Un refrain. Brevissimo. Otto parole per definire il mondo che ci circonda, oggi. Meglio: la maschera, il fantasma, la fata morgana l’autorappresentazione mistificante, onnipervasiva del nostro mondo. I media, il marketing, la comunicazione digitale ecc ecc.
Quando si dice con-genialità: Gaber per me (insieme con Leopardi) non è un autore qualsiasi. Lui e Giacomo sono miei Genii: numi tutelari, spiriti protettori, garanti e interpreti inconsapevoli del mio proprio (e non so di quanti altri: pochi, credo – e temo) modo di sentire, di pensare e di giudicare. Un modo identico, spiccicato al loro. Genii con i quali mi è impossibile dis-cordare perché – ne ignoro il motivo, ma sento che è così – essi mi sono in tutto naturalmente con-cordi. Cuori e spiriti e destini miei padri e miei gemelli insieme: hanno soltanto detto prima di me e molto meglio di me quello che io, dopo di loro ma insieme a loro, ho pensato, penso e andrò fino alla fine pensando, pure se non riuscirò mai a dirlo con la stessa genialità. Miei pro-feti, dunque. E Genii forsanche nel senso antico di spiriti capaci di trasmigrare ed incarnarsi in altrui, in chissà quanti altri, nel tempo e nello spazio. Questo sono i grandi autori. Maestri inconsapevoli di allievi devoti. I grandi autori/maestri non consolano, né persuadono, né edificano. Rivelano. Tolgono il velo. Sono brutali come le verità che ci squadernano davanti. Brutalmente generosi e misericordiosi.
Stranamente quei due versicoli di Gaber non li conoscevo ancora. Mi hanno folgorato, per caso, quando ho acceso stamattina l’autoradio. Mi erano – incredibile! – sfuggiti. Non si riesce a conoscere tutto, nemmeno degli autori a noi più cari, vicini e congeniali. Ma stai tranquillo che pure quello che ancora ignori di loro essi lo hanno intanto pensato e sentito in un modo concorde e congeniale col tuo. Automatico. Restava solo da scoprirlo.
Il tutto è falso
Il falso è tutto
Questo distico è una forma chiusa (un chiasmo, lo chiamiamo a scuola): lapidaria, conclusiva, inespugnabile. Oracolo. Rivelazione. Quello che il grande Anonimo del sublime definiva il fulmine che illumina a giorno un orizzonte immerso nel buio. Una sentenza che non ha bisogno di commenti né di motivazioni. Che non teme obiezioni. Parole che pretendono il rispetto del silenzio. E ci consegnano, nella fattispecie, a una quieta disperazione. Perché questa infinita falsità del tutto (forse non è per caso che mi viene di parafrasare Gaber proprio con Leopardi…) siamo noi, noi più che mai oggi, il nostro mondo alla vigilia, temo, della sua definitiva catastrofe. Della sua nichilistica autorivelazione. Della sua Apocalissi.
Il rimanente testo della canzone è un sobrio commento, una coroncina di asteroidi condensati a margine del buco nero:
Non a caso la nostra coscienza ci sembra inadeguata quest’assalto di tecnologia ci ha sconvolto la vita.
[…]
Com’è bello occuparsi dei dolori di tanta, tanta gente dal momento che in fondo non ce ne frega niente.
[…]
Cerco di afferrare un po’ il presente ma se tolgo ciò che è falso non resta più niente.
[…]
il falso è un’illusione che ci piace il falso è quello che credono tutti è il racconto mascherato dei fatti il falso è misterioso e assai più oscuro se è mescolato insieme a un po’ di vero il falso è un trucco un trucco stupendo per non farci capire questo nostro mondo.
Scritto e cantato vent’anni fa (Io non mi sento italiano, 2003). Ma quell’epoca era già la nostra. E l’amarezza di queste profezie sta nel fatto che non cambiano né cambieranno mai la realtà. Cassandra è l’alter ego mitico di Gaber e di Leopardi. Sappiamo come è andata a finire. L’arte e le sue verità e le sue profezie non servono a nulla. Si guadagnano tutt’al più un’ammirazione postuma di pochi dopo aver scontato nella contemporaneità il disprezzo e la sordità di moltissimi. D’altra parte la cultura (quella vera) non si mangia. Aveva ragione un nostro politicante anni fa: è con gli affari che si mangia. È con il marketing e con la speculazione e con la manipolazione delle menti e con la corruzione delle coscienze che si domina il mondo. Si divora. Si ingrassa. Ci si espande.
Fino ad accorgersi troppo tardi che non c’è più altro da divorare e nessun oltre in cui espandersi.
