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Archive for the ‘ben detto’ Category

«È anche cosa osservabile che dei maestri i quali non siano assolutamente insigni in una facoltà, spesso sono adattati a insegnarla, e riescono a darla bene ad intendere, purché [1376] abbiano le altre qualità necessarie o proprie del bene insegnare, e indipendenti dalla cognizione della materia. Ma quegli uomini che si distinguono in questa cognizione, di rado assai troverannosi adattati a insegnarla, e gli scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla partecipato alla sua dottrina: eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon maestro e la più utile, non è l’eccellenza in quella tal dottrina, ma l’eccellenza nel saperla comunicare.  […] E l’immaginazione necessaria alla comunicativa è sempre propria dei geni, anche filosofici, anche metafisici, anche matematici. V. altro mio pensiero sulla comunicativa degli scrittori, bisognosi di tenere a questo fine, alquanto di spirito poetico.» (G. Leopardi, Zibaldone 23 Luglio 1821)

Sono abbastanza d’accordo qui col mio Leopardi, geniale anche in questo caso – lui del tutto autodidatta e del tutto imperito di insegnamento, oltre che ignaro di ‘psicopedagogia’ – nel centrare il cuore del problema: per insegnare bene (comunicare efficacemente) ci vuole molta immaginazione, cioè empatia, capacità di sdoppiarsi, di calarsi nella persona del discente; direi a mio modo – se interpreto bene – la capacità e la pazienza di chiarire prima e semplificare poi a se stessi ciò che si vuole trasmettere, prevedendone (pre-valutandone) così l’impatto sia intellettuale che emotivo sulla personalità degli allievi. Questo è quello che chiameremmo noi oggi anche – e più banalmente – prepararsi bene la lezione. Chi non sa e non vuole affrontare questo lavoro preparatorio difficilmente potrà, per quanto colto e intelligente, essere un bravo insegnante.

Sono abbastanza d’accordo con Leopardi, ripeto, ma con un importante distinguo. La conoscenza profonda ed ampia della disciplina non è ininfluente – come sembrerebbe intendere L. – sull’efficacia didattica mediata da questa immaginazione. Tutt’altro. Perché più si conosce a fondo ed in ampiezza ciò che si insegna più si potenzia e si affina (se già esiste) quella nostra (di noi insegnanti) facoltà immaginativa. Perché avere molte ed articolate conoscenze ci permette più soluzioni, alternative e strategie didattiche (una maggiore fantasia ideativa e operativa, appunto), e soprattutto lascia margini molto minori all’errore, all’azzardo, al pressapochismo, al dilettantismo. Un conto è muoversi in mare con una zattera improvvisata di quattro metri quadri, un altro conto è navigare su di una grossa barca ben attrezzata… Voglio dire: essere ferratissimi in una materia può certamente non bastare ad insegnarla bene, se non si possiede la immaginazione di cui parla L. Ma a una conoscenza scarsa e vaga della disciplina nessuna genialità immaginativa e comunicativa riuscirà mai a sopperire del tutto.

Provate con tutto il solo vostro talento naturale da chef a cucinare ottimi piatti senza disporre di ingredienti e mezzi e conoscenze sufficienti e adatti allo scopo…

[Beninteso: L. ha ragione nel dire che l’immaginazione, che lui paragona allo spirito poetico negli scrittori, è più importante, e non solo nell’insegnamento, della dottrina. Ma esagera forse nel negare la rilevanza di quest’ultima: a questo proposito, per altro, è la parabola stessa della sua formazione intellettuale e letteraria a smentirlo o almeno a correggerlo, se è vero che la sua poesia maggiore si è prodotta soprattutto distillando nel tempo – alla luce del genio e della immaginazione, appunto – l’enorme e impoetica mole della sua erudizione giovanile e del suo studio onnivoro, matto e disperatissimo. Mi premeva commentare e discutere questo interessante pensiero leopardiano anche in relazione al diffuso disprezzo che il mainstream del pedagogismo nostrano ostenta per le conoscenze e i contenuti dell’insegnamento a esclusivo favore delle cosiddette, famigerate competenze. E mi premeva anche per prevenire una qualche ulteriore, astuta e strumentale appropriazione indebita di Leopardi (se essa non è già avvenuta) da parte – stavolta – degli attuali, fanatici crociati dei soft skills…]

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«Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! […] Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti.» (A. Manzoni, I promessi sposi, cap. VIII)

Prima parte dell’arcinoto Addio monti manzoniano. E adesso, a fronte, un passaggio di Tempi difficili di Dickens:

«[…] Se ne andò sul far dell’alba abbracciando con lo sguardo, per l’ultima volta, la stanza e chiedendosi se l’avrebbe rivista mai più. La città era vuota come se gli abitanti avessero preferito abbandonarla che avere con lui un qualsiasi contatto. A quell’ora le cose sembravano diafane e sbiadite. Perfino il sole nascente pareva una chiazza pallida nel cielo simile a un mare triste.  Passò […] lungo vie fiancheggiate da case di mattoni rossi; passò accanto alle grandi fabbriche immerse nel silenzio, non ancora scosse dai fremiti delle macchine; accanto ai binari dove le luci di segnalazione sbiadivano pian piano, sopraffatte dal chiarore del giorno; accanto agli assurdi quartieri intorno alla ferrovia, costruiti a metà e a metà diroccati; accanto alle ville di mattoni rossi, sparse qua e là, dove sempreverdi, ormai affumicati e cosparsi di polvere nera, sembravano sudici fiutatori di tabacco; lungo sentieri ricoperti di scorie di carbone; accanto a una grande varietà di brutture, fino a che, raggiunta la sommità del colle, non si voltò a guardare indietro.  Un sole radioso splendeva sopra la città e nelle fabbriche le sirene annunciavano l’inizio del lavoro. Nelle case non era stato ancora acceso il fuoco, e le alte ciminiere avevano il cielo tutto per loro. Fra un po’ avrebbero nascosto l’azzurro con i loro sbuffi di fumo velenoso, ma, ancora per mezz’ora, le finestre sarebbero state d’oro sotto i raggi del sole; poi la gente di Coketown vi avrebbe visto, attraverso i vetri sporchi di fumo, un sole in fase di eterna eclissi.  Che strana sensazione allontanarsi dalle ciminiere, vedere gli uccelli, sentire il loro canto! Che strana sensazione avere sui piedi la polvere della strada invece della polvere del carbone! Che strana sensazione trovarsi a cominciare tutto da capo alla sua età, come un ragazzo, in quella mattina d’estate! Con questi pensieri nella mente e il fagotto sotto il braccio, Stephen si volse a guardare, assorto, la strada maestra.» (Tempi difficili, parte II, cap. 6)

