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Archive for the ‘letteratura’ Category

Apprendo adesso con soddisfazione dal mio editore Ladolfi e dalla stampa della vittoria ex-aequo del mio libretto di poesie Pietra e farfalla al premio Cecco d’Ascoli 2023 per la poesia edita.

https://www.spazio50.org/ascoli-piceno-i-vincitori-del-premio-cecco-dascoli

https://www.ilrestodelcarlino.it/ascoli/cronaca/premio-cecco-dascoli-dalla-poesia-alla-prosa-ecco-i-nomi-dei-vincitori-cab14b29

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È appena uscito nella rivista culturale Limina un mio articolo che rende, spero, il dovuto  - anche se tardivo – omaggio a Romano Palatroni, un grande ma dimenticato traduttore novecentesco di Baudelaire, del quale ho avuto modo di parlare in un altro post qualche anno fa. Ecco il link del mio articolo:

https://www.liminarivista.it/comma-22/campane-allimprovviso-romano-palatroni-il-traduttore-dimenticato-di-baudelaire/

Invito caldamente a leggere il pezzo per poter apprezzare la qualità a tratti squisita e unica delle traduzioni artistiche di Palatroni, un ‘dilettante’ di straordinario talento che solo la cattiva sorte e la marginalità geografica (meglio: ‘geo-letteraria’) ha condannato per decenni all’oblio, Solo pochi anni fa le sue traduzioni di Baudelaire e di altri grandi simbolisti francesi sono state ripubblicate grazie all’iniziativa appassionata e meritoria di Antonio Prenna, di cui per altro apprendo solo ora, con grande dispiacere, la notizia della recente e prematura scomparsa.

Buona lettura.

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«Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! […] Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti.» (A. Manzoni, I promessi sposi, cap. VIII)

Prima parte dell’arcinoto Addio monti manzoniano. E adesso, a fronte, un passaggio di Tempi difficili di Dickens:

«[…] Se ne andò sul far dell’alba abbracciando con lo sguardo, per l’ultima volta, la stanza e chiedendosi se l’avrebbe rivista mai più. La città era vuota come se gli abitanti avessero preferito abbandonarla che avere con lui un qualsiasi contatto. A quell’ora le cose sembravano diafane e sbiadite. Perfino il sole nascente pareva una chiazza pallida nel cielo simile a un mare triste.  Passò […] lungo vie fiancheggiate da case di mattoni rossi; passò accanto alle grandi fabbriche immerse nel silenzio, non ancora scosse dai fremiti delle macchine; accanto ai binari dove le luci di segnalazione sbiadivano pian piano, sopraffatte dal chiarore del giorno; accanto agli assurdi quartieri intorno alla ferrovia, costruiti a metà e a metà diroccati; accanto alle ville di mattoni rossi, sparse qua e là, dove sempreverdi, ormai affumicati e cosparsi di polvere nera, sembravano sudici fiutatori di tabacco; lungo sentieri ricoperti di scorie di carbone; accanto a una grande varietà di brutture, fino a che, raggiunta la sommità del colle, non si voltò a guardare indietro.  Un sole radioso splendeva sopra la città e nelle fabbriche le sirene annunciavano l’inizio del lavoro. Nelle case non era stato ancora acceso il fuoco, e le alte ciminiere avevano il cielo tutto per loro. Fra un po’ avrebbero nascosto l’azzurro con i loro sbuffi di fumo velenoso, ma, ancora per mezz’ora, le finestre sarebbero state d’oro sotto i raggi del sole; poi la gente di Coketown vi avrebbe visto, attraverso i vetri sporchi di fumo, un sole in fase di eterna eclissi.  Che strana sensazione allontanarsi dalle ciminiere, vedere gli uccelli, sentire il loro canto! Che strana sensazione avere sui piedi la polvere della strada invece della polvere del carbone! Che strana sensazione trovarsi a cominciare tutto da capo alla sua età, come un ragazzo, in quella mattina d’estate! Con questi pensieri nella mente e il fagotto sotto il braccio, Stephen si volse a guardare, assorto, la strada maestra.» (Tempi difficili, parte II, cap. 6)

Non so se Dickens tenesse presente o meno, scrivendo questo pezzo, il passo manzoniano. Improbabile, anche se non impossibile, dato che I promessi sposi erano discretamente noti a metà dell’Ottocento negli ambienti letterari inglesi. Oggettivamente, che risenta o no di una suggestione manzoniana (più o meno consapevole), il pezzo di Dickens è comunque un ideale, scioccante controcanto all’Addio monti. Narrativamente, un esodo il primo e uno speculare ‘controesodo’ il secondo: rispettivamente dalla campagna alla città e dalla città alla campagna. Ma metaforicamente entrambi sono immagine della dilemmatica oscillazione tra visioni ( o aspirazioni o condizioni) opposte e complementari della vita moderna: dalla natura alla anti-natura e ritorno; dalla (presunta) felicità all’infelicità (certa) e viceversa. Manzoni parla di una migrazione forzata e dolorosa; Dickens di una fuga liberatoria. In mezzo però, punto indesiderato di arrivo prima e poi di partenza, rimane sempre la città: prigione volontaria, male assoluto ma necessario, luogo dell’inumano stipato di umani, vertice e abisso della civiltà evoluta, ombelico e cloaca dell’universo industriale, madre e figlia del nostro sviluppo senza progresso… Un primo e lontano germe di consapevolezza di questa drammatica e direi fondante antinomia del nostro mondo c’era già nel secondo libro delle Georgiche. Ma il vecchio Virgilio non poteva avere ancora sentore della esponenziale e potenzialmente distruttiva escalation dello sviluppo urbano/industriale di oggi. Cosa di cui Dickens (et pour cause) possedeva invece, più di Manzoni e già a metà dell’ottocento, chiarissima consapevolezza.

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La scuola è ricominciata da poco. E quando la scuola ricomincia se ne parla un po’, come da rito, sui media, così come se ne parla un po’ anche a giugno, al termine delle lezioni. Poi, per lo più, cala il silenzio, salvo occasioni eccezionali o pretestuose. Chiacchiere comunque scontate che non vale in genere la pena né di leggere né di commentare.

