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Archive for dicembre 2020

Epicuro
Giove-Zeus

[Odi, I 34]

Ero un devoto tiepido e saltuario,

seguivo allora filosofie bugiarde:

mi tocca adesso di invertire il corso,

ripercorrere la rotta abbandonata.

Il padre Giove infatti – lui che fende

con la fiamma del fulmine le nubi –

negli azzurri del cielo ha scatenato

i suoi tonanti cavalli e il carro alato.

Con quello squassa la terra addormentata

e i fiumi che serpeggiano e lo Stige

e la dimora orribile dei morti

e Atlante, al termine del mondo.

È suo potere esaltare chi giace,

umiliare chi è in vista, e chi è oscuro

sollevarlo alla luce. Gode a strappare

la corona ad uno per offrirla altrui –

fra stridori strazianti – l’artiglio della Sorte

Una abiura del proprio credo epicureo? – Orazio in effetti lo definisce qui addirittura una filosofia insaniens, folle e insensata (io ho preferito, forzando un po’, il dantesco bugiarda) – Una ritrattazione dei cardini della propria concezione di vita? Orazio confessa in effetti qui di essersi riconvertito alla fede negli dèi tradizionali. Sarebbe stato un tremendo temporale a spaventarlo, a rammentargli la precarietà della condizione umana soggetta al potere arbitrario e violento degli dèi, e del caso (Fortuna). Il caso, già. Ecco, qui c’è a mio parere la nota – l’unica – sincera della confessione oraziana: il dubbio, cioè, che irrompe nella coscienza del poeta quando nel sereno arazzo epicureo di un universo regolato da leggi naturali il Caso, ovvero la Sorte imprevedibile (la greca Tyche), affonda improvviso e lacerante il suo artiglio (così ho voluto tradurre, concretizzando l’astrazione, Fortuna rapax). È una angoscia che emerge repentina dal profondo dell’animo di Orazio e che squassa le sue certezze, la sua illusione di dominare, con la sapienza, il mondo. Orazio – non mi stanco di ripeterlo – è un poeta molto meno tranquillo ed olimpico di quanto si creda. Non è neanche (e qui lo ammette) un epicureo di stretta osservanza. Ma non è (non potrebbe costituzionalmente esserlo, mai) un San Paolo sulla via di Damasco. È e rimane (tutta la sua opera sta lì a testimoniarlo) uno spirito scettico, profondamente laico. La apostasia filosofica di cui parla qui non è altro, in realtà, che il rovesciamento ironico di un topos epicureo consacrato dalla poesia di Lucrezio. Nell’incipit celebre del De rerum natura (vv. 62ss.) si legge infatti del maestro Epicuro che non si lascia abbattere da tuoni e fulmini di un tremendo temporale, come fa invece la gente comune pensando che siano mandati da Giove. Anzi Epicuro sconfigge quel terrore interpretando razionalmente (scientificamente) quei fenomeni in chiave puramente fisica. Insomma, le certezze epicuree di Orazio barcollano, sì, per un istante almeno, sotto i colpi della Fortuna, ma la sua dichiarata, oscurantistica riconversione alla religio dei padri è solo una deliziosa messa in scena. Puro e ammiccante (doppio)gioco letterario. I suoi coltissimi amici, Mecenate e gli altri (spiriti scettici e laici da par loro), erano in grado di afferrare benissimo questo esprit de finesse. Augusto avrà forse fatto finta di non coglierlo. Qualche lettore moderno troppo devoto, invece, potrebbe magari cascarci ed esclamare (come il bigotto di Nanni Moretti che ho citato in un altro post): «Vedete, anche Orazio, pure lui, era uno dei nostri!!».

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Come allevare maiali in giardino - Idee Green

C’è chi abita il tempo, altri

la vita o la stanza infinita del mondo

altri il futuro, il passato, oltre che

il più ovvio presente, altri ancora

la ragnatela virtuale del niente. Con eleganza

tutti abitano tutto: il lavoro, la vecchiaia, la coppia,

la crisi, il desiderio, il sogno, la speranza…

Ennesimi oggetti del poetismo più jolly che ci sia:

perìto abilitato a rilasciare con facilità

a chiunque e a checchessia certificati

di abitabilità. Io invece

che sono squallido

e sporco, abito solo

lo stanziolo del porco.