Non so se Dickens tenesse presente o meno, scrivendo questo pezzo, il passo manzoniano. Improbabile, anche se non impossibile, dato che I promessi sposi erano discretamente noti a metà dell’Ottocento negli ambienti letterari inglesi. Oggettivamente, che risenta o no di una suggestione manzoniana (più o meno consapevole), il pezzo di Dickens è comunque un ideale, scioccante controcanto all’Addio monti. Narrativamente, un esodo il primo e uno speculare ‘controesodo’ il secondo: rispettivamente dalla campagna alla città e dalla città alla campagna. Ma metaforicamente entrambi sono immagine della dilemmatica oscillazione tra visioni ( o aspirazioni o condizioni) opposte e complementari della vita moderna: dalla natura alla anti-natura e ritorno; dalla (presunta) felicità all’infelicità (certa) e viceversa. Manzoni parla di una migrazione forzata e dolorosa; Dickens di una fuga liberatoria. In mezzo però, punto indesiderato di arrivo prima e poi di partenza, rimane sempre la città: prigione volontaria, male assoluto ma necessario, luogo dell’inumano stipato di umani, vertice e abisso della civiltà evoluta, ombelico e cloaca dell’universo industriale, madre e figlia del nostro sviluppo senza progresso… Un primo e lontano germe di consapevolezza di questa drammatica e direi fondante antinomia del nostro mondo c’era già nel secondo libro delle Georgiche. Ma il vecchio Virgilio non poteva avere ancora sentore della esponenziale e potenzialmente distruttiva escalation dello sviluppo urbano/industriale di oggi. Cosa di cui Dickens (et pour cause) possedeva invece, più di Manzoni e già a metà dell’ottocento, chiarissima consapevolezza.

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La scuola è ricominciata da poco. E quando la scuola ricomincia se ne parla un po’, come da rito, sui media, così come se ne parla un po’ anche a giugno, al termine delle lezioni. Poi, per lo più, cala il silenzio, salvo occasioni eccezionali o pretestuose. Chiacchiere comunque scontate che non vale in genere la pena né di leggere né di commentare.

Quest’anno invece mi hanno colpito, per opposti motivi, un paio di cose uscite a breve distanza di tempo entrambe su La Stampa. La prima è un articolo dello psicoanalista Massimo Recalcati pubblicato l’11 settembre scorso e intitolato la scuola al via: gli insegnanti sono la luce. Ne riporto alcuni passaggi:

« Le norme grigie che strutturano il tempo scolastico (calendari, riunioni, programmi, valutazioni, ecc.) favoriscono la sua rappresentazione come una istituzione condannata a una ripetizione senza sorpresa. Un peso al collo o una condanna nel vissuto di molti studenti. Una incombenza necessaria in quello di molti insegnanti. Il processo di istituzionalizzazione della Scuola tende infatti a consumare anche i migliori. È quella che ho definito altrove l’anima grigia dei dossier, il feticismo del numero, l’assillo della quantificazione. […] Questa riduzione del sapere a un sapere morto scoraggia l’entusiasmo dell’apprendimento e ribadisce la sua separazione dalla vita. A cosa serve apprendere, studiare, sapere se poi l’impatto con la vita ne rivelerebbe fatalmente l’inutilità? La formazione scolastica sarebbe allora una perdita di tempo, un ritardare inutilmente l’inizio dell’attività lavorativa, come sostengono anche noti imprenditori del nostro paese? Dovremmo sempre, oggi più che mai, contro discorsi simili, ricordare la centralità della scuola non tanto come luogo di accumulo di informazioni, ma come luogo insostituibile di formazione. L’esperienza della Scuola non è solo esperienza di una routine mortifera, ma anche della luce del sapere: il sapere non è un libro morto, ma un libro vivo, non è una passione triste ma una passione erotica. Ma questa luce deve essere testimoniata da chi insegna. […] L’esperienza della luce richiede sempre dedizione, cura, attenzione. È quella che molti hanno avuto la fortuna di incontrare nei propri maestri. Diversamente, la distrazione svia da ogni possibile cura. Ecco la testimonianza difficile a cui sono tenuti i nostri insegnanti. Dare prova di una concentrazione che non sia una forma ottusa del rigore, ma una cura. Essere concentrati sulla propria pratica è, del resto, la sola salvezza possibile per non cadere in una ripetizione scolastica del sapere che stroncherebbe anche gli spiriti più nobili. È la solitudine inevitabile che accompagna ogni insegnante: restare concentrati sul proprio lavoro, restare prossimi alla cosa, non lasciarsi distrarre dai rumori del mondo.»

Parole sante, specie queste ultime. Contro la diffusa burocratizzazione della vita scolastica e la minaccia tecnocratica incombente della sua trasformazione in puro addestramento pratico e professionale Recalcati ripropone (sulla scia del suo bel libro L’ora di lezione) una visione alta e disinteressata di scuola come luogo – lo chiama lui – di erotizzazione del sapere e della cultura. Erotizzare sapere e cultura significa per Recalcati non sostituire i contenuti delle discipline umanistiche e scientifiche con ‘educazioni’ spicciole né con più banali e brillanti argomenti à la page, bensì rendere desiderabili proprio quei contenuti spostando sempre più in là, con un metodo che definirei fondamentalmente socratico, il limite della conoscenza: suscitando cioè dubbi e interrogativi, stimolando la curiosità, promovendo la partecipazione emotiva e lo spirito critico. Il prof vero secondo Recalcati è (ha da essere) un portatore di luce. Un maestro. Uno che non si abbassa alla sottocultura di massa ma innalza i suoi studenti alla cultura autentica. Obiettivi ambiziosi ma fondamentali per salvaguardare e incrementare la qualità dell’insegnamento. Obiettivi che purtroppo la scuola reale e quella progettata (ed in fieri) dalle riforme ministeriali (ne ho scritto anche troppo) sembrano ignorare o addirittura contrastare.