[PS: post scritto a fine aprile 23 e pubblicato solo oggi per intercorsi impedimenti]
“ La massa combatte contro la ragione a difesa del proprio male […] La prova inconfutabile che una cosa è sbagliata sta nel fatto che essa è sostenuta dalla massa […] Nella massa il numero di quanti ti ammirano è sempre pari a quello di quanti ti detestano.” (sulla irrazionalità della massa; sulla sua rovinosa subcultura e la sua soggezione a vecchi e nuovi idoli e pregiudizi)
“Il piacere stia al seguito e non al comando di un retto e onesto intendimento […] La retta intelligenza stia davanti e il piacere l’accompagni come un’ombra accompagna il corpo: mettere la retta intelligenza al servizio del piacere è tipico di quelli che non arrivano a concepire nulla di grande e di buono. […] Io sono padrone delle mie ricchezze, le tue invece lo sono di te…” (sul volgare edonismo della società dei consumi)
“Voi che disprezzate la retta intelligenza e odiate quanti la coltivano, non fate proprio niente di nuovo: sono gli occhi malati a temere il sole e sono gli animali notturni a fuggire la luce del giorno: appena spunta, quelli rimangono abbagliati e si precipitano verso i loro nascondigli e si nascondono spaventati nelle fessure del terreno. Voi ringhiate e muovete la vostra lingua solo per insultare le persone per bene, le azzannate a bocca aperta. Ma vi spezzerete i denti prima di scalfirle.” (sull’odio e il disprezzo populistico verso la razionalità e la cultura di presunte élites. Con particolare riferimento a certo becero e reazionario ‘giornalismo’ nostrano che alimenta e usa spudoratamente quel disprezzo, anziché contrastarlo)
“A qualcuno non darò aiuti in danaro, perché appena glieli avrò dati sarà subito e ancora bisognoso di averne…” (sull’uso e sulla elargizione corretti del danaro, privato e pubblico)
“Una bella casa vi rende orgogliosi, come se non potesse mai incendiarsi né crollare, e le ricchezze vi mandano in estasi, come se avessero lasciato dietro di sé ogni pericolo e fossero troppo potenti perché la sorte possa avere forza sufficiente per distruggerle. Spensierati ve la spassate tra i vostri beni e non scorgete il pericolo che li minaccia. Così fanno in genere certi barbari: assediati e ignari di che cosa siano le macchine da guerra, essi osservano inerti la fatica degli assedianti e non intuiscono minimamente quale scopo abbiano quelle strane costruzioni che essi osservano da lontano. Voi fate lo stesso: sguazzate tra i vostri beni e non immaginate quante sventure incombano e si apprestino a farne un ricco bottino.” (sul nostro continuare a danzare allegramente sul Titanic, chiusi dentro un presente che sta per passare, avvolti ed accecati dalla bolla illusoria di un benessere infinito. Fuori della similitudine senechiana, la ‘barbarie’, in senso culturale, è anche questo: rinunciare a guardare lontano, ignorare il senso della storia e rimanerne perciò travolti. Oggi più che mai l’avviso di Seneca ci riguarda, credo, mentre macchine da guerra si apparecchiano, spaventose, sul nostro vicino orizzonte)
[Seneca, De vita beata, passim – anni cinquanta del primo secolo dopo Cristo; traduzione mia]
Who has seen the wind? Neither I nor you. But when the leaves hang trembling, The wind is passing through. Who has seen the wind? Neither you nor I. But when the trees bow down their heads, The wind is passing by.
Chi ha mai visto il vento?
Io no, e neanche tu.
Eppure, se le foglie oscillano tremando,
è lui, il vento, che le sta attraversando.
Chi ha mai visto il vento?
Non tu, e io nemmeno.
Ma se la chioma degli alberi si abbassa
è lui: è il vento che passa.
Christina Rossetti, (Sing Song, a Nursery Rhyme Book, 1872, trad. mia)
Mi credevo originale quando scrissi qualche anno fa una mia poesiola intitolata “Percezioni indirette“:
Sfollano passeri nella sera
dai rami, lo avverti al brivido
lucido delle foglie, come la danza
acrobatica del ragno al flettere
del filo della tela, e il frullo
in punta delle dita ai suoni
che divampano sul frigido
aplomb della tastiera.
(Pietra e farfalla, 2017)
Invece non era proprio così. Bisogna rassegnarsi, se si scrive poesia, al nihil novi. Senza sentirsi, peraltro, affatto sminuiti. Anzi. La originalità assoluta non esiste, almeno sul piano tematico. E la fratellanza poetica è un dono. D’altra parte la poesia (l’arte in generale) è un po’ come il sole oraziano: aliusque et idem nascitur, sempre…
Ogni tanto il solito giornalista o opinionista di grido getta il sasso nello stagno della scuola italiana. Sia chiaro: meglio parlarne che tacerne. Ma gli interventi di questi personaggi, con tutte le buone intenzioni che possono ispirarli, mi suonano parecchio sgangherati, da orecchianti, per intenderci. Lontani, comunque, molte miglia dalla realtà effettuale. Beppe Severgnini ha gettato il suo sasso dal Corriere, con il lodevole scopo di accendere i riflettori sulla nostra scuola liceale, sul classico in particolare, e ravvivare il dibattito intorno al suo attuale stato di salute.
Ho scritto parecchio su questo blog e nei miei libri intorno al liceo classico. Avendolo frequentato, da studente prima e da prof poi, per quasi mezzo secolo, credo di averlo fatto con cognizione di causa, ed anche perciò in maniera realistica, anticonvenzionale, tutt’altro che oleografica.
Severgnini dice del liceo classico cose, mi pare, piuttosto generiche e un po’ contraddittorie.
