[Odi, I 34]
Ero un devoto tiepido e saltuario,
seguivo allora filosofie bugiarde:
mi tocca adesso di invertire il corso,
ripercorrere la rotta abbandonata.
Il padre Giove infatti – lui che fende
con la fiamma del fulmine le nubi –
negli azzurri del cielo ha scatenato
i suoi tonanti cavalli e il carro alato.
Con quello squassa la terra addormentata
e i fiumi che serpeggiano e lo Stige
e la dimora orribile dei morti
e Atlante, al termine del mondo.
È suo potere esaltare chi giace,
umiliare chi è in vista, e chi è oscuro
sollevarlo alla luce. Gode a strappare
la corona ad uno per offrirla altrui –
fra stridori strazianti – l’artiglio della Sorte
Una abiura del proprio credo epicureo? – Orazio in effetti lo definisce qui addirittura una filosofia insaniens, folle e insensata (io ho preferito, forzando un po’, il dantesco bugiarda) – Una ritrattazione dei cardini della propria concezione di vita? Orazio confessa in effetti qui di essersi riconvertito alla fede negli dèi tradizionali. Sarebbe stato un tremendo temporale a spaventarlo, a rammentargli la precarietà della condizione umana soggetta al potere arbitrario e violento degli dèi, e del caso (Fortuna). Il caso, già. Ecco, qui c’è a mio parere la nota – l’unica – sincera della confessione oraziana: il dubbio, cioè, che irrompe nella coscienza del poeta quando nel sereno arazzo epicureo di un universo regolato da leggi naturali il Caso, ovvero la Sorte imprevedibile (la greca Tyche), affonda improvviso e lacerante il suo artiglio (così ho voluto tradurre, concretizzando l’astrazione, Fortuna rapax). È una angoscia che emerge repentina dal profondo dell’animo di Orazio e che squassa le sue certezze, la sua illusione di dominare, con la sapienza, il mondo. Orazio – non mi stanco di ripeterlo – è un poeta molto meno tranquillo ed olimpico di quanto si creda. Non è neanche (e qui lo ammette) un epicureo di stretta osservanza. Ma non è (non potrebbe costituzionalmente esserlo, mai) un San Paolo sulla via di Damasco. È e rimane (tutta la sua opera sta lì a testimoniarlo) uno spirito scettico, profondamente laico. La apostasia filosofica di cui parla qui non è altro, in realtà, che il rovesciamento ironico di un topos epicureo consacrato dalla poesia di Lucrezio. Nell’incipit celebre del De rerum natura (vv. 62ss.) si legge infatti del maestro Epicuro che non si lascia abbattere da tuoni e fulmini di un tremendo temporale, come fa invece la gente comune pensando che siano mandati da Giove. Anzi Epicuro sconfigge quel terrore interpretando razionalmente (scientificamente) quei fenomeni in chiave puramente fisica. Insomma, le certezze epicuree di Orazio barcollano, sì, per un istante almeno, sotto i colpi della Fortuna, ma la sua dichiarata, oscurantistica riconversione alla religio dei padri è solo una deliziosa messa in scena. Puro e ammiccante (doppio)gioco letterario. I suoi coltissimi amici, Mecenate e gli altri (spiriti scettici e laici da par loro), erano in grado di afferrare benissimo questo esprit de finesse. Augusto avrà forse fatto finta di non coglierlo. Qualche lettore moderno troppo devoto, invece, potrebbe magari cascarci ed esclamare (come il bigotto di Nanni Moretti che ho citato in un altro post): «Vedete, anche Orazio, pure lui, era uno dei nostri!!».
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