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Archive for settembre 2020

Immagini Stock - Una Cerbiatta Whitetailed Si Trova Nella Foresta. Si Può  Vedere Il Suo Cerbiatto Dietro Di Lei. Image 65042477.
Orazio, Odi I.9 – LatinaHumanitas

[Orazio, Odi, I 21]

Cerbiatta che sei, Cloe che mi sfuggi,

cerbiatta che per una impervia altura

cerca la madre che trema per lei

e senza causa a ogni fiato di vento

a ogni stormire di fronda si spaura.

Sia quando entrante primavera

le accende intorno brividi di foglie

sia quando verdi ramarri tra cespugli

di rovi frusciano guizzando, tutta

– dentro e fuori – un tremito la afferra.

Dài, che non ti voglio mica sbranare

io, tigre feroce o leone di Getulia:

e allora smettila tu di star dietro

alle sottane di tua madre, frutto

maturo ormai per le braccia di un uomo!

Il fascino della femminilità adolescente nello sguardo di un maturo e raffinato viveur. Una giovanissima etèra, ritrosa e timida come una cerbiatta, sfugge alle attenzioni del poeta. Orazio riprende un paragone topico della lirica greca sviluppando con finezza di tratto naturalistico (e notevole autonomia poetica) la psicologia della giovane cerbiatta spaventata. Salvo poi tornare con ironia maliziosa e bonaria al termine reale del paragone. Ho differenziato un po’, traducendo, i registri dei due estremi della similitudine. All’immagine della cerbiatta tremante e spaurita ho riservato, con aderenza all’originale, un certo grado di ricercatezza espressiva (con tracce leopardiane evidenti, quasi centonarie, anche se inizialmente – devo dire – inconsapevoli: vento… stormire di fronda… spaura ), ma poi nel finale, quando si riparla direttamente della (e alla) ragazza, mi sono preso la libertà di un tono moderatamente più colloquiale.

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Rete Web Digitale - Immagini gratis su Pixabay
Hermann Hesse - Wikipedia

«Il fulcro di quella antica intuizione [della onnipresenza di tutte le forze ed azioni], l’irrealtà del tempo, dissi, non era ancora stato notato dalla tecnica ma indubbiamente un giorno lo si sarebbe scoperto e sarebbe capitato fra le mani dei laboriosi ingegneri; forse prestissimo si sarebbe scoperto che non solo le immagini e gli avvenimenti attuali, del momento, ondeggiano continuamente intorno a noi, così come ci si consente di udire la musica di Parigi o Berlino a Francoforte o Zurigo, ma che tutto quanto è mai accaduto è registrato allo stesso modo che esiste, e che probabilmente un giorno, con e senza fili, con o senza rumori di disturbo, udiremo parlare il re Salomone e Walter von der Vogelweide; e che tutto ciò, come gli odierni inizi della radio, servirà agli uomini soltanto per fuggire lontano da se stessi e dalla loro meta e per circondarsi con una rete  [Netz] sempre più fitta di distrazioni e di occupazioni inutili»

[Hermann Hesse, Il lupo della steppa, trad. di E. Pocar, Novara 19872, p 108]

Prefigurazione quasi perfetta – concepita quasi un secolo fa, ai tempi di Guglielmo Marconi – di quello che significa oggi muoversi nel mondo parallelo del web. Anche la terminologia maneggiata dallo scrittore tedesco, che non era certo uno scienziato né un tecnico delle comunicazioni, è sorprendentemente profetica. Mi colpisce in particolare la consapevolezza che Hesse dimostrava già allora degli altissimi rischi di alienazione (von sich…weg zu fliehen: fuggire via da se stessi) e di dispersione oziosa del tempo della vita che l’immersione distraente (e catturante) nel flusso atemporale della informazione totale e in-discriminata avrebbe comportato. La rete cui Hesse allude si può forse immaginare come una sconfinata tela di ragno. O forse meglio come un reticolo di strade o di canali dove viaggiare o navigare non hanno senso né mèta. Simulacri di azioni frenetiche e compulsive, ma fine soltanto a se stesse.

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Das griechische und römische epigramm

[Orazio, Odi, I 22]

Sia integra la tua vita e senza ombra

di delitto: allora, Fusco, non ti serviranno

archi o giavellotti Mauri o una faretra

tintinnante di frecce avvelenate

– viaggia pure per le infuocate Sirti

o per il Caucaso deserto o per le lande

che l’Idaspe favoloso bagna. Un giorno

cantavo la mia Lalage in un bosco

di Sabina e vagavo spensierato

oltre il confine del campo, ed ecco

un lupo, io senz’armi, misi in fuga,

belva di quelle che non nutre

tra vasti querceti la mia Daunia

bellicosa né la terra di Giuba

riarsa nutrice di leoni.

Mettimi in magri campi

dove non c’è albero che goda

della brezza estiva, in un angolo

di mondo oppresso dalle nebbie

e dal clima più balordo.

Mettimi in quella terra senza

anima viva, sfiorata da vicino

dal convoglio del Sole: Lalage

sempre amerò, colei che dolce

sorride e dolcemente parla.

Limpidezza morale ed incanto di eros. Due capisaldi della filosofia oraziana fusi nella distaccata leggerezza di questa ode. Non si teme nulla e non si ha bisogno di nulla quando si dedica tutta la propria vita alla virtù e all’amore. Saranno loro – Virtù e Amore – a proteggerci ovunque e comunque da ogni minaccia, a regalarci una perfetta e serena autosufficienza. Una filosofia apparentemente semplice e minima di cui il poeta va però fieramente (aristocraticamente) orgoglioso. Qui, traducendo, non si può evitare – anzi bisogna conservarla – una certa alternanza tra registri alti e colloquiali, perché Orazio – citando con dottrina armi esotiche, luoghi geografici remoti, figurazioni mitologiche – vuole contrapporre ambiziosi viaggi e stili di vita avventurosi alla sua propria, appartata ed umile ma appagante, scelta esistenziale.

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