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Archive for aprile 2019

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Follia nana genera figli (e nipoti) giganti.

Follia è diamante: perfetto in sé, nella sua geometrica, tagliente e inattaccabile durezza. Tutto essa può incidere, da nulla può essere scalfita.

La follia è invidiabilmente autarchica, autosufficiente. Si alimenta delle sue ossessioni all’infinito; poggia il suo edificio farneticante sopra quelle fondamenta incrollabili. Non è mai sfiorata dal dubbio. O dal bisogno di qualcosa di diverso da ciò che, senza mai saziarla, la nutre. Corre sicura dentro la realtà (e fuori da essa) come un treno in un tunnel senza uscita.

Tra follia e ragionevolezza non c’è possibilità di dialogo, transfert o benefica frequentazione. La follia è sintonizzata su di una frequenza inaccessibile alla ragionevolezza. Chi tenterà di intercettarla e di correggerla non solo fallirà nel suo scopo ma metterà a serio repentaglio – con una infinita frustrazione – il proprio equilibrio mentale.

Il metodo e la travolgente ostinazione con cui il folle persegue i propri folli scopi gli permettono a suo modo e non di rado – purtroppo, e con qualsiasi mezzo – di raggiungerli; più facilmente di quanto non accada per gli scopi ragionevoli perseguiti da persone ragionevoli: da persone cioè che riconoscano gli ostacoli del principio di realtà e si fermino saggiamente davanti ad essi.

La follia ha i suoi indubbi vantaggi: primo fra tutti, quello di credersi con cieca e autoritaria presunzione – senza la titubanza minima del dubbio né il timore della smentita – suprema e incontestabile saggezza. Ma anche un tragico svantaggio: che non trova di norma nessuno pronto a condividere questa – di per sé – così gratificante autoconvinzione. La follia è quindi, di norma, etimologicamente ‘autistica’, solitaria, autodistruttiva. Sottolineo, tuttavia, di norma: perché purtroppo si sono avute nella storia, rispetto a questa norma, tragiche e spaventose deviazioni: esempi di una follia divenuta infettiva o diabolicamente indotta, ogniqualvolta il sistema immunitario della razionalità collettiva sia gravemente debilitato ed esposto ad un contagio altrimenti impossibile.

La follia solitaria non immagina (né tollera) ostacoli o limitazioni o mediazioni di sorta. Gode perciò, rispetto alla ragionevolezza, dell’illusione e della pretesa di una libertà sconfinata. Quella del fuoco che danza, guizza e imperversa in una foresta. O quella di una nottola che svolazza nel buio, all’impazzata, cozzando sulle pareti di una caverna.

La psichiatria moderna (con valide ragioni, che io sappia) ha molto sfumato i confini tra follia e normalità: col risultato che ogni nostra più comune stranezza, bassezza, debolezza, stronzaggine ecc. rischia di ottenere oggi una patente di sindrome psicopatologica x,y,z,k…. Così rischiamo di essere sempre giustificati nei nostri peggiori difetti e vizi, ed esentati da qualsiasi sforzo per correggerli. Per ogni peccato abbiamo, oramai, pronto un certificato.

Di converso l’incertezza del confine può portare (direi piuttosto astrattamente e ideologicamente) a considerare anche la follia più delirante come una diversa e originale forma di normalità o di razionalità. Con la conseguente dismissione (o demonizzazione) di qualsiasi pratica psichiatrica minimamente coercitiva. E il risultato che anche le più pericolose forme di follia si aggirano a piede libero in mezzo a noi o si accaniscono, devastandola, sulla incolpevole e sventurata umanità loro prossima.

Se nella storia pensatori e artisti hanno paradossalmente elogiato e pericolosamente corteggiato la follia è stato soltanto perché – si badi bene – essi sovente l’hanno metaforicamente (antifrasticamente) intesa e contrario quale fuga coraggiosa, atto di libertà contro la suprema e disumana e autentica follia ordinaria ed ‘ordinata’ in un sistema.

