Non mi piace parlare della stretta attualità, perché ne (s)parlano tutti i media. Non voglio pertanto scrivere della ragazzina che va in giro per il mondo a denunciare (in modi e con mezzi discutibili, ma per una causa oggettivamente sacrosanta) il riscaldamento del pianeta che minaccia a breve termine la sopravvivenza della nostra specie.
Però, siccome questa ragazzina ha proclamato per oggi una delle tante giornate di sciopero e di manifestazioni studentesche di piazza su scala mondiale e il nostro ministero dell’istruzione ha diramato un invito ufficiale a tutte le scuole d’Italia a giustificare gli studenti che vi parteciperanno, ecco che questa notizia non può lasciarmi indifferente.
Ho assistito nei miei ultimi anni di insegnamento al progressivo dilagare di quello che io chiamo il populismo giovanilistico delle autorità scolastiche italiane: un finto paternalismo che rincorre in realtà secondi fini (il voto giovanile, le iscrizioni numerose a buon mercato, il facile favore delle famiglie) e che accarezza sempre i ragazzi per il verso del pelo con demagogia disgustosa (per me) e rovinosa (per i ragazzi). Questa volta, secondo me, si è toccato il fondo.
Mio padre, operaio negli anni ’60 e ’70, aderiva a sue spese agli scioperi frequenti (indetti spesso per validissimi motivi) che si proclamavano allora. Mai sentito dire che la Confindustria a quei tempi abbia invitato il padronato a retribuire almeno una volta gli operai per quelle giornate di sciopero. Forse il paragone sembrerà inappropriato. E lo è. Perché quello che il ministero ha fatto questa volta è molto più grave di quello che Confindustria mai, nella sua storia, si è sognata di fare. Perché qui non è in gioco una giornata di salario (che gli studenti ovviamente non percepiscono) e nemmeno una giornata di scuola (che pure è un serissimo danno, perché se ne perdono allegramente a bizzeffe) ma il cardine stesso del rapporto educativo tra ruoli e tra generazioni. Questo rapporto si fonda su di un assioma basilare non scritto che non si può impunemente trascurare. Questo assioma dice che un educatore, quando agisca soltanto per blandire ed assecondare l’educando (poco importa che lo faccia per debolezza, quieto vivere o proprio inconfessabile tornaconto), fa soltanto il male dell’educando stesso. Si trasforma in suo corruttore.
Le conseguenze di questa scandalosa iniziativa corruttrice del ministero sembrano – come tutto ciò che riguarda il mondo della scuola – lievi, ma sono in realtà tutte assai gravi:
1) il ministero anzitutto ha scavalcato i diretti responsabili dell’educazione scolastica, cioè gli insegnanti e i dirigenti, mettendoli con le spalle al muro: o concederanno la giustificazione, oppure, se non lo faranno, prenderanno una decisione che apparirà ingiustamente, agli occhi dei ragazzi, una scelta autoritaria impugnabile in partenza, perché screditata da chi sta più in alto nella scala gerarchica. Il ministero insomma agisce come un nonno compiacente che delegittima a colpo sicuro i legittimi genitori. Questo, se si guarda bene, è l’effetto più deleterio del populismo scolastico di cui parlavo.
2) Il ministero si è arrogato inoltre il potere di indicare quali manifestazioni di piazza sono legittime e quali no. Ha dato cioè ufficialmente una indicazione in senso stretto politica. Ha espresso un giudizio di parte. Ciò viola, in uno stato democratico pluralista, il dovere di imparzialità e di neutralità che la scuola pubblica, almeno nelle sue prese di posizione ufficiali, è tenuta a rispettare se vuole (come deve) formare i futuri cittadini senza indottrinarli.
3) Il ministero infine ha di fatto squalificato (o almeno ha cercato di squalificare) il valore della manifestazione studentesca in sé nel momento stesso in cui ha ufficialmente deciso di avallarla e di giustificarla: se lo stato stesso approva una protesta popolare vuol dire che la ritiene innocua e insignificante o vuole, quantomeno, contribuire a renderla tale. Renderla un carnevale. Sì, avete capito bene, non credo di esagerare: una protesta o una trasgressione approvata e benedetta dall’alto assume inevitabilmente – lo sanno bene gli antropologi – una connotazione carnevalesca. Ludica. Perciò stesso inoffensiva. Una valvola di sfogo che viene lasciata sfiatare da chi comanda per continuare a fare, senza essere altrimenti e pericolosamente disturbati, quello che si è sempre fatto.
Semel in anno licet pro coelo tumultuari. Una volta ogni tanto, qualche venerdì all’anno, è concesso (meglio: consigliato) ufficialmente dallo stato manifestare contro lo stato, per l’ecologia.