Quest’anno invece mi hanno colpito, per opposti motivi, un paio di cose uscite a breve distanza di tempo entrambe su La Stampa. La prima è un articolo dello psicoanalista Massimo Recalcati pubblicato l’11 settembre scorso e intitolato la scuola al via: gli insegnanti sono la luce. Ne riporto alcuni passaggi:

« Le norme grigie che strutturano il tempo scolastico (calendari, riunioni, programmi, valutazioni, ecc.) favoriscono la sua rappresentazione come una istituzione condannata a una ripetizione senza sorpresa. Un peso al collo o una condanna nel vissuto di molti studenti. Una incombenza necessaria in quello di molti insegnanti. Il processo di istituzionalizzazione della Scuola tende infatti a consumare anche i migliori. È quella che ho definito altrove l’anima grigia dei dossier, il feticismo del numero, l’assillo della quantificazione. […] Questa riduzione del sapere a un sapere morto scoraggia l’entusiasmo dell’apprendimento e ribadisce la sua separazione dalla vita. A cosa serve apprendere, studiare, sapere se poi l’impatto con la vita ne rivelerebbe fatalmente l’inutilità? La formazione scolastica sarebbe allora una perdita di tempo, un ritardare inutilmente l’inizio dell’attività lavorativa, come sostengono anche noti imprenditori del nostro paese? Dovremmo sempre, oggi più che mai, contro discorsi simili, ricordare la centralità della scuola non tanto come luogo di accumulo di informazioni, ma come luogo insostituibile di formazione. L’esperienza della Scuola non è solo esperienza di una routine mortifera, ma anche della luce del sapere: il sapere non è un libro morto, ma un libro vivo, non è una passione triste ma una passione erotica. Ma questa luce deve essere testimoniata da chi insegna. […] L’esperienza della luce richiede sempre dedizione, cura, attenzione. È quella che molti hanno avuto la fortuna di incontrare nei propri maestri. Diversamente, la distrazione svia da ogni possibile cura. Ecco la testimonianza difficile a cui sono tenuti i nostri insegnanti. Dare prova di una concentrazione che non sia una forma ottusa del rigore, ma una cura. Essere concentrati sulla propria pratica è, del resto, la sola salvezza possibile per non cadere in una ripetizione scolastica del sapere che stroncherebbe anche gli spiriti più nobili. È la solitudine inevitabile che accompagna ogni insegnante: restare concentrati sul proprio lavoro, restare prossimi alla cosa, non lasciarsi distrarre dai rumori del mondo.»

Parole sante, specie queste ultime. Contro la diffusa burocratizzazione della vita scolastica e la minaccia tecnocratica incombente della sua trasformazione in puro addestramento pratico e professionale Recalcati ripropone (sulla scia del suo bel libro L’ora di lezione) una visione alta e disinteressata di scuola come luogo – lo chiama lui – di erotizzazione del sapere e della cultura. Erotizzare sapere e cultura significa per Recalcati non sostituire i contenuti delle discipline umanistiche e scientifiche con ‘educazioni’ spicciole né con più banali e brillanti argomenti à la page, bensì rendere desiderabili proprio quei contenuti spostando sempre più in là, con un metodo che definirei fondamentalmente socratico, il limite della conoscenza: suscitando cioè dubbi e interrogativi, stimolando la curiosità, promovendo la partecipazione emotiva e lo spirito critico. Il prof vero secondo Recalcati è (ha da essere) un portatore di luce. Un maestro. Uno che non si abbassa alla sottocultura di massa ma innalza i suoi studenti alla cultura autentica. Obiettivi ambiziosi ma fondamentali per salvaguardare e incrementare la qualità dell’insegnamento. Obiettivi che purtroppo la scuola reale e quella progettata (ed in fieri) dalle riforme ministeriali (ne ho scritto anche troppo) sembrano ignorare o addirittura contrastare.

La strada maestra indicata da Recalcati non è a mio avviso per niente affatto anacronistica né astratta, specie se pensiamo alla scuola liceale: se da decenni questa strada non viene più seguita questo accade da noi non per una inevitabile cambiamento imposto dai tempi ma per una precisa scelta politica e dirigenziale. Non è infatti soltanto la grigia burocratizzazione denunciata da Recalcati a depauperare la scuola e a deprimerne l’efficacia didattica ma sono anche e soprattutto, nella scuola ‘autonoma’, il trionfo, pilotato e caldeggiato dall’alto, dei progetti più balzani e peregrini sopra la programmazione disciplinare e l’invadenza sistematica di attività ludiche e promozionali in sostituzione (e a crescente discapito) della lezione ordinaria: proprio quella nella quale il prof dovrebbe illuminare gli allievi concentrandosi e concentrandoli sui tesori della sua materia. Invece la lezione ordinaria oramai viene additata con disprezzo dai soloni ministeriali come anticaglia sacrificabile a qualsiasi altra attività-paccottiglia-bigiotteria di quelle nominate sopra. Ma lasciamo stare…

Un altro scritto recente sulla scuola che, per contrasto, mi ha molto intrigato e spiazzato è stato un bel racconto di Monica Acito uscito un mese prima nell’inserto letterario dello stesso giornale (Tuttolibri/La Stampa del 12.08.23). Il racconto si intitola La buona educazione e la storia è narrata in prima persona da una immaginaria, giovane ma poco ‘motivata’ insegnante di scuola superiore, certa prof Macrì. Eccone qualche stralcio (e tenetevi forte…):