Prima, pensando forse al vecchio liceo dei suoi (e dei miei) tempi, dice che è una palestra formidabile dove esercitarsi strenuamente da adolescenti, prima di gareggiare da adulti. Sottintende con evidenza la metafora della ginnastica, dell’allenamento duro che prepara all’agonismo sportivo. Se ricordasse un po’ del greco antico aggiungerebbe magari che la parola palàistra (così come certi verbi attinenti agli esercizi che vi si svolgono, come ponèo o askèo) ha a che fare con la fatica e la lotta fisicamente intese, rimanda quindi, come metafora, ad una idea di sacrificio, di impegno, di sudore assidui, necessari nel presente per poter attingere a risultati futuri. Ma fin qui sarei molto d’accordo con lui. Un punto di forza del classico è (ancora) l’attitudine di diversi alunni che vi si iscrivono e di molti prof che vi insegnano a studiare e a lavorare seriamente, creando così l’habitat più adatto a maturare un metodo e una preparazione che trascendono le nozioni delle singole discipline.
Poi però, inspiegabilmente, Severgnini infierisce proprio contro gli insegnanti attuali del classico accusandoli di mortificare ancora oggi gli studenti con l’imposizione di un ingrato e anacronistico carico di lavoro, di uno studio “matto e disperatissimo”.
Qui Severgnini, oltre che contraddirsi, sbaglia di grosso. Va decisamente fuori bersaglio. Il classico degli ultimi due/tre decenni, infatti, non è più quello che io e Severgnini abbiamo frequentato. Allora quella palestra era molto più dura ed era fatta principalmente di greco e di latino: cioè di esercizio stremante e apparentemente ingrato e inattuale (soprattutto nel primo biennio) perché concentrato in gran parte sulle lingue antiche e sulla traduzione dei loro classici. Allora forse si poteva parlare (ma fino a un certo punto, senza generalizzare) di studio ‘matto e disperatissimo’, imposto ancora in modi un po’ autoritari ed ottocenteschi: cinque ore di scuola la mattina e altrettante (se non di più) di compiti pomeridiani.
Oggi chi frequenta seriamente il classico deve ancora studiare abbastanza, è vero. Ma intanto non si esige più, come ai tempi miei e di Severgnini, di farlo altrettanto seriamente. La selezione allora – lo ricordo bene – era spietata. Oggi il tasso di respinti e ‘riorientati’ dal classico verso altre scuole è irrisorio rispetto a quei tempi. E soprattutto studiare oggi al classico (per chi vuole ancora farlo sul serio) risulta gravoso sì, ma per ben altri motivi. Non certo perché ci siano ancora al classico, come li chiama Severgnini, prof ‘cattivi’, sadici Kapò che si incarogniscono contro i ragazzi torturandoli con uno studio disumano fatto di polverose nozioni e di regolette di grammatica. Tutt’altro… Se esistessero ancora, questi prof finirebbero subito impallinati dalle famiglie, verrebbero subissati di proteste e di esposti alla presidenza e neutralizzati quanto prima dai dirigenti scolastici. Il metodo dirigenziale, che gli addetti ai lavori conoscono bene, è quello infallibile della “spalmatura” dell’eventuale prof ‘fanatico’ su molte classi contemporaneamente e su piccoli spezzoni di orario, condannato cioè a insegnare solo geografia o geostoria (magari) in molte sezioni o, meglio ancora, esiliato in qualche innocuo progetto extracurricolare.
I tempi sono cambiati. Uno studente del classico di oggi non passa più tutti i santi pomeriggi a studiare senza poter fare altro. Anche perché lui, il ragazzo di oggi, anche il più volenteroso, ha molto più da fare, di pomeriggio, rispetto a noi, ragazzi di allora: ha la sua ora di palestra, di allenamento, di musica, di attività ricreativa programmata ecc.; ma soprattutto dedica un’enormità di tempo al suo smartphone, cazzeggiando per ore coi suoi amici sui social o girovagando sul web.
E allora perché chi frequenta il classico lamenta ancora, oggi forse più di prima, il peso di uno studio opprimente, eccessivo rispetto ad altre scuole? Semplice, direi, per due motivi.
Primo: il classico di oggi, grazie alle ‘riforme’ ministeriali e all’autonomia, ha aggiunto al latino e al greco una enormità di apprendimenti e di attività ulteriori e collaterali ‘moderni’ che non esistevano ai nostri tempi. Il classico non è più da tempo la vecchia scuola (coi suoi pregi e i suoi limiti) incentrata soltanto sul latino e sul greco. Molti ragazzi, proprio perciò, non ce la fanno oggettivamente a reggerne tutto il peso. In genere (come ho già scritto altrove) si arrangiano, cercano varie scorciatoie (la più nota è, per latino e greco, la copiatura acritica, di sana pianta, dal web di frasi e di versioni già tradotte) e così eludono il momento più importante ed efficace dello studio, che è la fatica della rielaborazione lenta, metodica e personale di quello che hanno appreso in classe.