La strada maestra indicata da Recalcati non è a mio avviso per niente affatto anacronistica né astratta, specie se pensiamo alla scuola liceale: se da decenni questa strada non viene più seguita questo accade da noi non per una inevitabile cambiamento imposto dai tempi ma per una precisa scelta politica e dirigenziale. Non è infatti soltanto la grigia burocratizzazione denunciata da Recalcati a depauperare la scuola e a deprimerne l’efficacia didattica ma sono anche e soprattutto, nella scuola ‘autonoma’, il trionfo, pilotato e caldeggiato dall’alto, dei progetti più balzani e peregrini sopra la programmazione disciplinare e l’invadenza sistematica di attività ludiche e promozionali in sostituzione (e a crescente discapito) della lezione ordinaria: proprio quella nella quale il prof dovrebbe illuminare gli allievi concentrandosi e concentrandoli sui tesori della sua materia. Invece la lezione ordinaria oramai viene additata con disprezzo dai soloni ministeriali come anticaglia sacrificabile a qualsiasi altra attività-paccottiglia-bigiotteria di quelle nominate sopra. Ma lasciamo stare…

Un altro scritto recente sulla scuola che, per contrasto, mi ha molto intrigato e spiazzato è stato un bel racconto di Monica Acito uscito un mese prima nell’inserto letterario dello stesso giornale (Tuttolibri/La Stampa del 12.08.23). Il racconto si intitola La buona educazione e la storia è narrata in prima persona da una immaginaria, giovane ma poco ‘motivata’ insegnante di scuola superiore, certa prof Macrì. Eccone qualche stralcio (e tenetevi forte…):

« Ritorno alla cattedra e ripren­do a sproloquiare su Dante, virtù e cono­scenza. Ormai non so più cosa sia manco la digni­tà, quando ti metti a fare questo mestiere fir­mi col sangue una clausola in cui rinunci a ogni tipo di rivendicazione di fierezza, intelligenza o altro; non so più nemmeno che cosa sia la vergogna, infatti riprendo a spiegare come se nulla fosse, tutto viene tamponato da una garza che è nascosta da qualche parte del mio corpo, mi passo un fazzoletto gigante sulla bocca umida dello stomaco, tutta la rabbia rimbalza in qualche parte di me che non conosco e poi riemerge di notte, mi risale sulla bocca sotto forma di fiotto acido oppure mi risale dal pube mentre sto facendo sesso, ma mi risale sotto forma di secchezza, blocco e siccità. […] Quando un docente riesce a gestire gli alunni, si dice che «sa tenere la classe». Io la classe non la so tenere, e quando io e Emilia Pinto, la docente di inglese, ci dia­mo il cambio, gli alunni si mettono tutti sull’attenti, sembrano soldatini di piombo, fiammiferi spenti che si mettono in piedi e la ossequiano. Con me, invece, fanno quello che voglio­no, perché io non so tenere la classe, e loro se ne accorgono: agli alunni non puoi na­scondere niente, ti entrano nel corridoio dei pensieri, edificano stanze nella tua mente e si ficcano nel letto pure mentre stai chiavando, ti fissano nella penombra men­tre lo stai prendendo in bocca, sono degli spiritelli cattivi a cui non posso celare nem­meno i miei pensieri più segreti, hanno gli occhi appuntiti e lucenti come quelli dei ro­ditori. Io non so più cosa fare con questi alunni, vedo le loro code che sgusciano ovunque, il sabato e la domenica non lavo­ro e rimango nel letto fino all’una, perché mi sento il canale di scolo dell’umanità, co­me se tutto il materiale di scarto del mondo si fosse calcificato sulla mia pelle e io fossi fatta di squame di nausea. Certi giorni mi chinerei sul cesso e mi metterei a vomitare ogni lettera del mio no­me e del mio cognome, mi metterei a vomi­tare i miei capelli, le mie ciglia, le pupille dei miei occhi liquefatti, tirerei lo sciacquo­ne e andrei a inquinare qualche oceano con quello che rimane di me. Io non ci voglio più entrare in classe, io non le voglio più sentire le mie colleghe che in sa­la docenti si organizzano per fare attività, la­vori di gruppo, cooperative learning, flipped classroom, proiezioni di video, uscite didatti­che, io non so insegnare, e sto facendo que­sto solo perché non so fare niente altro. […] Oggi Martina C. ha esagerato. Mentre spiegavo la latitudine e la longi­tudine nell’ora di geografia, per sbaglio ho confuso meridiani e paralleli perché l’ulti­ma per me è particolare: all’ultima ora, io in realtà non ci penso a cosa sto spiegando, perché non vedo l’ora di correre in macchi­na e fiondarmi nel mio monolocale, per ap­parare una bella piadina farcita di speck in offerta, mozzarella cruda, rucola in busta e maionese mischiata con la salsa barbecue, pure quella in offerta. «La Macrì non sa manco cosa sono i meri­diani e i paralleli, forse le manca la prima media»: Martina C. bisbiglia a Larisa, l’alunna nuova, e quando Martina C. bisbi­glia, sembra una piccola volpe. Larisa an­nuisce e Martina C. le dice, scandendo be­ne le parole «Lo tiene scritto in faccia che nemmeno stanotte ha scopato». Larisa ridacchia e mette un astuccio da­vanti al musetto, e Martina C. scandisce di nuovo bene le parole: «Se scopava, vedi co­me se li ricordava bene i meridiani e i paral­leli!», e Martina C. e Larisa fanno dei cerchi con le dita e dentro ci infilano dei pennarel­li, poi li tolgono e ce li infilano di nuovo, si mettono a stantuffare con le dita pensando che io non le veda.

Sconvolgente, no? E non certo (o non soltanto) per il linguaggio. Vorrei tanto che questa immaginaria prof.ssa Macrì non esistesse. Non fosse mai esistita se non nella testa della sua inventrice. Meglio: vorrei non essere mai stato – non essermi mai sentito – neanche un po’ come lei. Vorrei sentirmi solo ed unicamente come il prof di Recalcati. Ma mi trastullerei, da narciso, in un concetto del mio mestiere troppo alto per essere del tutto credibile. Mentirei con me stesso e con i lettori. Perché questa figura di prof, ahimè, come tutte le figure inventate dalla penna di uno scrittore degno di questo nome (e qui, secondo me, Monica Acito riesce ad esserlo), è più vera (= verosimile) di quelle reali. La sua prof è il contraltare (iper)realistico del prof ideale di Recalcati: è uno specchio crudo della condizione professionale e soprattutto sociale e psicologica dell’insegnante attuale. C’è un gioco rivelatore di specchi, appunto, in questo racconto: lo specchio torturante dello sguardo adolescente che trafigge l’amor proprio della prof inchiodandola a una immagine intollerabile di sé e quello della pagina scritta che riflette sul lettore, senza veli, il depresso e deprimente vissuto interiore dell’io narrante, la sua devastata autostima.

Il re è nudo. La prof Macrì, in senso fisico e metaforico, si sente e ci si mostra nuda. Ogni prof, d’altronde, quando entra in classe, è nudo. Non ha veli né armature né scudi. Deve mettersi in gioco per quello che è, non illudersi di cavarsela, oggi meno che mai, recitando bene una parte.