Chi ragiona intorno alla follia, chi pretende di osservarla da vicino per capirla o addirittura dom(in)arla è un esploratore sull’orlo del vulcano, un danzatore sul ciglio di un baratro, un Penteo che si lascia issare sulla cima di un albero per osservare il delirio delle Baccanti: il suo destino è quello di esserne avvistato, abbrancato e sbranato prima ancora di averle potute studiare e comprendere a fondo. (Forse sarà perciò che certi psichiatri o psicanalisti particolarmente assidui nei media producono, in chi li ascolta e li guarda, l’effetto di persone un po’ inquietanti).

Possibile che queste modeste, sparse e profane riflessioni abbiano addirittura alimentato, anziché dissiparlo, il dubbio su che cosa sia veramente follia e che cosa invece ragionevolezza. Sulla incerta demarcazione di un confine tra l’una e l’altra. Sulla loro facile confusione o sovrapposizione. È un dubbio legittimo e persino agghiacciante. Ma finché dubitiamo abbiamo almeno la confortante certezza di non essere (ancora) completamente folli. Il dubbio – come sempre – è la nostra unica, fragile àncora di salvezza.

[PS: leggendo questo post ci si potrà chiedere che cosa mi abbia spinto (tempo fa, a dire il vero) a scriverlo e (adesso) a pubblicarlo: molte ragioni, non tutte confessabili. Più di tutte la considerazione che la follia, quella almeno (‘ordinaria’ e diffusa, non diagnosticata e/o subclinica) di cui parlo qui, è – che ce ne accorgiamo o no – compagna di strada più e meno assidua di noi tutti, non maledizione di pochi.]

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Temporale d’aprile

Il rullare del tempo di colpo riposa

sul culmine dei piedi, a giro sospende

il filo elettrico dell’orizzonte. È là: quel

fuso di nuvole che gira a vuoto

tra le spire del fulmine

mentre sonagli neri

si crollano sopra romantici

palcoscenici rosa.

 

In assenza di vita(lità)

Basta un gesto talvolta

dettato controvoglia

al fascio delle dita: afferri

tra il pollice e l’indice

un collo di matita, lento

lo accosti al foglio,

leggero: verba

quaere, res

sequentur

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Parla di se stesso, anche quando non parla di se stesso.

Non parla di se stesso, nemmeno quando parla di se stesso.

 

Facile e paradossale indovinello letterario.

Il primo paradosso ha un senso scontato, perché non c’è – ripeto – opera di intenzione e di valore artistici (per quanto scritta con la oggettività, il distacco, il senso di alterità che ogni arte, in varia ma necessaria misura, richiede) che non discenda in primis dall’io profondo dell’autore e dal suo più autentico, talora altrimenti inconfessabile o inesprimibile, vissuto. Niente perciò possiamo degnamente rappresentare in letteratura che non sia sperimentato, sofferto e sedimentato nelle regioni più intime – consapevoli, inconsce o semiconsce che siano – del nostro essere.

Il secondo paradosso (in apparente contraddizione col primo) è altrettanto vero ma forse meno ovvio. Per capirlo bisogna essere educati alla poesia quel minimo che serve per non banalizzarla né svilirla da puerili lettori provinciali: quelli che credono (o tendono irresistibilmente a credere) che l’io che scrive e quello che vive siano esattamente la stessa, identica persona; e che scrivendo non si possa far altro che travasare pari pari sulla pagina la propria vita quotidiana, le proprie vicissitudini concrete e via banalizzando. Sono quei lettori che di fronte a un testo come A Silvia di Leopardi non sanno far di meglio che compiangere la sfortuna di un poeta deforme e di una bella ragazza della finestra di fronte, morta anzitempo di tisi, di cui Giacomo si era segretamente invaghito. E non riescono a capire che nel destino di Silvia e di Giacomo è rappresentato, con una bellezza del significante pari alla tragicità del significato, il destino di tutti. Sembra strano, ma l’alto tasso attuale di scolarizzazione e di (presunta) familiarità col testo letterario non impediscono ancora a moltissimi di sentire con piccineria la grande letteratura. Di leggerla, purtroppo, come si legge un giornale (o si assiste a un programma) di cronaca vera o di gossip. Bisognerà che la scuola lavori su questo e che lo faccia – cosa difficile – in dichiarata controtendenza rispetto ai media.

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