Secondo: il peso dello studio viene avvertito (‘percepito’) oggi anche e soprattutto soggettivamente, cioè in relazione al tempo che si è disponibili, oggi rispetto a ieri, a concedergli. Ai nostri tempi sei ore pomeridiane potevano ben essere occupate da quattro/cinque ore di studio più una o al massimo due di oratorio o di passeggiata. Oggi ben oltre la metà almeno di quelle sei ore sono dedicate a interessi e attività extrascolastici che spesso non si è minimamente disposti (a ragione o a torto) a sacrificare a favore dell’impegno richiesto da una scuola liceale. E il peso più gravoso, si sa, è quello che non si desidera portare…
Ho maltrattato altrove Diego Fusaro giurando che lo avrei da quel momento ignorato, ma questa volta mi tocca riparlarne riconoscendogli, in tutta onestà, un merito: quello di aver tentato a suo modo, e tra pochissimi altri, di smascherare il mito e lo slogan, ormai onnipervasivi, della resilienza. Fusaro lo fa in un suo saggio, brillante ma insidioso (e piuttosto ridondante, come tutti i suoi) dal titolo inequivocabile, diretto come un treno: Odio la resilienza. Contro la mistica della sopportazione (Rizzoli, Milano 2022). Si sa: i nemici dei nostri nemici sono o diventano, per legge di natura, contro la nostra volontà e contro ogni nostra aspettativa, nostri amici, quantomeno occasionali. Il comune nemico mio e di Fusaro è, in questo caso, l’ottimismo obbligatorio di ‘regime’. Il regime è quello, tanto ampio da diventare impersonale e inafferrabile, aziendal-finanziario- mercantilistico che domina l’occidente globalizzato da decenni. L’ottimismo è quello, fasullo, che questo regime vuole imporre per persuadere masse sterminate di consumatori che essi continuano a vivere nel migliore dei mondi possibili e di conseguenza devono continuare, questo mondo, a sostenerlo in tutti i modi e senza riserve così come è, nonostante tutto e all’infinito. L’ottimismo obbligatorio della società consumistica, lo vado ripetendo da sempre, è merce del diavolo. Ben impacchettata, suadente, seducente, ma profondamente corruttiva e rivolta al bene e all’interesse primario di chi lo propaganda. E fin qui concordo col Fusaro. E tuttavia la strategia propagandistica dell’ottimismo obbligatorio è irresistibile perché fa leva su un aspetto incoercibile della natura umana. Tutti noi abbiamo bisogno di speranze e di illusioni per vivere. Tutti noi desideriamo e sogniamo naturalmente – e indefinitamente -, in primis, il benessere e il piacere. E l’ottimismo della propaganda di regime alimenta ogni giorno, ogni istante, fino all’overdose, attraverso i mille canali promozionali che possiede, proprio il desiderio e l’illusione di raggiungerli. Chi coltiva ciecamente desideri e illusioni di benessere e di piacere, infatti, alimenta a sua volta il sistema che le produce e che le vende: non lo mette in discussione e non percepisce i rischi mortali della sua espansione infinita e indiscussa.
La resilienza è l’ultima trovata della neolingua di questo sistema – ha ragione qui il Fusaro. Drammi e problemi gravissimi, figli diretti o indiretti (ma inequivocabili) della mondializzazione capitalistica (dalla pandemia, alle guerre, al disastro ecologico e allo sfruttamento indiscriminato e squilibrato delle risorse) mettono in pericolo imminente la sopravvivenza del genere umano, quindi il “sistema” stesso. E il “sistema” per parte sua quale soluzione propone? La resilienza. Sob! Sarebbe a dire che non dobbiamo attrezzarci, ribellarci, mobilitarci collettivamente in social catena per contrastare e combattere le cause di questi pericoli, bensì adeguarci, sopportarne, accettarne gli effetti, resistere individualmente con forza d’animo, pazienza e speranza infinite… Già, la speranza. Ovvio, dice giustamente il Fusaro, ribellarci e combattere in molti significherebbe muovere contro il sistema. Adattarsi e sopportare e sperare da soli invece non mette in discussione un bel nulla se non noi stessi. Molte volte in effetti su questo blog ho richiamato gli antichi greci per sbugiardare la falsa virtù della speranza. Che significa spesso, come ben sapevano loro, una proiezione illusoria del desiderio, ovvero una infondata autosuggestione: chiudere insomma gli occhi della ragione di fronte alla realtà. Oggi la speranza si chiama meglio “pensare comunque positivo”, cioè fiducia incondizionata nel futuro a prescindere da qualsiasi dato realistico o condizione oggettiva. Una virtù coltivata ingenuamente dagli individui per sopravvivere, ma utile soprattutto al sistema per imbonire le masse e perpetuare se stesso. La speranza così intesa è diventata insomma, nel vocabolario creativo del sistema “turbo-capitalistico”, sinonimo stretto o almeno alleato della resilienza.
Il Fusaro sostiene proprio questo, in buona sostanza. Dice di odiare la resilienza in quanto truffa lessicale, propaganda di un sistema che cerca con tutti i suoi potentissimi mezzi di spacciare per leggi di natura le leggi proprie, quelle cioè che garantiscono i propri interessi di dominio (finanziario, economico, ideologico ecc) ormai planetario. Dice di odiare la resilienza in quanto finto valore utile soprattutto a rovesciare sull’individuo/atomo la colpa di non sapere o volere accettare i crescenti ‘inconvenienti’ del sistema; se non ce la fai ad affrontarli è perché sei un disadattato o un debole o un immaturo; se soccombi è solo perché non sei abbastanza resiliente.