« Ritorno alla cattedra e ripren­do a sproloquiare su Dante, virtù e cono­scenza. Ormai non so più cosa sia manco la digni­tà, quando ti metti a fare questo mestiere fir­mi col sangue una clausola in cui rinunci a ogni tipo di rivendicazione di fierezza, intelligenza o altro; non so più nemmeno che cosa sia la vergogna, infatti riprendo a spiegare come se nulla fosse, tutto viene tamponato da una garza che è nascosta da qualche parte del mio corpo, mi passo un fazzoletto gigante sulla bocca umida dello stomaco, tutta la rabbia rimbalza in qualche parte di me che non conosco e poi riemerge di notte, mi risale sulla bocca sotto forma di fiotto acido oppure mi risale dal pube mentre sto facendo sesso, ma mi risale sotto forma di secchezza, blocco e siccità. […] Quando un docente riesce a gestire gli alunni, si dice che «sa tenere la classe». Io la classe non la so tenere, e quando io e Emilia Pinto, la docente di inglese, ci dia­mo il cambio, gli alunni si mettono tutti sull’attenti, sembrano soldatini di piombo, fiammiferi spenti che si mettono in piedi e la ossequiano. Con me, invece, fanno quello che voglio­no, perché io non so tenere la classe, e loro se ne accorgono: agli alunni non puoi na­scondere niente, ti entrano nel corridoio dei pensieri, edificano stanze nella tua mente e si ficcano nel letto pure mentre stai chiavando, ti fissano nella penombra men­tre lo stai prendendo in bocca, sono degli spiritelli cattivi a cui non posso celare nem­meno i miei pensieri più segreti, hanno gli occhi appuntiti e lucenti come quelli dei ro­ditori. Io non so più cosa fare con questi alunni, vedo le loro code che sgusciano ovunque, il sabato e la domenica non lavo­ro e rimango nel letto fino all’una, perché mi sento il canale di scolo dell’umanità, co­me se tutto il materiale di scarto del mondo si fosse calcificato sulla mia pelle e io fossi fatta di squame di nausea. Certi giorni mi chinerei sul cesso e mi metterei a vomitare ogni lettera del mio no­me e del mio cognome, mi metterei a vomi­tare i miei capelli, le mie ciglia, le pupille dei miei occhi liquefatti, tirerei lo sciacquo­ne e andrei a inquinare qualche oceano con quello che rimane di me. Io non ci voglio più entrare in classe, io non le voglio più sentire le mie colleghe che in sa­la docenti si organizzano per fare attività, la­vori di gruppo, cooperative learning, flipped classroom, proiezioni di video, uscite didatti­che, io non so insegnare, e sto facendo que­sto solo perché non so fare niente altro. […] Oggi Martina C. ha esagerato. Mentre spiegavo la latitudine e la longi­tudine nell’ora di geografia, per sbaglio ho confuso meridiani e paralleli perché l’ulti­ma per me è particolare: all’ultima ora, io in realtà non ci penso a cosa sto spiegando, perché non vedo l’ora di correre in macchi­na e fiondarmi nel mio monolocale, per ap­parare una bella piadina farcita di speck in offerta, mozzarella cruda, rucola in busta e maionese mischiata con la salsa barbecue, pure quella in offerta. «La Macrì non sa manco cosa sono i meri­diani e i paralleli, forse le manca la prima media»: Martina C. bisbiglia a Larisa, l’alunna nuova, e quando Martina C. bisbi­glia, sembra una piccola volpe. Larisa an­nuisce e Martina C. le dice, scandendo be­ne le parole «Lo tiene scritto in faccia che nemmeno stanotte ha scopato». Larisa ridacchia e mette un astuccio da­vanti al musetto, e Martina C. scandisce di nuovo bene le parole: «Se scopava, vedi co­me se li ricordava bene i meridiani e i paral­leli!», e Martina C. e Larisa fanno dei cerchi con le dita e dentro ci infilano dei pennarel­li, poi li tolgono e ce li infilano di nuovo, si mettono a stantuffare con le dita pensando che io non le veda.

Sconvolgente, no? E non certo (o non soltanto) per il linguaggio. Vorrei tanto che questa immaginaria prof.ssa Macrì non esistesse. Non fosse mai esistita se non nella testa della sua inventrice. Meglio: vorrei non essere mai stato – non essermi mai sentito – neanche un po’ come lei. Vorrei sentirmi solo ed unicamente come il prof di Recalcati. Ma mi trastullerei, da narciso, in un concetto del mio mestiere troppo alto per essere del tutto credibile. Mentirei con me stesso e con i lettori. Perché questa figura di prof, ahimè, come tutte le figure inventate dalla penna di uno scrittore degno di questo nome (e qui, secondo me, Monica Acito riesce ad esserlo), è più vera (= verosimile) di quelle reali. La sua prof è il contraltare (iper)realistico del prof ideale di Recalcati: è uno specchio crudo della condizione professionale e soprattutto sociale e psicologica dell’insegnante attuale. C’è un gioco rivelatore di specchi, appunto, in questo racconto: lo specchio torturante dello sguardo adolescente che trafigge l’amor proprio della prof inchiodandola a una immagine intollerabile di sé e quello della pagina scritta che riflette sul lettore, senza veli, il depresso e deprimente vissuto interiore dell’io narrante, la sua devastata autostima.

Il re è nudo. La prof Macrì, in senso fisico e metaforico, si sente e ci si mostra nuda. Ogni prof, d’altronde, quando entra in classe, è nudo. Non ha veli né armature né scudi. Deve mettersi in gioco per quello che è, non illudersi di cavarsela, oggi meno che mai, recitando bene una parte.

Se ubbidissi allo spirito di corpo e all’orgoglio di scuderia obietterei a Monica Acito le solite cose: che una prof scoppiata ed incapace come la Macrì non rappresenta quasi nessuno, che professionalmente la media degli insegnanti italiani è molto più preparata e dignitosa di lei ecc… ma anche se queste obiezioni d’ufficio avessero, come credo, un fondamento, sfido chiunque fra i miei colleghi a giurare di non essersi sentito mai, nemmeno una volta, in una condizione interiore simile a quella confessata dalla protagonista. Spergiurerebbe, perché purtroppo questo racconto coglie nel segno della micidiale asimmetria del rapporto docente-alunno. Una asimmetria che si è ingigantita, fino ad esplodere, negli ultimi decenni per il venir meno di ogni principio di autorità e per il concomitante precipitare della condizione professionale e della considerazione sociale dell’insegnante medio italiano. Un racconto così ci rappresenta in certa misura, tocca ammetterlo. È uno schiaffo salutare. Di quelli che solo la buona letteratura è capace di assestare. Perché solo l’onesto riconoscimento del peggio che ci abita e che ci circonda può permetterci di riscattarlo. Di camminare, nel nostro caso, nella direzione auspicabile, nobile e ideale ma tutt’altro che utopica, indicata da Recalcati.