Se ubbidissi allo spirito di corpo e all’orgoglio di scuderia obietterei a Monica Acito le solite cose: che una prof scoppiata ed incapace come la Macrì non rappresenta quasi nessuno, che professionalmente la media degli insegnanti italiani è molto più preparata e dignitosa di lei ecc… ma anche se queste obiezioni d’ufficio avessero, come credo, un fondamento, sfido chiunque fra i miei colleghi a giurare di non essersi sentito mai, nemmeno una volta, in una condizione interiore simile a quella confessata dalla protagonista. Spergiurerebbe, perché purtroppo questo racconto coglie nel segno della micidiale asimmetria del rapporto docente-alunno. Una asimmetria che si è ingigantita, fino ad esplodere, negli ultimi decenni per il venir meno di ogni principio di autorità e per il concomitante precipitare della condizione professionale e della considerazione sociale dell’insegnante medio italiano. Un racconto così ci rappresenta in certa misura, tocca ammetterlo. È uno schiaffo salutare. Di quelli che solo la buona letteratura è capace di assestare. Perché solo l’onesto riconoscimento del peggio che ci abita e che ci circonda può permetterci di riscattarlo. Di camminare, nel nostro caso, nella direzione auspicabile, nobile e ideale ma tutt’altro che utopica, indicata da Recalcati.

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Il tutto è falso

Il falso è tutto

Un refrain. Brevissimo. Otto parole per definire il mondo che ci circonda, oggi. Meglio: la maschera, il fantasma, la fata morgana l’autorappresentazione mistificante, onnipervasiva del nostro mondo. I media, il marketing, la comunicazione digitale ecc ecc.

Quando si dice con-genialità: Gaber per me (insieme con Leopardi) non è un autore qualsiasi. Lui e Giacomo sono miei Genii: numi tutelari, spiriti protettori, garanti e interpreti inconsapevoli del mio proprio (e non so di quanti altri: pochi, credo – e temo) modo di sentire, di pensare e di giudicare. Un modo identico, spiccicato al loro. Genii con i quali mi è impossibile dis-cordare perché – ne ignoro il motivo, ma sento che è così – essi mi sono in tutto naturalmente con-cordi. Cuori e spiriti e destini miei padri e miei gemelli insieme: hanno soltanto detto prima di me e molto meglio di me quello che io, dopo di loro ma insieme a loro, ho pensato, penso e andrò fino alla fine pensando, pure se non riuscirò mai a dirlo con la stessa genialità. Miei pro-feti, dunque. E Genii forsanche nel senso antico di spiriti capaci di trasmigrare ed incarnarsi in altrui, in chissà quanti altri, nel tempo e nello spazio. Questo sono i grandi autori. Maestri inconsapevoli di allievi devoti. I grandi autori/maestri non consolano, né persuadono, né edificano. Rivelano. Tolgono il velo. Sono brutali come le verità che ci squadernano davanti. Brutalmente generosi e misericordiosi.

Stranamente quei due versicoli di Gaber non li conoscevo ancora. Mi hanno folgorato, per caso, quando ho acceso l’altra mattina l’autoradio. Mi erano – incredibile! – sfuggiti. Non si riesce a conoscere tutto, nemmeno degli autori a noi più cari, vicini e congeniali. Ma stai tranquillo che pure quello che ancora ignori di loro essi lo hanno intanto pensato e sentito in un modo concorde e congeniale col tuo. Automatico. Restava solo da scoprirlo.

Il tutto è falso

Il falso è tutto

Questo distico è una forma chiusa (un chiasmo, lo chiamiamo a scuola): lapidaria, conclusiva, inespugnabile. Oracolo. Rivelazione. Quello che il grande Anonimo del sublime definiva il fulmine che illumina a giorno un orizzonte immerso nel buio. Una sentenza che non ha bisogno di commenti né di motivazioni. Che non teme obiezioni. Parole che pretendono il rispetto del silenzio. E ci consegnano, nella fattispecie, a una quieta disperazione. Perché questa infinita falsità del tutto (forse non è per caso che mi viene di parafrasare Gaber proprio con Leopardi…) siamo noi, noi più che mai oggi, il nostro mondo alla vigilia, temo, della sua definitiva catastrofe. Della sua nichilistica autorivelazione. Della sua Apocalissi.

Il rimanente testo della canzone è un sobrio commento, una coroncina di asteroidi condensati a margine del buco nero:

Non a caso la nostra coscienza
ci sembra inadeguata
quest’assalto di tecnologia
ci ha sconvolto la vita.

[…]

Com’è bello occuparsi dei dolori
di tanta, tanta gente
dal momento che in fondo
non ce ne frega niente.

[…]

Cerco
di afferrare un po’ il presente
ma se tolgo ciò che è falso
non resta più niente.

[]

il falso è un’illusione che ci piace
il falso è quello che credono tutti
è il racconto mascherato dei fatti
il falso è misterioso
e assai più oscuro
se è mescolato
insieme a un po’ di vero
il falso è un trucco
un trucco stupendo
per non farci capire
questo nostro mondo.

Scritto e cantato vent’anni fa (Io non mi sento italiano, 2003). Ma quell’epoca era già la nostra. E l’amarezza di queste profezie sta nel fatto che non cambiano né cambieranno mai la realtà. Cassandra è l’alter ego mitico di Gaber e di Leopardi. Sappiamo come è andata a finire. L’arte e le sue verità e le sue profezie non servono a nulla. Si guadagnano tutt’al più un’ammirazione postuma di pochi dopo aver scontato nella contemporaneità il disprezzo e la sordità di moltissimi. D’altra parte la cultura (quella vera) non si mangia. Aveva ragione un nostro politicante anni fa: è con gli affari che si mangia. È con il marketing e con la speculazione e con la manipolazione delle menti e con la corruzione delle coscienze che si domina il mondo.  Si divora. Si ingrassa. Ci si espande.

Fino ad accorgersi troppo tardi che non c’è più altro da divorare e nessun oltre in cui espandersi.

[PS: post scritto a fine aprile 23 e pubblicato solo oggi per intercorsi impedimenti]

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“ La massa combatte contro la ragione a difesa del proprio male […] La prova inconfutabile che una cosa è sbagliata sta nel fatto che essa è sostenuta dalla massa […] Nella massa il numero di quanti ti ammirano è sempre pari a quello di quanti ti detestano.” (sulla irrazionalità della massa; sulla sua rovinosa subcultura e la sua soggezione a vecchi e nuovi idoli e pregiudizi)

“Il piacere stia al seguito e non al comando di un retto e onesto intendimento […] La retta intelligenza stia davanti e il piacere l’accompagni come un’ombra accompagna il corpo: mettere la retta intelligenza al servizio del piacere è tipico di quelli che non arrivano a concepire nulla di grande e di buono. […]  Io sono padrone delle mie ricchezze, le tue invece lo sono di te…” (sul volgare edonismo della società dei consumi)