Ora fin qui, ripeto, io concorderei abbastanza col Fusaro. Ma intanto il potentissimo nemico che egli addita è reale, certamente, ma estremamente impersonale, vago, ubiquo, inafferrabile. Chi sono i signori del sistema da combattere: Amazon, le multinazionali, le banche, i mercati, i cinesi? O tutti questi e molti altri insieme? Quali volti concreti ha questo sistema mondiale “turbo-capitalista”? Contri chi e che cosa dovremmo o potremmo rivoltarci? Come e con quali mezzi potremmo farlo? E, soprattutto, coalizzandoci e organizzandoci tra chi? Chi fra noi, in questo momento, dovrebbe o potrebbe farsi promotore e attore di questa rivolta o rivoluzione globale? Appellandosi a quale nuovo manifesto condiviso da un neo-proletariato mondiale? Non trovo al momento, da perfetto profano di sociologia, economia, politologia ecc., una risposta possibile (concreta) a questa domanda. Anche perché questo neo-proletariato politicamente non esiste. I nuovi poveri vittime della macchina turbo-capitalistica mondiale sono certamente milioni, miliardi. Ma quale istanza comune, trasversale, internazionale potrebbe unirli e mobilitarli in una social catena contro il moloch che li minaccia? La realtà è che essi sono tragicamente ed infinitamente divisi, addirittura ostili in primis gli uni verso gli altri. E lasciamo stare l’impotenza sociale delle turbe immense di schiavi sfruttati nei vari terzi e quarti mondi. Ma anche nelle società meno povere come la nostra la polverizzazione categoriale del disagio e/o della vecchia e nuova povertà è evidente: partite iva contro statali, precari contro non precari, categorie protette contro categorie emergenti, italiani contro immigrati, giovani contro anziani ecc. È un bellum omnium (pauperum) erga omnes. Un facile trionfo per il turbocapitalismo internazionale. Un paradosso, direi: all’internazionale socialista del Novecento è subentrata l’internazionale capitalista del nuovo millennio e la vecchia, difficile lotta dei proletari uniti contro i singoli capitalisti si è rovesciata in facile vittoria del grande capitale mondiale unito contro sfruttati divisi, litigiosi, atomizzati, pressoché imbelli.
Fusaro sottace abbastanza questa realtà. Non solo: con tutta la profusione di cultura filosofica con cui maschera la voragine di fondo della sua argomentazione, quando dovrebbe arrivare al nodo della questione, cioè a proporre marxianamente soluzioni “pratiche” (di prassi politica, cioè), non sa appellarsi ad altro che al ridicolo rifiuto della scienza, della fantomatica dittatura sanitaria, quella delle mascherine e dei green pass durante la pandemia, per intenderci: quello sarebbe secondo lui un esempio importante di rivolta contro il sistema! Parturiunt montes, nascitur ridiculus mus…
Ma no, dottor Fusaro, abbia pazienza: credo che lei sia abbastanza intelligente per capire che correndo dietro a queste infeltrite bandierine dell’antiscienza, del sovranismo, della patria e della famiglia ecc. non si arriva proprio da nessuna parte…
Io la vedo molto diversa e parecchio più tragica (apocalittica), purtroppo. Vedo che il moloch contro cui si dovrebbe combattere è in realtà una immane macchina sfrenata, lanciata a tutta forza verso un imminente schianto, un blackout fatale che tutti rimuoviamo e che temo sia ormai impossibile evitare. È solo questione di tempo.
E noi? Noi siamo in tragico ritardo.
Perché noi, tutti quanti siamo – diceva il grande scrittore russo Gogol – dormiamo, e sogniamo…
Continuiamo pervicacemente a sognare. Che cosa sogniamo? Semplice, ripeto: piacere e benessere. Semplice e naturale. Il sogno che il capitalismo occidentale ci ha educato da decenni a sognare. Il sogno più istintivo e dolce (ma virtualmente pericoloso, come ben sapeva il vecchio Epicuro) che potremmo accarezzare: il sogno edonistico. Perché hedùs in greco significa dolce, appunto, ed hedonè è la dolcezza del piacere. Se il capitalismo occidentale ha costruito nella storia un sistema più efficiente e vincente di tutti gli altri non è per caso: è perché ha prodotto nella società umana, (più male che bene, solo per alcuni e non per tutti, ma di sicuro più diffusamente che altri sistemi) piacere e benessere, certo, ma anche – con il suo formidabile apparato pubblicitario – il cieco e mai sazio desiderio di entrambi. Il turbocapitalismo consumistico ci ha intimamente corrotti, antropologicamente trasformati, snaturati, è vero: ma lo ha fatto a partire dalla sollecitazione sistematica dei nostri più basilari e naturali desideri. Chi poteva resistere a una sollecitazione del genere? Diciamocelo: nessuno può né vuole combattere davvero contro ciò che naturalmente desidera. Tantomeno ci riesce contro chi, in maniera artificiale ma scientifica, sa alimentare quei desideri all’infinito. Non riesco a vedere nel mondo attuale popoli, o gruppi o movimenti che non siano profondamente conquistati dal modello di vita occidentale: anche quelli che sembrano combatterlo con furia, o addirittura minacciano di distruggerlo, nel profondo desiderano eguagliarlo o sostituirlo. Il loro odio dichiarato è in realtà, ne sono convinto, inconfessabile o inconsapevole invidia.