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Il tutto è falso

Il falso è tutto

Un refrain. Brevissimo. Otto parole per definire il mondo che ci circonda, oggi. Meglio: la maschera, il fantasma, la fata morgana l’autorappresentazione mistificante, onnipervasiva del nostro mondo. I media, il marketing, la comunicazione digitale ecc ecc.

Quando si dice con-genialità: Gaber per me (insieme con Leopardi) non è un autore qualsiasi. Lui e Giacomo sono miei Genii: numi tutelari, spiriti protettori, garanti e interpreti inconsapevoli del mio proprio (e non so di quanti altri: pochi, credo – e temo) modo di sentire, di pensare e di giudicare. Un modo identico, spiccicato al loro. Genii con i quali mi è impossibile dis-cordare perché – ne ignoro il motivo, ma sento che è così – essi mi sono in tutto naturalmente con-cordi. Cuori e spiriti e destini miei padri e miei gemelli insieme: hanno soltanto detto prima di me e molto meglio di me quello che io, dopo di loro ma insieme a loro, ho pensato, penso e andrò fino alla fine pensando, pure se non riuscirò mai a dirlo con la stessa genialità. Miei pro-feti, dunque. E Genii forsanche nel senso antico di spiriti capaci di trasmigrare ed incarnarsi in altrui, in chissà quanti altri, nel tempo e nello spazio. Questo sono i grandi autori. Maestri inconsapevoli di allievi devoti. I grandi autori/maestri non consolano, né persuadono, né edificano. Rivelano. Tolgono il velo. Sono brutali come le verità che ci squadernano davanti. Brutalmente generosi e misericordiosi.

Stranamente quei due versicoli di Gaber non li conoscevo ancora. Mi hanno folgorato, per caso, quando ho acceso l’altra mattina l’autoradio. Mi erano – incredibile! – sfuggiti. Non si riesce a conoscere tutto, nemmeno degli autori a noi più cari, vicini e congeniali. Ma stai tranquillo che pure quello che ancora ignori di loro essi lo hanno intanto pensato e sentito in un modo concorde e congeniale col tuo. Automatico. Restava solo da scoprirlo.

Il tutto è falso

Il falso è tutto

Questo distico è una forma chiusa (un chiasmo, lo chiamiamo a scuola): lapidaria, conclusiva, inespugnabile. Oracolo. Rivelazione. Quello che il grande Anonimo del sublime definiva il fulmine che illumina a giorno un orizzonte immerso nel buio. Una sentenza che non ha bisogno di commenti né di motivazioni. Che non teme obiezioni. Parole che pretendono il rispetto del silenzio. E ci consegnano, nella fattispecie, a una quieta disperazione. Perché questa infinita falsità del tutto (forse non è per caso che mi viene di parafrasare Gaber proprio con Leopardi…) siamo noi, noi più che mai oggi, il nostro mondo alla vigilia, temo, della sua definitiva catastrofe. Della sua nichilistica autorivelazione. Della sua Apocalissi.

Il rimanente testo della canzone è un sobrio commento, una coroncina di asteroidi condensati a margine del buco nero:

Non a caso la nostra coscienza
ci sembra inadeguata
quest’assalto di tecnologia
ci ha sconvolto la vita.

[…]

Com’è bello occuparsi dei dolori
di tanta, tanta gente
dal momento che in fondo
non ce ne frega niente.

[…]

Cerco
di afferrare un po’ il presente
ma se tolgo ciò che è falso
non resta più niente.

[]

il falso è un’illusione che ci piace
il falso è quello che credono tutti
è il racconto mascherato dei fatti
il falso è misterioso
e assai più oscuro
se è mescolato
insieme a un po’ di vero
il falso è un trucco
un trucco stupendo
per non farci capire
questo nostro mondo.

Scritto e cantato vent’anni fa (Io non mi sento italiano, 2003). Ma quell’epoca era già la nostra. E l’amarezza di queste profezie sta nel fatto che non cambiano né cambieranno mai la realtà. Cassandra è l’alter ego mitico di Gaber e di Leopardi. Sappiamo come è andata a finire. L’arte e le sue verità e le sue profezie non servono a nulla. Si guadagnano tutt’al più un’ammirazione postuma di pochi dopo aver scontato nella contemporaneità il disprezzo e la sordità di moltissimi. D’altra parte la cultura (quella vera) non si mangia. Aveva ragione un nostro politicante anni fa: è con gli affari che si mangia. È con il marketing e con la speculazione e con la manipolazione delle menti e con la corruzione delle coscienze che si domina il mondo.  Si divora. Si ingrassa. Ci si espande.

Fino ad accorgersi troppo tardi che non c’è più altro da divorare e nessun oltre in cui espandersi.

[PS: post scritto a fine aprile 23 e pubblicato solo oggi per intercorsi impedimenti]

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Who has seen the wind?
Neither I nor you.
But when the leaves hang trembling,
The wind is passing through.
Who has seen the wind?
Neither you nor I.
But when the trees bow down their heads,
The wind is passing by.

Chi ha mai visto il vento?

Io no, e neanche tu.

Eppure, se le foglie oscillano tremando,

è lui, il vento, che le sta attraversando.

Chi ha mai visto il vento?

Non tu, e io nemmeno.

Ma se la chioma degli alberi si abbassa

è lui: è il vento che passa.

Christina Rossetti, (Sing Song, a Nursery Rhyme Book, 1872, trad. mia)

Mi credevo originale quando scrissi qualche anno fa una mia poesiola intitolata “Percezioni indirette“:

Sfollano passeri nella sera

dai rami, lo avverti al brivido

lucido delle foglie, come la danza

acrobatica del ragno al flettere

del filo della tela, e il frullo

in punta delle dita ai suoni

che divampano sul frigido

aplomb della tastiera.