“Voi che disprezzate la retta intelligenza e odiate quanti la coltivano, non fate proprio niente di nuovo: sono gli occhi malati a temere il sole e sono gli animali notturni a fuggire la luce del giorno: appena spunta, quelli rimangono abbagliati e si precipitano verso i loro nascondigli e si nascondono spaventati nelle fessure del terreno. Voi ringhiate e muovete la vostra lingua solo per insultare le persone per bene, le azzannate a bocca aperta. Ma vi spezzerete i denti prima di scalfirle.” (sull’odio e il disprezzo populistico verso la razionalità e la cultura di presunte élites. Con particolare riferimento a certo becero e reazionario ‘giornalismo’ nostrano che alimenta e usa spudoratamente quel disprezzo, anziché contrastarlo)

“A qualcuno non darò aiuti in danaro, perché appena glieli avrò dati sarà subito e ancora bisognoso di averne…” (sull’uso e sulla elargizione corretti del danaro, privato e pubblico)

“Una bella casa vi rende orgogliosi, come se non potesse mai incendiarsi né crollare, e le ricchezze vi mandano in estasi, come se avessero lasciato dietro di sé ogni pericolo e fossero troppo potenti perché la sorte possa avere forza sufficiente per distruggerle. Spensierati ve la spassate tra i vostri beni e non scorgete il pericolo che li minaccia. Così fanno in genere certi barbari: assediati e ignari di che cosa siano le macchine da guerra, essi osservano inerti la fatica degli assedianti e non intuiscono minimamente quale scopo abbiano quelle strane costruzioni che essi osservano da lontano. Voi fate lo stesso: sguazzate tra i vostri beni e non immaginate quante sventure incombano e si apprestino a farne un ricco bottino.” (sul nostro continuare a danzare allegramente sul Titanic, chiusi dentro un presente che sta per passare, avvolti ed accecati dalla bolla illusoria di un benessere infinito. Fuori della similitudine senechiana, la ‘barbarie’, in senso culturale, è anche questo: rinunciare a guardare lontano, ignorare il senso della storia e rimanerne perciò travolti. Oggi più che mai l’avviso di Seneca ci riguarda, credo, mentre macchine da guerra si apparecchiano, spaventose, sul nostro vicino orizzonte)

[Seneca, De vita beata, passim – anni cinquanta del primo secolo dopo Cristo; traduzione mia]

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«[Sulla questione di come fa il mondo ad andare avanti] viene chiamato a parlare un conferenziere che va in giro a far conferenze su tutto, sempre facendo riferimento alla sua infanzia e ai suoi ricordi. Costui in meno di un’ora risolve il problema, risponde alle obiezioni del tipografo, della bambina e dell’inventore, e conclude la conferenza. Il pubblico applaude contentissimo di sentire che là fuori c’è un mondo così facile da spiegare che uno se la può cavare in mezz’ora. Poi tutti, appena escono dalla sala e si ritrovano in strada, dimenticano immediatamente quello che hanno sentito, il conferenziere dimentica quello che ha detto, e l’indomani nessuno ricorda neanche più il titolo della conferenza. Nel piccolo paese tutto continua ad andare avanti come prima, a parte il fatto che ci sono sempre più parole sui muri, sempre più insegne, sempre più scritte pubblicitarie dovunque il tipografo giri gli occhi.» [Gianni Celati, Come fa il mondo ad andare avanti, in: Narratori delle pianure, Milano, Feltrinelli 1985, p. 53]

È roba scritta quasi quaranta anni fa, ma fotografa l’oggi: l’odierna macchina della comunicazione verbale, ovvero macina della parola. Parola dispersa, sperperata, prostituita. Elargita a piene mani, in tutte le direzioni, panìco agli uccellini o pastura per i pesci. Parola che illude e poi abbandona, suscita e poi atterra, consola e poi affanna. Vaporosa effervescenza del nulla.  Fata morgana della nostra sfiancata civiltà. Vento che urla prima e poi ammutolisce. Tempesta autorigenerante. Alluvionati, noi, dalle parole, naufraghi nella loro piena. Parole che leniscono, stordiscono, nascondono, consolano, corteggiano, lusingano, seducono. Suonano ma non creano, e soprattutto non rivelano. Tessono e infittiscono la trama del velo di Maya anziché sollevarlo, o strapparlo.

 “Niente sarà più come prima!”. Ricordo bene queste parole agli inizi della pandemia. Sentenza sibillina, slogan trombonesco, fuffa autoconsolatoria. Mantra gonfio del fiato nauseabondo della pietosa e sussiegosa Impostura. Umanesimo (o catastrofismo?) chiacchierologico. Schiumosa profezia di una imminente lavacro (con annessa palingenesi) della nostra razza. Balle di segatura. Tutto, infatti, è (rimasto) esattamente come prima. Anzi: forse peggio di prima. Ma la macina delle parole non ha memoria, e non ha requie. Sventaglia come sempre nel vuoto stupefacenti aromi di aria fritta. In questa atmosfera satura di vaniloquio l’unica parola che salva, quella della scienza e della poesia (e della profezia), è uno stormire di fronda nel fragore della bufera. Riesce a malapena a percepirla colui che la pronuncia.

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È appena uscito nella rivista culturale online Limina un mio articolo leopardiano che prende tuttavia le mosse da un passo di Charlotte Brontë. I due autori, a breve distanza di tempo l’uno dall’altra, arrivano autonomamente alla medesima intuizione: la bellezza (intesa in senso prettamente materialistico/estetico) può salvare chi la possiede perché, per l’illusione che quel fascino esteriore corrisponda a grandi qualità interiori, essa ispira istintivamente in chi la osserva favore e benevolenza. Nonostante questo indubbio punto di tangenza tra i due autori, la riflessione di Leopardi sul tema appare, rispetto a quella della Brontë, più ampia e articolata, oltre che (per vari aspetti) di notevole attualità: http://www.liminarivista.it/comma-22/la-bellezza-che-si-salva-bronte-e-leopardi-tra-illusione-e-realta/

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Pasolini, nasce la bibliografia delle opere friulane - Libri - Altre  Proposte - ANSA
Aforismario: Massime, sentenze e frammenti di Epicuro

Perché ce l’ho tanto con la pubblicità? Forse perché sono un disadattato, un passatista, un donchisciotte che combatte i mulini a vento della modernità. Non so: lascio ai lettori giudicare. Mi basta, per parte mia, fare alcune considerazioni sparse per circostanziare la mia strana idiosincrasia:

1) tra la fine degli anni sessanta e gli inizi dei settanta Pier Paolo Pasolini indicava nel modello di sviluppo consumistico il vero, nuovo fascismo. Non aveva torto: anche se formalmente questo sistema non ti impone nulla, nei fatti è talmente condizionante e totalizzante che non ti lascia alternative né scappatoie. E la pubblicità di questo sistema è l’anima, il cuore pulsante e la mano operativa.