Solo il sistema in realtà potrebbe salvarci da sé stesso. Ma non lo farà. Perché l’interesse immediato di quanti lo guidano è più forte e ingovernabile delle virtù che occorrerebbero loro per frenare la corsa e salvare il convoglio dallo schianto: lungimiranza, misura, sacrificio condiviso e giustizia distributiva sarebbero forse oggi le vere, uniche, ardue strategie di sopravvivenza. Ma gli insaziabili happy few alla guida della locomotiva si limitano tutt’al più a elogiare a parole queste virtù. In realtà non vogliono e nemmeno possono rallentare la corsa del treno. Preferiscono perciò mantenere tutti gli altri passeggeri, fino all’ultimo poveraccio imbucato nella terza classe, immersi nel sonno e nel sogno…
La vulgata pubblicitaria del turbocapitalismo ha infatti rimosso (ne ho già scritto altrove) negli ultimi sessant’anni dalla cultura dell’uomo medio occidentale la concezione stessa della tragedia: il senso del limite, l’incombenza inevitabile della morte, della sconfitta e del nulla, il dovere drammatico della rinuncia e della scelta. Tutte queste componenti, oggettive e irremovibili della condizione umana, sono state lavate pericolosamente via dalla nostra coscienza collettiva. E ciò è accaduto perché esse sono irriducibili nemiche di un sistema che, per perpetuarsi ed espandersi, ha bisogno di nasconderle e di iniettare sempre e comunque negli individui-consumatori dosi di fideistica e bambinesca (pseudo-umanistica) speranza nel futuro.
Ma quel sistema, caro prof Fusaro, noi non riusciamo purtroppo più di tanto a combatterlo, né tantomeno a odiarlo del vecchio e proverbiale – e a lei ancora caro – odio di classe: perché esso promette a tutti noi, che lo ammettiamo o no – lo ribadisco -, il paradiso verso cui si protendono i nostri profondi e immediati desideri. E noi occidentali, per altro, di quel sistema abbiamo goduto per alcuni decenni vantaggi concreti in abbondanza, più (e a scapito) di ogni altra popolazione al mondo. Perciò, temo, dovremo essere noi a pagarne (e stiamo già iniziando a pagarlo) il prezzo più amaro, senza sconti.
Proprio la rimozione del tragico d’altronde (la poesia e il teatro greco ce lo insegnano) è la condizione più favorevole all’accendersi e al consumarsi, implacabile, della tragedia. Il presupposto della nemesi. Della catastrofe. Di quel doomsday di cui gli uomini di scienza più avveduti stanno aggiornando, ahinoi, proprio in questi giorni la data.
Non so perché ma scrivendo queste cose mi vengono in mente – per inquietante analogia – il Serse di Eschilo, l’Edipo di Sofocle, l’Eracle folle di Euripide e tanti altri grandi archetipi dimenticati (riposti/rimossi: remoti) negli scantinati del mito. Vicende tragiche segnate, tutte, dal sogno ostinato della potenza, dalla hybris del successo, dal naufragio sanguinoso dell’illusione. E dal tardivo riconoscimento della realtà.
Volentieri ricevo e volentieri diffondo. Fulminante, matematica foto della parabola della nostra scuola superiore negli ultimi cinquanta anni. Senza neanche troppa esagerazione. E senza bisogno di ulteriori commenti…
Si sa che parole singolari astratte assumono in certi casi, al plurale, un significato diverso: fortuna/fortune; bene/beni; amore/amori, tanto per fare qualche esempio. Il plurale è sempre più concreto e pragmatico, talvolta meno nobile ed elevato del singolare. La stessa cosa accade per educazione/educazioni. Quando è declinato al plurale questo termine sottintende sempre aggettivi che lo specificano e lo circoscrivono subordinandolo a scopi meno generali e meno alti, direi, del singolare senza aggettivi. C’è dunque l’educazione e ci sono varie educazioni, ciascuna mirata a istruire o a catechizzare gli educandi a certe idee, comportamenti o abilità in uno specifico ambito.
Sentivo stamane in radio un economista che reclamava l’urgente introduzione di una educazione finanziaria nella nostra scuola. Non passa giorno che qualcuno non esiga a gran voce diritto di cittadinanza nella nostra istruzione per una qualche educazione con aggettivo al seguito: musicale, cinematografica, teatrale, stradale, sanitaria, ambientale, alimentare, sessuale, digitale, e molte altre ancora.
Intanto il ministero ha già recepito e imposto (ma temo sia solo l’inizio…) almeno due di queste educazioni: quella civica, che esisteva già prima, ma era una semplice e (ingiustamente) trascurata appendice dell’insegnamento disciplinare della storia, e quella aziendalistica, camuffata dietro le sigle dell’Alternanza Scuola-Lavoro (ASL) e dei Percorsi Trasversali per le Competenze e l’Orientamento (PTCO).
Trasversale è nel nostro caso la parola magica. La chiave di volta della rivoluzione didattica che si vuole attuare imponendo da un anno all’altro queste educazioni. Sia la nuova Educazione civica che l’Alternanza, infatti, sono concepiti dal ministero non come discipline da aggiungere alle tradizionali, ma come percorsi (altra parola magica) che intersecano (attraversano> infilzano > trafiggono) tutte le varie discipline. Tutte le discipline devono insomma concorrere, subordinandovisi, alla educazione civica e a quella aziendalistica, ciascuna pagando il pegno di un bel gruzzolo di ore sottratte alla normale attività programmata e inventandosi attinenze fantasiose e improbabili con le finalità superiori di ciascuna educazione. Il sottofondo ideologico comune rimane, con tutta evidenza, la interdisciplinarietà. Un totem che circola nella pedagogia ministeriale da oltre sessant’anni ma che continua ad essere spacciato nella scuola reale come il non plus ultra della modernità, benché venga attuato nelle nostre aule in forme spesso degradate, fuorvianti e caricaturali.
