[Orazio, Odi, I 21]
Cerbiatta che sei, Cloe che mi sfuggi,
cerbiatta che per una impervia altura
cerca la madre che trema per lei
e senza causa a ogni fiato di vento
a ogni stormire di fronda si spaura.
Sia quando entrante primavera
le accende intorno brividi di foglie
sia quando verdi ramarri tra cespugli
di rovi frusciano guizzando, tutta
– dentro e fuori – un tremito la afferra.
Dài, che non ti voglio mica sbranare
io, tigre feroce o leone di Getulia:
e allora smettila tu di star dietro
alle sottane di tua madre, frutto
maturo ormai per le braccia di un uomo!
Il fascino della femminilità adolescente nello sguardo di un maturo e raffinato viveur. Una giovanissima etèra, ritrosa e timida come una cerbiatta, sfugge alle attenzioni del poeta. Orazio riprende un paragone topico della lirica greca sviluppando con finezza di tratto naturalistico (e notevole autonomia poetica) la psicologia della giovane cerbiatta spaventata. Salvo poi tornare con ironia maliziosa e bonaria al termine reale del paragone. Ho differenziato un po’, traducendo, i registri dei due estremi della similitudine. All’immagine della cerbiatta tremante e spaurita ho riservato, con aderenza all’originale, un certo grado di ricercatezza espressiva (con tracce leopardiane evidenti, quasi centonarie, anche se inizialmente – devo dire – inconsapevoli: vento… stormire di fronda… spaura ), ma poi nel finale, quando si riparla direttamente della (e alla) ragazza, mi sono preso la libertà di un tono moderatamente più colloquiale.