2) Pasolini avrebbe confermato in pieno il suo giudizio (profetico) sul sistema consumistico se fosse arrivato a conoscere l’èra di Internet, l’epoca della proliferazione all’infinito di ogni forma di marketing dentro l’immondezzaio pubblicitario della rete. Si ha un bel dire che uno, volendo, può ignorare la pubblicità; in realtà vi siamo immersi, come lo siamo nella luce del sole o nell’aria che respiriamo. Prima c’era carosello e i tabelloni pubblicitari, vale a dire che c’erano momenti e spazi regolati per la pubblicità. Adesso è diventato uno stalking, un pressing persecutorio, con la pervasività dell’acqua che invade ogni interstizio, s’infila in ogni pertugio libero della nostra esistenza. Quello che non riesce ad avere con la seduzione raffinata vuole perseguirlo con l’invadenza spudorata ed il tambureggiante lavaggio cerebrale. La pubblicità oggi percorre mille strade senza trovare più divieti di accesso: giornali, tv, radio, spazi fisici pubblici esterni ed interni, linee telefoniche fisse e mobili, e, soprattutto, il web con tutte le sue diaboliche virtualità. Tutto il resto che questi media dovrebbero fare perché sono costituzionalmente deputati a farlo (informazione, formazione, cultura, spettacolo) diventa secondario e ancillare rispetto alla pubblicità, nel senso che essi non potrebbero nemmeno esistere senza i finanziamenti che solo la pubblicità garantisce loro. Figuriamoci se possono esprimersi senza uniformarsi più e meno direttamente alla sua filosofia.

3) Siamo costretti da questo sistema non solo a subire continuamente la pubblicità ma anche a diventarne soggetti attivi e collaborativi. Oramai non esistono quasi più, per esempio, professioni o mestieri o occupazioni che non implichino strategie o attitudini promozionali, cioè ‘pubblicitarie’ in senso lato. Se fai il commerciante o l’artigiano o libro professionista una bella dose di autopromozione devi sobbarcartela. Ma anche se sei insegnante, per fare il mio esempio, non puoi oggi più esimerti dal contribuire (negli open days, nelle giornate dell’orientamento ecc.) alle iniziative propagandistiche del tuo istituto a caccia di iscritti; perciò non puoi più permetterti di fare il Socrate o il libero pensatore… Persino se fai a tempo perso lo scrittore puoi scordarti il buen retiro nel tuo eremo creativo, perché dovrai presentare e pubblicizzare i tuoi scritti, un’attività ingrata di cui quasi tutti gli editori ormai si infischiano altamente. Accanto a questo proliferare di attori e agenzie pubblicitarie scarseggia sempre più la presenza di filtri critici oggettivi e competenti: per mille vini in vendita ci sono mille osti a decantarcene la bontà, ma sempre meno enologi a garantircela.

4) Scopo primario ma non esplicito della pubblicità (al di là della vendita del prodotto) è inculcare negli individui una visione edonistico-consumistica del mondo, e sollecitare (o indurre) in loro sogni e desideri talmente primitivi e profondi che non c’è razionalità che possa (tanto meno voglia) resistervi. Prima che promuovere consumi la pubblicità mira a plasmare in chi la subisce la forma mentis del consumatore.

5) Il sistema edo-consumistico è giovanilista, non solo perché si rivolge ai giovani ma perché tende ad affermare un modello pan- giovanilistico: brillantezza, intraprendenza, energia, ottimismo, salute, eros, prestanza, vitalità. Ci induce a immaginarci e a desiderarci sempre giovani e belli come gli antichi dèi greci… Questo modello infatti, per quanto irrealizzabile, conquista facilmente l’immaginario collettivo e lo rende più sensibile alla corruzione indotta del sistema e il più utile alla sua perpetuazione. Tracce della terza età nei messaggi pubblicitari sono rare e patinate, mentre i cinquantenni che vi compaiono sono opportunamente vitaminizzati in vista di prestazioni giovanili. D’altro canto il sistema che produce pubblicità ha bisogno di un pubblico inesauribilmente desiderante, sempre proiettato al nuovo e al futuro: quindi, almeno psicologicamente, giovane.

6) L’ottimismo della pubblicità è – per i miei gusti – quanto di più artefatto, irritante e disgustoso si possa immaginare, ma – dal punto di vista di chi produce la pubblicità – irrinunciabile, obbligatorio. Come creare un pubblico di consumatori se soltanto si ammette la sfiducia o lo scetticismo nella positività del reale, nella realizzabilità dei desideri, nella felicità sostanziale di un mondo votato e destinato al piacere?

Succede di conseguenza che di fronte a vari problemi la pubblicità offre soluzioni pronte e miracolistiche, di fronte alle tragedie invece tace, rimuove, glissa, al massimo allude.

Esempio eclatante di questa rimozione e/o di questo ricorso alla allusività obliqua e sfumata si è avuto nel periodo iniziale e più drammatico della pandemia. Mentre la gente viveva impaurita e chiusa in casa alle prese con una tragedia collettiva, la pubblicità continuava a correre come sempre nei palinsesti televisivi: in parte riproponendosi uguale a prima, come se nulla stesse accadendo, in parte invece alludendo in maniera vaga o metaforica o indiretta al dramma del momento, evitando accuratamente di chiamarlo per nome, e lusingando o incoraggiando quotidianamente lo spirito di ‘resilienza’ del consumatore. Come tutte le ideologie (o fedi) forzosamente ottimistiche, infatti, la pubblicità non può ammettere l’esistenza tragica e insuperabile del male, deve rimuoverla o declassarla a variabile dipendente della nostra capacità di resistenza e di reazione. Nell’insieme il gusto di questi spot nel colmo della pandemia risultava caramelloso, paternalistico, consolatorio. Ma il messaggio di fondo che veniva sempre e comunque – scontatamente – trasmesso era l’invito martellante a tenere lo sguardo alto, proiettato al di là dell’innominabile presente, verso il futuro di una possibile, vicina liberazione. Quella liberazione dal pericolo mortale che tutti ovviamente desideravano per sé ma che il sistema edo-consumistico desiderava ancora di più per rilanciare la locomotiva, per poter ricominciare a correre a pieno ritmo, come prima.