Una interdisciplinarità così intesa si sposa in effetti a meraviglia con la proliferante pluralità delle educazioni. Ne diventa il lievito potente, fecondante. Capace di pompare potenzialmente l’importanza e la misura oraria delle nuove educazioni fino a coprire tutto il campo dell’attività didattica, o quasi.
In soldoni: se la scuola accoglierà una ad una nel suo grembo (ma come potrà non farlo se vuole adeguarsi alle esigenze di una istruzione utile, pratica ed attuale?) tutte le educazioni che reclamano di essere adottate, il tempo per insegnare le discipline tradizionali, prima o poi, non esisterà più.
Inutile negarlo: se questo accadrà, si avvererà una vera rivoluzione. La scuola che uscirà da questo totale rivolgimento sarà completamente altra rispetto a quella che noi conosciamo e che molti di noi anzianotti hanno frequentato: in questa nuova scuola le conoscenze disciplinari saranno disfatte, diluite, smembrate, sfrittellate, sfarinate e infine travasate dentro i contenitori delle educazioni. Saranno al servizio di un sistema di insegnamento tutto rivolto all’utilità immediata. Sarà una scuola delle istruzioni per l’uso, per capirci. Perché le educazioni hanno più o meno tutte nel mirino lo sviluppo delle famigerate e mai ben identificate competenze.
Beninteso: se davvero tutti oggi vogliono (politici, famiglie, società) una scuola così, se si ritiene che la scuola delle discipline non serva più a nessuno, se si pensa che Leopardi e Hegel e Machiavelli e le matematiche e la fisica classiche ecc. debbano finire nella spazzatura o porsi al massimo (e non si sa bene come) al servizio delle varie educazioni (stradale o alimentare ecc.) ebbene si metta allora mano al bulldozer e si proceda a demolire dalle fondamenta la vecchia scuola liceale. Si faccia con coraggio e subito piazza pulita delle materie tradizionali.
Sia chiaro: personalmente ritengo questo progetto di ‘scuola del prêt à porter’ un vero delitto di cui ci si dovrà presto pentire.
E tuttavia preferirei vederlo consumato, questo delitto, senza esitazioni e fino in fondo, con una riforma drastica e cruenta, piuttosto che assistere alla prolungata agonia della scuola delle discipline.
Per effetto di queste riforme striscianti i licei in particolare (e non per caso) sono infatti da anni impantanati in un drammatico guado. Non sono più carne e non sono ancora pesce. Si trascinano in questa lenta e travagliata metamorfosi, costretti a reggere il peso doppio del loro impianto tradizionale e delle insopportabili sovrastrutture ‘moderne’ imposte da un anno all’altro dalle riforme ministeriali o inventate dalla fantasiosa inventiva degli istituti autonomi.
Nei licei infatti si insegnano ancora, ormai più male che bene, le vecchie discipline. Ma a loro danno reclamano ormai un sempre maggiore spazio, in nome dell’attualità e della ‘progettualità’ e sotto molteplici e variopinte etichette, proprio le varie educazioni. Una presenza sempre più invadente, soffocante. Una vera e propria metastasi.
Il risultato, al momento, è un ircocervo, un organismo ibrido ed elefantiaco. Qualcosa, ripeto, che non è più e non è ancora. Un essere sofferente che non riesce, per la sua stessa mole mostruosa e iper-obesa, a muoversi e ad operare.
La conseguenza didattica è, etimologicamente, tremenda: incalzati nell’immediato dalle verifiche tradizionali e preoccupati a lungo termine dall’esame di stato, gli studenti liceali di oggi (anche i più seri e volenterosi) non riescono più ad assimilare decentemente i contenuti delle vecchie discipline, costretti come sono a occuparsene in tempi sempre più stretti e in modo vieppiù frettoloso e superficiale. Il tempo della lezione e del lavoro domestico infatti è sempre più dominato dalle esigenze e dalle incombenze della progettualità e delle nuove educazioni. Se a questo aggiungiamo il tantissimo tempo che i ragazzi di oggi dedicano, fuori dalle aule, a molteplici attività organizzate (sportive, ricreative ecc) e soprattutto quello che sperperano sugli smartphone e sui social, allora la frittata strapazzata (dell’apprendimento disciplinare) è fatta.