L’uso metaforico e spregiudicato di abitare è diventato una delle (detestabili) mode più esibite dal linguaggio attuale dei media. Sostituto ormai fisso dei più comuni vivere, trovarsi, aggirarsi, stare ecc. il verbo abitare è sentito (un po’ come declinare, di cui parlo in un altro mio post) come un traslato chic, un tocco di eleganza espressiva, uno scarto creativo rispetto alla banalità di quei suoi vari, vecchi e più sciatti sinonimi. Si tratta invece di un vezzo urtante per chi abbia autentico gusto linguistico: sia perché è un poetismo fasullo (suona bene senza creare significato né arricchirlo) sia perché è invecchiato (e si è squalificato) prestissimo a forza di essere legato – forzosamente e a vanvera – con una infinità eterogenea di oggetti. Insomma: un altro gingillo di bigiotteria lessicale di cui si sarebbe fatto volentieri a meno. Ma l’epigramma che ho improvvisato sopra esprime forse meglio di ogni commento quanto io apprezzi questi gioielli falsi, questi sottoprodotti da laboratorio pubblicitario diffusi rapidamente nella lingua per facile contagio mediatico. Tanto rapidamente da non essere ancora registrati nei più recenti dizionari italiani.

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L'elegia d'amore di Tibullo e Properzio | Studenti.it

Orazio, Odi I 33

Albio, basta soffrire così tanto

pensando a quella stronza di Glicera!

Basta elegie che grondano di pianto,

basta chiedersi perché (dopo averti

giurato fedeltà) lei ti ha mollato

per un tizio più giovane di te!

Licoris dalla fronte graziosina

smania d’amore per Ciro, e lui, Ciro,

che fa? Lui corre dietro alla ritrosa

Foloe: ma molto prima che Foloe

la conceda ad un ganzo così losco

s’accoppieranno i lupi con le capre.

Venere vuole così: si diverte,

lei, a legare ad un giogo di bronzo

– giocando come il gatto con il topo –

tipi diversi per animo e aspetto.

Pure me, d’altra parte, che miravo

parecchio più in alto, m’incatena

il fascino di Mirtale liberta:

una che mi tormenta più che il mare

Adriatico i golfi del Salento.

L’eterna giostra dell’amore: chi insegue a sua volta fugge, in una catena di desideri inappagati o beffati, di felicità frustrate o tormentate. Evocare questo motivo, topico sotto ogni latitudine letteraria (tra i tanti e più di tutti mi sovvien l’Ariosto), serve ad Orazio per offrire all’ amico Albio (Tibullo?), appena e malamente scaricato dalla sua amichetta, un conforto: «Così succede a tutti, che vuoi farci, è legge di Venere e io stesso – lo vedi – ci son dentro e mi tocca sottostare…». Ma il poeta osserva questa giostra, come sempre, da un gradino più in alto rispetto alla comune umanità: per quanto non sia indenne da quei tormenti, c’è in Orazio una metabolizzazione del vissuto che lo immunizza, una consapevolezza ironica che consente il distacco e disinnesca il dramma. Trattandosi di linguaggio sentimentale mi sono permesso, nella traduzione, qualche licenza sintattica e lessicale modernizzante (non era facile tradurre inmitis Glycerae con un termine più incisivo di quello che ho scelto…). Il gioco crudele (saevus iocus) di Venere l’ho reso (e non solo per motivi metrici) con una perifrasi tratta dal nostro frasario quotidiano (giocando come il gatto con il topo) che trovo abbastanza calzante.

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Strategia Bridge, Processo Commerciale per aziende B2B | Vehnta

“A chi più ha più sarà dato”:

proprio i sacri testi additano

nel sistema bancario

l’incarnazione più autentica

del messaggio evangelico…

La bellezza è di una

inutilità irrinunciabile.

Chi soffre la sindrome del servo

cova una voglia matta

di farti da padrone.

Se realizzi quanto è facile

comprare e quanto difficile

vendere, allora sei proprio

adulto. Forse addirittura

un po’ vecchio.

I soldi non interessano solo

a pochissimi tra quanti

già ne posseggono

tanti.

L’abisso tra

i nostri padri e

i nostri figli. Noi

sull’abisso

il ponte…

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