[Orazio, Odi, I 37]
Beviamo, è ora finalmente! Ora
di scatenare i piedi sul terreno
nel tripudio della danza, amici miei,
e di imbandire la mensa degli dèi
con le cibarie prelibate dei Sali!
Prima ci era vietato tirar fuori
il Cecubo dalle cantine avite:
una regina forsennata, prima,
progettava morte e rovina al nostro
impero con la sua mandria infetta
di ominicchi marchiati dal vizio,
e inseguiva deliri di grandezza
ebbra com’era del bacio della sorte.
Ma poi si spense il fuoco del furore
su quella nave che sfuggì all’incendio
sola fra tante, e riportò a un terrore
vero la mente sua pregna di vino
egizio: Cesare dall’Italia a volo
sulle ali dei remi la incalzò come
sparviero incalza tenere colombe
o un cacciatore rapido una lepre
sulle distese innevate dell’Emonia
per ridurla in catene, lei, il fatale
prodigio. Ma quella scelse per sé
una fine gloriosa: non temette
come le altre femmine la spada
e non cercò un rifugio con la nave
negli anfratti di approdi sconosciuti.
Senza tremare sollevò lo sguardo
sulle rovine e i fantasmi della reggia,
strinse nei pugni l’orrore dei serpenti
fino a sorbirne tutto il nero veleno.
Morì con fierezza, come lei stessa volle:
ai crudeli liburni negò il vanto
superbo di condurla – lei, donna
regale fatta semplice schiava –
dietro al carro trionfale.
Orazio e la battaglia di Azio. Il poeta e il regime. Orazio è, con tutti i distinguo e la dignità del caso, anche un poeta di regime. Di fronte al trionfo decisivo di Ottaviano su Antonio e Cleopatra, quello che consegna al futuro Augusto il dominio assoluto sull’impero, Orazio non può (o non vuole?) tacere. Non può esimersi, come artista protetto e vezzeggiato da Ottaviano e dai suoi, dal levare una voce di plauso. E allora si inventa questo epinicio atipico, questa ode per altro ispiratissima e (con)geniale, dove il plauso per Ottaviano è in apparenza centrale (perché ne occupa il centro compositivo) ma in realtà marginale: il centro della scena, infatti, dall’inizio alla fine, nella grandezza del male e del bene, è occupato da lei, da Cleopatra, la regina sconfitta. Una donna che non solo oscura il ruolo, qui completamente rimosso, di Antonio, il suo compagno e complice maschio, ma relega in secondo piano persino il vincitore. Lei, Cleopatra, è stata certo un fatale monstrum, un prodigio di esotica e barbarica malvagità che ha minacciato mortalmente l’impero. Ma poi – sconfitta dal salvatore della patria – si trasforma in una splendida figura tragica, cui Orazio non lesina una profusione sincera di elogi: nobiltà (generosius), animo virile (nec muliebriter), coraggio (ausa) e fermezza (vultu sereno) in faccia alla morte, voluta con fierezza indomabile (deliberata morte ferocior), e non subita, per il morso dei serpenti. Così Cleopatra si è sottratta all’umiliazione di essere esibita, schiava e in catene, nel trionfo, dietro al carro del vincitore. È stata, nella sconfitta, una regina degna di questo nome. Man mano che procediamo nella lettura Orazio, come in un abile e rapido gioco di prestigio, cambia completamente di segno e di prospettiva la fisionomia morale della protagonista. Alla fine, di Cesare Ottaviano non ci ricordiamo quasi più. E nemmeno più ci rammentiamo granché del fatale monstrum. Ci rimane negli occhi solo la magnanimità dell’eroina. Tradurre quest’ode è (stato) ancora più difficile del solito. La pregnanza del dettato oraziano e la rapidità (pindarica) dei passaggi logici e temporali, richiedono più che mai – per essere resi in un italiano moderno accettabile – duttilità e una certa dose di azzardo nello sbrogliare concetti e nel ricomporre sintagmi e giunture. Chiedo venia ai miei colleghi filologi se la fedeltà è stata spesso sacrificata alla libertà e al gusto (notoriamente soggettivo) della scrittura poetica.