Signori della Minerva, abbiate pietà! Aiutate il vecchio liceo a morire, al più presto, con tutte le sue decrepite e fragili discipline. Non fatelo soffrire oltre. Spazio, subito, alle giovani educazioni…
(Però uno dubbio mi rimane: quando la matematica e la storia saranno decedute, come si farà a spiegare matematicamente, nelle ore di educazione civica, i sistemi elettorali? E come si spiegherà storicamente la storia della rivoluzione industriale nelle ore dell’alternanza scuola-lavoro? Giro queste stupide domande ai lettori…)
Sabato 19 Novembre alle 10,30 su Universal Web Radio andrà in onda una mia intervista a proposito del mio saggio autobiografico THE DARK SIDE OF THE SCHOOL: https://www.universalwebradio.it/
«[Sulla questione di come fa il mondo ad andare avanti] viene chiamato a parlare un conferenziere che va in giro a far conferenze su tutto, sempre facendo riferimento alla sua infanzia e ai suoi ricordi. Costui in meno di un’ora risolve il problema, risponde alle obiezioni del tipografo, della bambina e dell’inventore, e conclude la conferenza. Il pubblico applaude contentissimo di sentire che là fuori c’è un mondo così facile da spiegare che uno se la può cavare in mezz’ora. Poi tutti, appena escono dalla sala e si ritrovano in strada, dimenticano immediatamente quello che hanno sentito, il conferenziere dimentica quello che ha detto, e l’indomani nessuno ricorda neanche più il titolo della conferenza. Nel piccolo paese tutto continua ad andare avanti come prima, a parte il fatto che ci sono sempre più parole sui muri, sempre più insegne, sempre più scritte pubblicitarie dovunque il tipografo giri gli occhi.» [Gianni Celati, Come fa il mondo ad andare avanti, in: Narratori delle pianure, Milano, Feltrinelli 1985, p. 53]
È roba scritta quasi quaranta anni fa, ma fotografa l’oggi: l’odierna macchina della comunicazione verbale, ovvero macina della parola. Parola dispersa, sperperata, prostituita. Elargita a piene mani, in tutte le direzioni, panìco agli uccellini o pastura per i pesci. Parola che illude e poi abbandona, suscita e poi atterra, consola e poi affanna. Vaporosa effervescenza del nulla. Fata morgana della nostra sfiancata civiltà. Vento che urla prima e poi ammutolisce. Tempesta autorigenerante. Alluvionati, noi, dalle parole, naufraghi nella loro piena. Parole che leniscono, stordiscono, nascondono, consolano, corteggiano, lusingano, seducono. Suonano ma non creano, e soprattutto non rivelano. Tessono e infittiscono la trama del velo di Maya anziché sollevarlo, o strapparlo.
“Niente sarà più come prima!”. Ricordo bene queste parole agli inizi della pandemia. Sentenza sibillina, slogan trombonesco, fuffa autoconsolatoria. Mantra gonfio del fiato nauseabondo della pietosa e sussiegosa Impostura. Umanesimo (o catastrofismo?) chiacchierologico. Schiumosa profezia di una imminente lavacro (con annessa palingenesi) della nostra razza. Balle di segatura. Tutto, infatti, è (rimasto) esattamente come prima. Anzi: forse peggio di prima. Ma la macina delle parole non ha memoria, e non ha requie. Sventaglia come sempre nel vuoto stupefacenti aromi di aria fritta. In questa atmosfera satura di vaniloquio l’unica parola che salva, quella della scienza e della poesia (e della profezia), è uno stormire di fronda nel fragore della bufera. Riesce a malapena a percepirla colui che la pronuncia.
Ogni governo partorisce e battezza ministeri a suo capriccio. Ovvero a propria immagine e somiglianza. Però non mi è del tutto chiaro perché Istruzione sia adesso gemellata con Merito. Merito di chi e per che cosa? Degli studenti per il proprio talento e/o la propria applicazione allo studio? Pleonastica sottolineatura, nel caso: per quanto a manica slabbrata e con inflazione numerica galoppante, infatti, bene o male la distinzione tra geni, bravi e mediocri la nostra scuola la registra ancora. Merito dei prof per aver superato il concorso a pieni voti? O per essersi aggiornati alle ultime astruserie buro-pedagogiche? O per essersi accollati con fervore tutte le corvée logistico-promozionali della scuola autonoma? Mistero, al momento fitto, tenebroso. Si vedrà. Mi è chiaro invece che Merito sarebbe andato perfettamente a braccetto con un altro ministero: quello dell’Università. Messo lì accanto sarebbe stato un bel proposito e un bell’impegno per il nascente governo: un bel merito davvero, se promessa ed impegno fossero stati poi mantenuti… Ecco perché l’operazione non mi convince. Non solo perché è stato ratificato a parole un matrimonio che era già una, per quanto logora e sgangherata, unione di fatto, ma soprattutto perché non è stato nemmeno annunciato quell’altro matrimonio che da troppo tempo s’avrebbe da fare (meglio: da consumare): quello tra la nostra accademia e il merito, da sempre sposi promessi e mancati. Temo bisognerà aspettare ancora, per chissà quanti governi, fino alla ricostituzione completa dei ghiacci dell’artico e della foresta amazzonica…
Due giorni fa alla tv si parla di scuola in un salotto librario radical chic. Ospiti due insegnanti, entrambi – rigorosamente! – della stessa identica parrocchia pedagogica ed entrambi del genere “abbastanza famoso”. Perché se non è anche giornalista o scrittore o cantautore di una certa fama il comune prof non ha diritto di parola nei media di casa nostra. Entrambi (ma uno dei due soprattutto) le sparano grosse, forti della mancanza di contraddittorio, a parte un paio di timide obiezioni che l’intervistatore muove per dovere di ruolo. Sento dire dai due che la scuola di adesso va cambiata perché è troppo selettiva (?), perché è classista (!), perché è nozionistica (?!), perché è cattedratica e frontale (sob!), perché non esce dalle aule (wow…), perché i prof non seguono i dettami della pedagogia più aggiornata ma si incaponiscono a insegnare le proprie materie (sig!)…. E penso: in quale scuola insegnano mai questi due? E contro quale scuola mai si stanno scagliando? Forse vivono ancora negli anni cinquanta e sono atterrati in tv con la macchina del tempo! Forse sono ologrammi o animazioni della propaganda ministeriale. Forse sono figure della realtà aumentata e rovesciata, e io mi trovo già nel futuro metaverso di raistoria…
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