Ho sempre diffidato delle idee pedagogiche di Don Milani, della loro facile popolarità. Anche in tempi non sospetti. Nei primi anni settanta. Quando ero liceale, per intenderci, e lui era morto da poco, mentre i suoi libri erano sulla cresta dell’onda. Io, per parte mia, ero ben lontano ancora dall’idea di fare l’insegnante. Mi venne spontaneo contraddire quello che leggevo allora nella sua tanto osannata Lettera a una professoressa, per una semplice ed oggettiva evidenza: diceva lui che i bravi a scuola sono (possono esserlo) solo i figli dei ricchi con il loro bel retaggio culturale borghese succhiato insieme al latte materno. Eppure io e diversi altri miei compagni di liceo eravamo figli di operai e di casalinghe, ma andavamo bene o benissimo a scuola, mentre qualche rampollo della buona borghesia locale arrancava molto malamente… Già questo non mi quadrava, puzzava di semplificazione ideologica.
Adesso ho voluto riprendere in mano, dopo più di quarant’anni, quel famoso libello, per vederci più chiaro: e a distanza di tanto tempo quel testo mi appare oggi, nonostante qualche punto di forza, enormemente datato, superato dai tempi. Dalla rivoluzione edonistica e consumistica di massa esplosa negli anni ottanta, soprattutto, oltre che da quella digitale dell’ ultimo periodo. Tanto che, con minima e ironica forzatura, quel testo potrebbe più che altro essere letto in chiave di inconsapevole profezia di cambiamenti che lo stesso Don Milani, se potesse osservarli oggi, forse (chissà?) detesterebbe. Per esempio: Don Milani diceva che la scuola tradizionale è fuori dalla realtà, che bisogna eliminare la letteratura alta, il latino e la storia antica e imparare (evitando la grammatica) la lingua e le lingue straniere che servono alle classi subalterne per orientarsi nei rapporti con il mondo del lavoro, della burocrazia, della politica e per comprendere bene il linguaggio dei media. Ebbene la scuola italiana negli ultimi trent’anni ha proprio realizzato o cercato di realizzare, a suo peggiorativo e malinteso modo, tutto questo, demonizzando il ‘nozionismo’ e riducendo o banalizzando o marginalizzando la cultura alta di impronta storico-umanistica. E il risultato è sotto gli occhi di tutti, purtroppo: regresso verso l’analfabetismo, riduzione preoccupante del tesoro lessicale e delle competenze espressive, ignoranza totale del passato lontano e recente con ricadute – pesanti – sulla maturità intellettuale e ‘politica’ in senso lato delle giovani generazioni. La scuola schiacciata sul presente, affannata nella rincorsa dell’attualità e dell’utilità da spendere subito – lo ripeto – è destinata a fallire sul piano dell’istruzione e della formazione. Può tutt’al più fornire (quando va bene) un po’ di addestramento preliminare alle arti e ai mestieri. Non proprio – mi pare – quello che voleva Don Milani, ma esattamente quello che vogliono invece oggi Confindustria, Confcommercio ecc. dalla scuola di stato. Non per caso né per volere degli dèi si è inflitta ai licei la piaga nefasta della Alternanza Scuola Lavoro… L’avrebbe gradita Don Milani? Credo proprio di no, ma chi ce l’ha imposta lo ha fatto anche distorcendo a suo vantaggio quella sua stessa e primaria istanza di utilità ‘pratica’ della formazione scolastica. Non per caso giornali vicini alla Confindustria hanno ultimamente dato così grande spazio alla celebrazione del cinquantenario della morte del parroco di Barbiana…
Ma non c’è solo questo, ahimè. Chi ha scelto di fare l’insegnante e rilegge oggi il libello di Don Milani ci trova, contro gli insegnanti, delle sorprendenti chicche avvelenate. Lorenzo Milani, uomo intelligente e còlto da par suo ma non poco accecato dall’odio antiborghese, riconoscendo negli insegnanti di allora i rappresentanti e i custodi ufficiali della cultura e degli interessi di quella classe, li attacca accusandoli (udite udite!) di lavorare poco e guadagnare troppo, di fare un lavoro part-time pagato per un lavoro a tempo pieno; di pretendere di bocciare alunni con cui si impegnano solo poche ore la settimana, di arrotondare i loro già immeritati stipendi con ore di ripetizione impartite ai rampolli dell’odiata e ricca borghesia, ecc. ecc.
Il becero qualunquismo di queste accuse è lo stesso che circola da decenni nell’opinione pubblica più disinformata circa il reale impegno dei docenti di oggi; è lo stesso discredito che molti recenti governi hanno alimentato ed usato per infliggere ad una categoria ridotta (per dignità sociale e per stipendi) quasi allo stato di Lumpenproletariat – altro che guardiani della borghesia! – sempre maggiori carichi di lavoro a costo zero.
Curioso e beffardo (e avvilente) scoprire oggi che di questo qualunquismo Don Lorenzo Milani è stato l’esimio antesignano. Ma ancora più sconcertante è osservare come, nonostante questo, tanti insegnanti continuino oggi ad essere ferventi “donmilaniani”.
PS del 14.08.17:
Del precoce invecchiamento delle idee donmilaniane rispetto all’evoluzione rapida della società dei consumi parla con la solita lucidissima (e profetica) acutezza già nel 1973 Pierpaolo Pasolini, che pure era un grande estimatore dell’ opera pedagogica di don Lorenzo Milani:
« Barbiana era un caso estremo. Era l’ultimo caso di vita preistorica rispetto alla seconda rivoluzione industriale e alla conseguente lotta di classe (in cui poteva inserirsi un prete moderno). Ora, probabilmente, ci sono ancora dei luoghi come Barbiana, ma essi hanno totalmente perduto il loro senso: e valgono solo in quanto relitti. Sono bastati pochi anni. Se Don Milani non fosse morto… avrebbe visto, oggi, la sua meravigliosa opera organizzativa come un conato inutile, divenuto anacronistico…. la sua disperata opera organizzativa di tipo laico e progressista risulta di colpo impoverita e invecchiata, a causa della caduta dei problemi che la presupponevano: la fine cioè di un sottoproletariato contadino a uno stadio storico preindustriale…» (Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975, p. 90)