(Pietra e farfalla, 2017)

Invece non era proprio così. Bisogna rassegnarsi, se si scrive poesia, al nihil novi. Senza sentirsi, peraltro, affatto sminuiti. Anzi. La originalità assoluta non esiste, almeno sul piano tematico. E la fratellanza poetica è un dono. D’altra parte la poesia (l’arte in generale) è un po’ come il sole oraziano: aliusque et idem nascitur, sempre

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Ho fatto una fatica immane ad avvicinarmi alla conclusione di Auto da fé (“Die Blendung”: [‘accecamento, abbaglio, illusione’], Adelphi, Milano 2013) di Elias Canetti, ma l’ho finalmente terminato. Antiromanzo tremendo. Mattone indigeribile. Favola disturbante e claustrofobica. Tortura della mente e dello stomaco. Ingrata fantasia espressionista (e i suoi personaggi – mostri umanoidi, più che esseri umani – assomigliano molto alle torve caricature, ai deformi fantasmi di certa pittura espressionistica del primo novecento). Ma ho finito di leggerlo – dopo più di un anno. Ho voluto farlo, perché ne valeva comunque la pena. Metteva conto attraversare fino in fondo questo incubo ad occhi aperti perché ogni tanto esso mi ha gratificato con rapinose visioni – folgorazioni di profondità abissale. Mette conto immergersi nella melma repellente di questo lentissimo fiume soltanto per potervi ogni tanto setacciare enormi pepite, andarvi a caccia di grandi e lucide perle disperse dentro la vischiosa opacità del flusso narrativo.

Non voglio dilungarmi qui a recensire il libro di Canetti. Mi limito, come spesso faccio in questo blog quando parlo di classici, a citarne a margine un paio di passaggi che, nell’ultima parte, mi hanno parecchio colpito. Capirete presto perché.

Il protagonista, lo studioso Peter Kien, sinologo e bibliofilo monomaniacale che vive solo dei suoi libri e per i suoi libri – si abbandona nel finale a uno sfogo surreale ma durissimo contro il genere femminile:

«Sta per essere emanato un decreto concernente l’abolizione del sesso femminile. La pubblica affissione è prevista per domani. Lo renderà noto il portiere. La sua voce verrà udita da tutta la città, da tutto il paese, da tutti i paesi del mondo, fin dove giunge l’atmosfera terrestre, gli altri pianeti si arrangino, noi siamo oberati, oberati di donne, ogni tentativo di abrogazione viene punito con la pena di morte, l’ignoranza della legge non giustifica. Tutti i nomi di battesimo avranno desinenze maschili, la storia verrà riveduta per la gioventù. La commissione storica non dovrà faticare, suo presidente è il professor Kien. Che hanno fatto le donne nella storia? Figli ed intrighi!» (p. 437-438)

E poco dopo, spiando dal buco della chiave i movimenti mattutini dei coinquilini del suo palazzo, Kien definisce le donne che osserva passare e intrattenersi con uomini sul pianerottolo di casa «tante piccole Cleopatre pronte a qualunque menzogna, insinuanti, scodinzolanti, implorando un briciolo d’attenzione, promettendo amore e fedeltà, graffiando spietatamente la bella giornata piena che gli uomini s’accingevano ad affrontare, forti e preparati a suddividerla onestamente nelle sue parti. Perché simili uomini sono degenerati, vivono alla scuola delle loro mogli; essi, naturalmente, odiano le loro mogli, ma anziché generalizzare il loro odio corrono dietro alla prima donna che capita. Una sorride e loro subito si fermano. E’tutto un umiliarsi, un rimandare progetti, un allargare le gambe, un perder tempo, un mercanteggiare minuscole gioie!» (p. 442)

E aggiunge: «Le donne sono insopportabili e sciocche analfabete, un’eterna fonte di fastidi. Come sarebbe ricco il mondo senza di loro, un immenso laboratorio, una biblioteca zeppa di libri, un paradiso di lavoro intenso e ininterrotto!» (p. 442)

A chi conosca un po’ il teatro greco queste invettive misogine ricordano abbastanza, quantomeno per i toni iperbolici, quella di Ippolito nell’omonima tragedia di Euripide:

« Oh Zeus, perché dunque hai messo fra gli uomini un ambiguo malanno, portando le donne alla luce del sole? Se proprio volevi seminare la stirpe dei mortali, non dalle donne dovevi produrla: ma che gli uomini comprassero il seme dei figli, depositando in cambio nei tuoi templi oro o ferro o peso di bronzo, ciascuno secondo il valore del prezzo, e viver senza donne in libere case. Ora invece, per portarci in casa questo malanno, distruggiamo le ricchezze della casa. E da questo è chiaro che la donna è un grosso guaio, se il padre, che l’ha generata e allevata, aggiunge una dote e la colloca in altra casa, per liberarsi da un guaio! Chi si è preso questa terribile genia in casa, gode – sciagurato! – a ricoprire questo idolo maligno con ornamenti e vestiti, consumando le ricchezze della casa! Ed egli si trova in questa necessità, che, se si è imparentato con parenti di alto rango, deve tenersi e godersi una moglie odiosa; e se ha sposato una brava donna, deve tenersi inutili parenti e, col bene, sopportare un malanno. La cosa migliore è l’aver in casa una donna da nulla, ma almeno inutile nella sua stupidità. La donna saputa, la odio! Non me ne capiti in casa una, che pensi cose più grandi che a donna conviene. È proprio in queste donne intelligenti che Cipride ingenera la scelleratezza: mentre la donna semplice si sottrae alla follia per il suo poco senno. Bisognerebbe inoltre che alla donna non si avvicinassero ancelle, ma le stessero accanto solo muti mostri di fiere, perché non possa rivolgere parola ad alcuno e nemmeno, a sua volta, ascoltare i discorsi delle altre. Ora invece, in casa, le scellerate meditano disegni scellerati e le ancelle li portano fuori. (Ippolito, vv. 616ss.).