7) Domanda ultima: perché opporsi alle sirene della pubblicità se esse ci offrono quello che ci piace o che comunque può piacerci? Perché opporci al sistema edo-consumistico se promette di realizzare, come il genio della lampada, i nostri desideri? Se con un clic posso avere a casa mia in poche ore e a prezzi stracciati un prodotto che desidero, perché preoccuparmi se chi lo produce è uno schiavo e se chi me lo recapita è un rider h24 e se l’impresa che me lo fornisce è un megalodonte planetario che sta sbranando tutte le concorrenze locali? Sperare in una autoregolamentazione etica generalizzata degli individui/consumatori è forse una pia illusione. E un individuo che si opponga al sistema edo-consumistico rischia di apparire a se stesso, prima che agli altri, uno sciocco e anacronistico piagnone. Eppure, se ragionassimo in termini di convenienza e non di giustizia, ci accorgeremmo che l’illusione più catastrofica è oramai proprio la fiducia, cieca e illimitata, che il genio della lampada possa esaudire all’infinito i nostri desideri. Presto infatti, così continuando, non riuscirà ad accontentarci più neanche nei nostri bisogni primari. E la catastrofe non riguarda i nostri discendenti in un futuro lontano. Incombe su di noi e sui nostri figli. Disastro ambientale e climatico, esaurimento delle materie prime, sovrappopolazione, miseria e immiserimento crescenti, diseguaglianze abissali. Senza porre dei limiti alla espansione di questo sistema si finisce presto – domani o dopodomani – nel baratro.

8) Eppure il vecchio Epicuro, senza sapere nulla di noi né del neocapitalismo edonistico moderno, aveva già capito tutto. Aveva capito sì che il piacere, proprio lui, è la mèta e che il desiderio di esso è il motore della nostra esistenza. Ma proprio perciò aveva stabilito limiti rigorosi e regole selettive alla fruizione del piacere stesso, perché sapeva bene che, assecondandoli e titillandoli all’infinito, piacere e desiderio producono solo infelicità e conducono alla catastrofe. Aveva già abbozzato a suo modo la teoria di una “non-crescita felice”. L’edonista Epicuro sarebbe oggi il più fiero antagonista del sistema edo-consumistico e della sua deriva pubblicitaria. Non avevano capito male di lui, nell’antichità, quei moralisti cristiani che lo consideravano un loro fratello spirituale. Per essere un vero edonista, per godersi davvero la vita, bisogna saper rinunciare a molto. Anche Orazio, che era un edonista epicureo, la pensava allo stesso modo. Ma questa della rinuncia è una virtù che le ultime generazioni – successive a quella uscita dall’ultima guerra – hanno completamente smarrito. Sulle loro coscienze il nuovo fascismo di cui parla Pasolini ha funzionato alla perfezione.

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Covid e nuove sfide educative, incontro online con lo psicanalista Massimo  Recalcati - piacenzasera.it

«Se i nostri ragazzi non hanno potuto beneficiare di una didattica in presenza nel corso di quest’anno, se hanno perduto una quantità di ore e di nozioni significative e di possibilità di relazioni, questo non significa affatto che siano di fronte all’irreparabile. Il lamento non ha mai fatto crescere nessuno, anzi tendenzialmente promuove solo un arresto dello sviluppo in una posizione infantilmente recriminatoria. A contrastare il rischio della vittimizzazione è il gesto etico ed educativo di quegli insegnanti che spendono se stessi facendo salti mortali per fare esistere una didattica a distanza. Insegnare davanti ad uno schermo significa non indietreggiare di fronte alla necessità di trovare un nuovo adattamento imposto dalle avversità del reale testimoniando che la formazione non avviene mai sotto la garanzia dell’ideale, ma sempre controvento, con quello che c’è e non con quello che dovrebbe essere e non c’è. Si tratta di una lezione nella lezione che i nostri figli dovrebbero fare propria evitando di reiterare a loro volta la lamentazione dei loro genitori. Non ci sarà nessuna generazione Covid a meno che gli adulti e, soprattutto, gli educatori non insistano a pensarla e a nominarla così lasciando ai nostri ragazzi il beneficio torbido della vittima: quello di lamentarsi, magari per una vita intera, per le occasioni che gli sono state ingiustamente sottratte». [M.Recalcati, La Repubblica 23.11.20 (grassetti miei)]

Una voce controcorrente, quella dello psicoanalista Recalcati sulla cosiddetta DAD, nel fiume delle lamentazioni vittimistiche e giovanilistiche del mainstream mediatico degli ultimi mesi. Condivido dalla prima all’ultima parola: già scrivevo qualcosa di molto simile (ignorando ancora le posizioni di Recalcati) nel post Bambini adulti e adulti bambini di qualche tempo fa. Ho sempre ritenuto per parte mia che storicamente il vittimismo perpetuo di persone, gruppi, categorie, popoli interi – anche quando si fondi su di un grave torto o su di una sventura effettivamente patiti – rischi di diventare nel tempo un intollerabile alibi per fuggire le proprie responsabilità e per giustificare la propria inerzia, la propria inettitudine, persino gravi e (altrimenti) imperdonabili colpe. Ma forse Recalcati non sa che nella scuola attuale moltissimi dirigenti e non pochi insegnanti concedono ai giovani questo beneficio torbido della vittima molto a buon mercato, anche in tempi normalissimi e per ragioni molto più banali e pretestuose di una pandemia. Chi non vive nella scuola non può in effetti sapere che la deresponsabilizzazione e la vittimizzazione degli adolescenti sono oggigiorno una pratica quotidiana, figlia di una fede ideologica per alcuni e di una strategia politica per altri. Ma entrambi i comportamenti convergono verso un unico effetto diseducativo. Da un lato ci sono educatori (quelli che io definisco i prof ‘psicosocio’) convinti, per inclinazione personale e/o per soggezione a certo pedagogismo alla moda, che i ragazzi siano angeli incarnati, incapaci di ogni malizia e di ogni malefatta che non derivi dagli errori e dal cattivo esempio degli adulti o dalle storture dell’ambiente e della società. Questi educatori non riescono nemmeno a concepire che un diciottenne sia un essere autonomo e debba ormai accollarsi i suoi doveri e le sue responsabilità: di fronte a problemi grandi e piccoli che riguardano la comunità scolastica essi non sanno fare altro, di conseguenza, che giustificare i giovani e flagellare se stessi. Dall’altro lato ci sono dirigenti che da anni oramai hanno abbracciato un facile e spudorato populismo giovanilistico come unica e formidabile arma per riscuotere la customer satisfaction, cioè per accattivarsi il favore delle famiglie e per raggranellare iscrizioni. In questo sono spalleggiati sempre e trasversalmente dalla politica e da gran parte dei mass media. Quando parliamo della questione giovanile non riflettiamo mai abbastanza sul fatto che gli adolescenti e i giovani sono anzitutto un formidabile e vastissimo target pubblicitario, non solo per gli istituti scolastici, ma anche e soprattutto per l’industria, per il commercio e per la politica. Il consenso dei giovani muove interessi vari ed enormi. Ecco perché esso interessa molto di più che la loro crescita e la loro autentica educazione. Ecco il perché, nemmeno tanto recondito, di un giovanilismo così diffuso e spesso così malinteso e sospetto, nella scuola e fuori di essa. Ecco, insomma, il vero motivo di tanta campagna mediatica contro la DAD. Una campagna in gran parte inopportuna e strumentale, dati i tempi e le circostanze. Perché avrei voluto vedere che cosa sarebbe stato della scuola, nei mesi più bui della pandemia, senza questo pur limitato e imperfettissimo strumento. Ripeto: i miei genitori persero anni di istruzione elementare e media durante l’ultima guerra mondiale. Hanno sofferto molto, ma poi hanno vissuto e costruito la loro vita con rinnovata energia, con saggezza e con spirito di iniziativa. Ed è stata paradossalmente quella traumatica esperienza a insegnare loro come affrontare al meglio le avversità. Pathei mathos: soffrendo si impara. E si matura. Vale ancora e per tutti il vecchio motto eschileo. Ma vale molto di più per i giovani, perché la loro è l’età più adatta per imparare, appunto. Anche e soprattutto dalle sofferenze. Grazie Recalcati. Anche se siamo in pochi ormai a pensarla così, una volta tanto abbiamo trovato un compagno di strada autorevole ed ascoltato.

