaglia di notizie o di nozioni che si pescano a casaccio sul web, ma una lunga e metodica meditazione, una metabolizzazione mentale lenta, una selezione strutturata e verificata di conoscenze e di esperienze. Il popolo-massa, per quanto molto più scolarizzato che in passato, non legge libri, ignora il valore dello studio inteso come passione e fatica esercitati con pazienza nel tempo. Perciò disprezza (come il popolino di Leopardi) coloro che vi si dedicano. Li disprezza perché, nella migliore delle ipotesi, li ritiene perdigiorno passatisti e parassiti. Nella peggiore (come il Renzo manzoniano), sospetta che, sotto sotto, quelli vi si applichino per fini secondi e a suo deliberato svantaggio,

Ma diversamente dal popolino di un tempo, il popolo-massa di oggi – questo è il guaio – disconosce con presunzione il valore della cultura autenticamente intesa pretendendo di opporle l’alternativa – fasulla – di una sottocultura raccogliticcia, mediatica ed internautica.  Questo popolo, forte di questa sua presunzione, in farmacia vuol saperne più del farmacista, in ambulatorio più del medico, in autofficina più del meccanico ecc. A scuola poi (experientia me docuit), vuol saperne più, molto di più dell’insegnante. Non entra cioè in dialettica virtuosa con chi ha scienza e competenza, ma in competizione rovinosa.

Ciò che l’uomo massa internauta colloca in cima alla scala del disprezzo è la cultura formativa, quella non immediatamente o concretamente spendibile, vale a dire quella umanistica.

Eppure proprio la cultura dell’uomo, dei suoi valori individuali e politici – quella che adesso, se fosse coltivata, sarebbe virtualmente a disposizione di tutti – potrebbe più di ogni altra cosa aiutarci a crescere come persone e come cittadini, ad emanciparci dalla povertà sottoculturale e dal pressapochismo, a giudicare meglio la realtà, a vaccinarci da vecchi e nuovi pregiudizi.

Succede invece che una scuola che si attardi e si incaponisca a insegnare ancora le humanities sia continuamente delegittimata, e non solo dal ‘popolo’, ma anche da chi lo manovra politicamente, oltre che dai soliti fautori forti del primato tecnocratico. I ricorrenti attacchi concentrici al liceo classico, all’insegnamento della civiltà antica, della storia o della filosofia, lo testimoniano ad abundantiam. La categoria degli intellettuali e dei professor(in/on)i sperimenta oggigiorno il punto più basso della considerazione sociale, del vilipendio o della dispettosa commiserazione. È la categoria che incarna la versione più sfigata del deprecato elitarismo.

Persino autorevoli scienziati vengono contestati in nome di avventurosi pseudo-saperi ‘scientifici’ alternativi che viaggiano sul web. Figuriamoci quegli ingravidatori di nuvole che sono gli umanisti…

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