In entrambi gli autori l’estremismo delle tirate misogine arriva in effetti ad immaginare e a desiderare l’annientamento stesso del genere femminile, a fantasticare un mondo senza donne. Credo, per altro, che accostare artisti così lontani nel tempo abbia nella fattispecie un concreto fondamento storico-filologico: nel lungo delirio misogino finale di Peter Kien davanti a suo fratello Georg, il protagonista avvalora infatti le sue tesi citando a lungo Omero e accanendosi contro le molteplici figure femminili del mito classico quali emblemi del ‘male assoluto’: Elena, Clitennestra, Afrodite, Circe, perfino la povera, innocente Nausicaa e la fedele Penelope… Canetti conosceva bene, insomma, la letteratura classica e aveva ben presente il misoginismo greco mentre scriveva Autodafé.

Ebbene: se questi passi di Euripide e di Canetti cadessero sotto gli occhi miopi dei sacerdoti iconoclasti della cancel culture questi due capolavori della letteratura mondiale verrebbero senza esitazioni messi all’indice della loro chiesa fondamentalista…

Eppure Euripide e Canetti non sono autori ‘ideologicamente’, semplicisticamente misogini. Non direi proprio. Euripide in particolare è stato il tragediografo greco più attento alla psicologia femminile, alla sua inesplorata profondità, alla sua contraddittoria ma autentica ricchezza. Povertà di spirito e meschinità appartengono nel suo teatro solo ai personaggi maschili. Perciò l’Atene del tempo, largamente e profondamente ‘maschilista’, lo osteggiò sempre fino a costringerlo alla fine a lasciare la sua città. Perciò rovesciò addirittura su di lui, fraintendendolo completamente, la taccia di misoginia. Anche rinfacciandogli passi come l’invettiva di Ippolito. Ma quell’invettiva non è condivisa da Euripide. In quelle parole l’autore e il personaggio non coincidono affatto. Anzi, sono molto distanti.  

Ippolito, il personaggio, è un giovane immaturo, spaventato dal sesso. Indotto da questo spavento a rifugiarsi nel surrogato della passione sportiva e venatoria.  Quando scopre che la propria matrigna si è follemente invaghita di lui, Ippolito si straccia le vesti inorridito. Maschera la sua immaturità e la sua sessuofobia con un intransigente moralismo, con una presunzione di purezza agamica che è, in realtà, rinuncia alla propria integrità umana. Scappa via da Eros che lo insegue. Inveisce, in apparenza, contro il genere femminile: in realtà, contro la parte di se stesso che ostinatamente rimuove.

Euripide, l’autore, ha creato personaggi femminili indimenticabili, modernissimi, a partire proprio da Fedra, che non è la matrigna matura e libidinosa che concupisce il giovane e ingenuo figliastro, ma una giovanissima donna anche lei. Costretta contro natura a sposare un aristocratico attempato si innamora secondo natura del figliastro suo coetaneo. Da persona morigerata e educata al rispetto delle regole sociali quale è, combatte la propria passione e la reprime ferocemente, senza cedimenti. Ma nel frattempo una serva impicciona e cinica ha pensato bene di rivelare i sentimenti della ragazza a Ippolito. Fedra si uccide per la vergogna. Ippolito esplode nella invettiva che ho riportato sopra. I due non si incontrano mai sulla scena. Sono ciascuno la causa incolpevole della rovina dell’altro. La colpa vera, oggettiva sta altrove. Non tanto nella forza di Eros, ma nella violenza delle norme sociali della Grecia di allora. Di questa violenza Euripide era ben consapevole, a differenza dei suoi concittadini. E questo, con coraggio e spregiudicatezza, esibiva sulla scena teatrale, sotto il sottile e diafano velo del mito. Perciò era tanto vilipeso ed attaccato.

Il misoginismo di Canetti in Auto da fé sembra invece più aspro, viscerale, incondizionato. Tanto che è difficile capire, fino a un certo punto, se intercorra davvero una distanza (e quanta) tra autore e personaggio.

Peter Kien, il protagonista del romanzo, autorecluso nella sua passione esclusiva e solipsistica per gli studi eruditi e per i libri, sposa la sua governante – una persona orribile nella sua meschinità, avidità, cattiveria – soltanto perché ingenuamente persuaso che ella possa nutrire rispetto e premura per il patrimonio librario di lui. Lei invece è solo interessata a impadronirsi dei suoi beni, lo caccia addirittura di casa, costringendolo a una vita di miserevoli espedienti, in balia di volta in volta di loschi ed equivoci personaggi. È sulla base di questa catastrofica esperienza matrimoniale e della propria costituzionale incapacità di relazionarsi con il mondo e specialmente con l’altro sesso, che Peter Kien matura ed esprime a più riprese nel romanzo – e soprattutto nel monologo che ho riportato sopra – la sua insuperabile misoginia.

Neppure Peter Kien, tuttavia, è la perfetta controfigura del suo autore. Il quale autore, infatti – nello stupendo finale della storia -, si sdoppia visibilmente tra il protagonista e il fratello di lui, Georg: uno psichiatra che dedica la propria esistenza ai suoi malati offrendosi completamente a loro con empatia, umanità e benevolenza totali; un uomo che per altro ama riamato le donne, moltissime donne. E Georg arriva a casa del fratello Peter con l’intento (inutile) di riscattarlo dal suo disastro familiare e di curarlo dalla sua pazzia. La misoginia di Peter Kien, dunque, è condivisa da Canetti solo per metà: quantomeno è sottoposta ad uno sguardo molto critico, esterno, e risalta più che altro – nella sua radicalità – come componente della sua misantropia e come sintomo clamoroso della sua follia.

Dunque l’antifemminismo di questi personaggi (dell’Ippolito euripideo come del Peter Kien canettiano) è soprattutto la proiezione delle proprie autonome tare psichiatriche, della loro spaventosa in-completezza/in-compiutezza umana. Esso ha poco o nulla a che vedere con le idee (tantomeno con la realtà biografica) dei loro autori.