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DRAMMA, FARSA O TRAGEDIA? | Blog di giuli44
15 novembre 1960 : la prima storica trasmissione del maestro Alberto Manzi  “Non è mai troppo tardi” – San Paolino's Voice

Parlando in tv della situazione attuale Corrado Augias l’ha definita più di una volta una tragedia. E ha spiegato in perfetta sintesi, da intellettuale saggio, cólto e navigato quale è, anche il perché: è una tragedia perché continuamente si deve operare una scelta: tra la salute e l’economia, tra esigenze sanitarie ed esigenze sociali ecc. E questa scelta obbligata comporta comunque – qualunque strada si scelga -, insieme ad un possibile giovamento, anche una sicura perdita, un drammatico prezzo da pagare. Bravo il vecchio (e non per caso) Augias. Sì, perché modernamente la parola tragedia si è tanto inflazionata da smarrire il proprio significato autentico e più antico che invece Augias ben conosce. Tragedia non è infatti, genericamente, un qualsiasi evento luttuoso. Il cuore di una vicenda tragica è la fatale drammaticità della scelta. «Che fare?» si domandano spesso, di fronte a un bivio ineludibile, i personaggi del dramma greco antico: decidere, in una tragedia, è un obbligo e una condanna. Una sanguinosa necessità. Perché non si deve decidere tra il bene e il male, ma tra due alternative ugualmente/diversamente ‘buone’ e ‘cattive’, utili e nocive insieme. Se siamo invece ubriacati e rimbambiniti dall’ottimismo retorico pervasivo della pubblicità, dei media e delle fiction cine-televisive pop (dove contano solo il lieto fine e la distinzione netta e fittizia tra bene e male, o tra buoni e cattivi) allora non siamo più in grado di avvertire l’incombenza della tragedia, né di affrontarla fattivamente da adulti. Perché il ‘racconto pop’ di noi stessi che ci somministra ogni giorno il sistema edo-consumistico di massa è una droga che ottunde il senso del tragico e ci immerge in una sognante melassa moralistico-sentimentale: il brodo di cultura più adatto per l’individuo eterno adolescente di oggi. Anziché aiutarci ad affrontare con coraggio e responsabilità la scelta, questa ‘racconto’ ne rimuove la necessità: ci consola illudendoci che ne usciremo semplicemente ‘resistendo’. Continuando cioè, a nostro e altrui danno, a non scegliere.

Proteste, sit-in, accorati appelli per la scuola in presenza, invettive contro la Dad, requisitorie contro l’effetto spersonalizzante del computer, lo smarrimento dei contatti umani nella solitudine vissuta davanti a uno schermo… Protestano intellettuali, insegnanti, studenti. Penso lì per lì: critiche giuste, sacrosante. Non si possono tenere un anno i ragazzi tutti a casa solo perché nel frattempo non si sa o non si vuole migliorare il trasporto scolastico, organizzare una scuola più sicura con una frequenza parziale, che sia al 50 o 70%… Poi però leggo sui giornali che l’80% dei ragazzi delle superiori non vorrebbe tornare fisicamente a scuola perché lo ritiene ancora pericoloso. E poi apprendo da un serissimo programma di inchiesta televisiva che molti nostri adolescenti passano qualche ora del giorno davanti a uno schermo per seguire indiavolati influencer o streamer, loro coetanei o poco più grandi, che li rimbambiniscono con intrattenimenti futili, demenziali e/o compulsivo-ossessivi. E poi, ancora, penso a mio padre e ai suoi coetanei, giovanissimi durante l’ultima guerra, che hanno perso anni di scuola sotto i bombardamenti o al fronte o nei campi di prigionia, e si sono diplomati solo nel dopoguerra. E poi penso al maestro Manzi che nei primi anni sessanta ha istruito dal piccolo schermo migliaia di analfabeti ed appassionato anche me, bambino, che lo seguivo tutti i giorni in tv. E mi faccio delle domande: quanto sono giustificati (e non ideologici) gli appelli degli intellettuali contro la telescuola? Quanto sono sincere ( e rappresentative) le proteste degli studenti se poi in realtà a scuola non vogliono tornarci? O se soffrono tanto davanti a un computer quando si collegano col loro prof, ma non altrettanto quando si collegano con uno youtuber di successo? Mio padre (che era un operaio specializzato con licenza elementare) e quelli della sua generazione (che ha annoverato fior di intellettuali) hanno imparato dai tragici orrori della guerra di più o di meno di quanto avrebbero imparato frequentando regolarmente la scuola e l’università? Insomma mi viene qualche dubbio, non certo sulla indiscutibile limitatezza e imperfezione della Dad, ma sulla giustezza, la credibilità e la proporzione (dato il momento) delle recriminazioni e delle lamentazioni che si levano contro di essa.

A proposito di lamentazioni. Le più alte e sicuramente le più giustificate provengono, oltre che dal mondo della scuola, da quello delle arti, del teatro, del cinema. Sacrosante anche queste, se fossimo in una situazione normale. Comprensibilissime, visto che si tratta di professionisti che vivono di questo loro nobile mestiere. Non ho personalmente dubbi (e questo blog credo lo testimoni abbastanza) che la produzione e la fruizione della cultura umanisticamente intesa sia (o debba essere) lo scopo principale per cui stiamo al mondo. Che possiamo dirci esseri umani soprattutto per questo. Sono convinto insomma che la cultura sia la cosa più importante, del mondo e nel mondo degli uomini. Ma, ahinoi, non viene per prima. È l’ultimo gradino, il perfezionamento ultimo della nostra humanitas. Quando per necessità contingenti l’umanità regredisce a bisogni primari la cultura, purtroppo, non può che farsi (o essere messa) da parte. E deve attrezzarsi, come può, a sopravvivere, per continuare a far sentire la sua flebile ma importantissima voce. Not least but last.

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