Ma forse tutto questo mio confrontare, ragionare e distinguere tra autore e personaggio parrebbe ai moderni (?), intransigenti guardiani del politically correct un tentativo sottile, pretestuoso, persino avvocatesco, di difendere l’indifendibile. Temo che essi condannerebbero comunque questi autori al ‘rogo’ insieme alle loro opere. Proprio come avveniva agli eretici e ai loro libri in tempi più oscuri del nostro con gli autodafé dell’inquisizione. E come effettivamente accade, coincidenza ironica del caso, proprio a Peter Kien – e alla sua immensa biblioteca – nel tragico finale del romanzo di Canetti…

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È finalmente uscita sulla rivista culturale online Senecio la mia recensione al libro di Franco Buffoni Silvia è un anagramma (Marcos y Marcos 2020):

Fai clic per accedere a Mazzocchini_rec%20Buffoni.pdf

Invito tutti caldamente a leggerla, perché ritengo di aver assolto, scrivendola, a un mio dovere irrinunciabile di studioso e di  appassionato di Leopardi: non il dovere, beninteso, di difendere l’eterosessualità di Leopardi – che è questione in sé del tutto irrilevante – ma di contribuire alla intelligenza della complessa verità storica e biografica del poeta. Una verità stravolta, nel fortunato saggio di Buffoni, da una tendenziosità ideologica antiscientifica, banalizzante e, per i miei gusti, intollerabile (di questo per altro ho già abbondantemente scritto anche nel mio precedente post: Aspasia è un ectoplasma?). Continuo a credere insomma – contro l’andazzo dei tempi – che il metodo storico-filologico non sia un ferro vecchio bensì un valido antidoto alla mistificazione intellettuale e alla dilagante impostura delle fake news.

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È appena uscito nella rivista culturale online Limina un mio articolo leopardiano che prende tuttavia le mosse da un passo di Charlotte Brontë. I due autori, a breve distanza di tempo l’uno dall’altra, arrivano autonomamente alla medesima intuizione: la bellezza (intesa in senso prettamente materialistico/estetico) può salvare chi la possiede perché, per l’illusione che quel fascino esteriore corrisponda a grandi qualità interiori, essa ispira istintivamente in chi la osserva favore e benevolenza. Nonostante questo indubbio punto di tangenza tra i due autori, la riflessione di Leopardi sul tema appare, rispetto a quella della Brontë, più ampia e articolata, oltre che (per vari aspetti) di notevole attualità: http://www.liminarivista.it/comma-22/la-bellezza-che-si-salva-bronte-e-leopardi-tra-illusione-e-realta/

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Ricevo e volentieri segnalo a mia volta una lettera aperta (diffusa attraverso vari canali di informazione) di miei colleghi lombardi sulla guerra in Ucraina:

https://ilmanifesto.it/lettere/lettera-aperta-degli-insegnanti-sulla-guerra-e-sulla-pace

Condivido pienamente, almeno in linea teorica.

Aggiungo solo, per non restare attaccato alla atroce contingenza di questo e di altri drammatici eventi di attualità, che mi è personalmente difficile pensarli senza il filtro di certi paradigmi culturali (tragici ma illuminanti) della cultura antica. Paradigmi, ahimè, che la cultura contemporanea sembra aver completamente dimenticato.

Personalmente guardo con sgomento e orrore istintivo alla prospettiva apocalittica della fine violenta della storia umana che questa lettera realisticamente paventa. All’inconcepibile che rischia di diventare possibile.

Ma al tempo stesso non posso non essere razionalmente pessimista circa la nostra capacità di scongiurare la catastrofe. Anzitutto perché essa, purtroppo, presenta tutti i caratteri di una Nemesi storica.

Una Nemesi è la conseguenza necessaria, la pena inevitabile, di una Hybris. E la Hybris è la cecità e la tracotanza che travolgono la persona vincente e fortunata quando si lascia inebriare dalla propria vittoria e dalla propria fortuna.

Alcuni decenni fa l’Occidente, il nostro Occidente, si è ubriacato di questa Hybris. Ha creduto di poter impunemente trionfare da vincitore (come i guerrieri dell’Iliade) sul cadavere del proprio nemico morto di morte naturale, di danzare allegramente sulle macerie del suo impero spontaneamente crollato, imploso su se stesso. Ma nell’Iliade questa esultanza smodata avveniva sul cadavere di un nemico sconfitto con valore e lealtà in duello. Ed era comunque, nonostante questo, foriera di sventura. Preludeva alla morte dello stesso vincitore, per la legge alterna ed implacabile della guerra. Così succede regolarmente a Ettore prima (quando esulta sul corpo di Patroclo) e ad Achille poi (quando infierisce sul cadavere di Ettore).

La cronaca di questi giorni, se la si guarda dall’osservatorio sopraelevato della storia, ha tutte le sembianze di una Nemesi che si abbatte sulla cecità dell’Occidente. Di una resa dei conti, insomma.

Non sono affatto, sia ben chiaro, un fustigatore dell’Occidente. Sono anzi convinto che il nostro sia, tra i mondi possibili finora realizzatisi sulla terra, il meno peggiore. Credo altresì che la nostra civiltà abbia maturato ed espresso valori che sono attualmente patrimonio (come si dice adesso) dell’intera umanità. Certo: le bandiere di questi valori sventolano issate sopra enormi montagne di crimini e di sopraffazioni perpetrate nei secoli. Nonostante tutto ciò credo che l’Occidente, il nostro Occidente, soprattutto quello europeo, abbia alla fin fine generosamente dato al genere umano qualcosa di più del moltissimo che pure, con avidità, gli ha sottratto. Non sono molte le civiltà umane che possono vantare questo merito.

E tuttavia una trentina di anni fa l’Occidente si è macchiato, ripeto, di una fatale Hybris. Ha creduto di poter stravincere senza nemmeno aver combattuto. Ha umiliato e strapazzato il cadavere, da tempo mummificato e poi spontaneamente stramazzato al suolo, dell’Oriente europeo.

Ma non si è reso conto di umiliare e di strapazzare così anche i suoi superstiti eredi, confusi e smarriti in quei momenti, quindi apparentemente succubi e remissivi di fronte al vincitore. Ma quegli eredi erano tutt’altro che inermi. Anzi erano ancora armati fino ai denti di armi potentissime, catastrofiche, pari alle nostre. Strana vittoria questa su un nemico cui non si è chiesta (né si poteva farlo) la resa delle armi. Strana pretesa del presunto vincitore di togliere all’avversario potere, influenza e centralità solo perché quello era morto di morte naturale e i suoi eredi non sapevano al momento come gestirne l’eredità. Strana cecità e pericolosissima illusione nutrite, entrambe, dalla vittoria. Pura Hybris, appunto.

Nella tragedia greca sono frequenti le vicende di personaggi che, come il nostro Occidente, si ubriacano del successo presente e non sanno leggerne le disastrose conseguenze future. Poi quando la catastrofe sopraggiunge, improvvisa, inattesa – aprono gli occhi, finalmente: ma con grande fatica e a proprio danno. E, soprattutto, quando è troppo tardi. Perché la saggezza tragica, si sa, è sempre tardiva. Perciò inutile a chi finalmente la consegue. Utile solo, forse, ad ammonire gli spettatori, finché si tratta di uno spettacolo teatrale.

Ma qui, di fronte alla catastrofe che si annuncia all’orizzonte, noi non siamo semplici, ammaestrabili spettatori di una tragedia. Ne siamo corresponsabili, partecipi e potenziali vittime. Come Edipo, come Serse, come Eteocle. Eteocle più di tutti è quello che ci assomiglia di più. Ma non completamente.

L’Occidente, negli ultimi decenni avrebbe dovuto (più che potuto) fare molte cose: una politica estera di equilibrata collaborazione economica e di integrazione politica nei confronti del vecchio nemico; una seria e profonda strategia di disarmo atomico bilaterale; una Östpolitik illuminata, inclusiva, lungimirante, di ampio respiro. Ubriaco della caduta del muro, l’Occidente non fatto nulla di tutto questo. Ha lasciato che i semi dormienti della rivalsa e della frustrazione covassero sotto le macerie dell’Oriente sconfitto e impoverito, convinto che non avrebbero mai più fruttificato. L’occidente non ha capito che il terreno desolato che abbandonava ad est dei suoi dilatati confini poteva essere il più adatto a nutrire, alla lunga, un dispotismo barbarico e revanscista.

L’Europa ha mancato un’occasione storica per dare fondamenta stabili a una pace vera e duratura. Adesso temo che sia troppo tardi. Il nuovo duello che si profila potrebbe essere l’ultimo e fatale, vale a dire – nella logica vecchia ed assurda ma ineluttabile della guerra – inevitabile. Quello dell’apocalisse. Quello tra Eteocle e Polinice. Quello attraverso cui Nemesi trionfa sopra i cadaveri dei due fratelli-nemici che si sono uccisi l’uno per mano dell’altro. E il prezzo della vittoria di Nemesi potrebbe essere l’annientamento stesso della nostra stirpe, o di una buona parte di essa.

Non esiste un al di là di una terza guerra mondiale, di una guerra nucleare generalizzata”: hanno ragione da vendere i miei colleghi firmatari della lettera che ho linkato sopra. Ascoltare giornalisti che in un salotto televisivo discettano su di una imminente guerra nucleare come se si trattasse di una opzione militare tra le altre fa rabbrividire. È il segno che quella Hybris continua a chiuderci gli occhi (e ad aizzare la Nemesi) persino in faccia alla rovina.

E allora, che fare? Ecco la domanda tragica per eccellenza. Quella che tormenta Eteocle quando sta per scendere alla settima porta di Tebe, la città di cui ha usurpato il potere esclusivo a spese del fratello, ma che adesso egli deve e vuole difendere eroicamente dall’aggressione di quello, che lo attende fuori da quella porta per ucciderlo ed esserne ucciso. Ma Eteocle non rinuncia a scendere, nonostante le donne di Tebe – consapevoli come lui di quello che sta per accadere – lo implorino di non farlo. Eteocle è prigioniero della logica distruttiva della Nemesi tragica. Che è la stessa medesima logica della guerra. Ma il suo gesto fratricida, insieme al suo onore militare, salva la sua città. Giova almeno alla sua comunità.

La guerra totale che ci minaccia adesso, dopo l’avvento delle armi atomiche, non rispecchia se non in parte quella del mito. Assomiglia e non assomiglia alle nostre guerre precedenti. La Nemesi che incombe su di noi rischia infatti – pur rimanendo incatenata alla legge del taglione e dell’onore militare – di distruggere la nostra specie e la nostra civiltà, non certo di salvarle, né di ristabilire un qualsiasi, fruibile ordine materiale e morale. Una Nemesi atomica sarebbe enormemente sproporzionata alla Hybris commessa. Sarebbe un’ecatombe definitiva, mostruosa – e inconcepibile nella sua mostruosità. La fine della nostra storia. Nient’altro.

Con la minaccia atomica l’inconcepibile rischia di diventare possibile.

Perciò anche l’impossibile (spezzare per tempo la logica arcaica, perversa e incatenante della guerra) diventa obbligatorio.

Hanno ragione quindi – una ragione pratica, solidamente realistica – i firmatari della lettera. Diventa moralmente obbligatorio arrestare al più presto e in ogni modo questa guerra, prima che diventi impossibile fermare il passo che ci trascinerà nel baratro.

Bisogna avere il coraggio rivoluzionario di rinunciare a scendere (come mai Eteocle avrebbe rinunciato a fare) alla settima porta. Già: ma come affrontare Polinice che ha aggredito Tebe con un imponente esercito? Come inchiodare anche lui, che non ha esitato a scatenare un conflitto fratricida contro la sua città, a questo obbligo morale? Mi auguro – voglio credere – che si trovi presto una risposta concreta a queste angosciose domande.

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