D. Qual è secondo lei il male peggiore che affligge la scuola italiana di oggi, in particolare quella liceale dove lei ha insegnato?
R. L’abdicazione al suo compito naturale e costitutivo, che è quello di insegnare, cioè di formare ed educare i giovani.
D. Perché la scuola trascurerebbe questo compito basilare?
R. Semplice, in apparenza: la scuola trascura il compito suo proprio per fare soprattutto altro: per dedicarsi cioè anima e corpo al compito (del tutto estraneo alla sua natura e addirittura incompatibile con essa) di attirare/conservare iscritti per sopravvivere.
D. E quali conseguenze concrete comporterebbe questa scelta?
R. Molto gravi. Se l’iscritto da conquistare/preservare e non il ragazzo da formare/educare è diventato il fine principale della scuola è ovvio e conseguente che essa oggi si occupi sempre meno della qualità didattica (cioè, detto banalmente, di far lezione nella maniera più seria ed efficace) e sempre di più della propria immagine presso il pubblico dei potenziali utenti.
D. E in quali modi curerebbe soprattutto la propria immagine?
R. In due modi soprattutto: difendendosi e promuovendosi. Ci si difende moltiplicando la burocrazia con cui ci si tutela da obiezioni, contestazioni e ricorsi degli utenti. Ci si promuove mostrando il volto più accattivante di se stessi e moltiplicando le occasioni e gli eventi nelle quali l’istituto interagisce – per poter ‘apparire’ – con persone, enti, aziende, amministrazioni, realtà esterne alla scuola stessa.
D. E perché questa cura dell’immagine comporterebbe l’abdicazione al compito educativo della scuola?
R. Per più motivi e davvero ovvi, a guardar bene. Primo: se ci si promuove si devono giocoforza nascondere o addirittura rimuovere i lati più impegnativi, spiacevoli e faticosi della propria attività. Autopromozione significa automaticamente corteggiare e blandire gli studenti in tutti i modi (voti gonfiati, verifiche programmate e addomesticate, pochi compiti a casa ecc.) e con tutte le iniziative possibili (gite, uscite, settimane bianche e ‘culturali’, feste, gare, progetti, attività extra- e parascolastiche ecc.): l’esatto contrario che formare e educare. Secondo: se ci si difende, si rinuncia al rigore professionale, al coraggio e alla franchezza che ogni rapporto autenticamente educativo (non solo scolastico) richiede. Autodifesa significa automaticamente rinunciare alla responsabilità di un serio patto educativo fiduciario con le famiglie (essenziale alla formazione e all’educazione di un ragazzo) per garantirsi una inattaccabilità tutta formale, giuridica, come se davanti non si avessero naturali collaboratori e alleati del proprio compito pedagogico, ma avversari da neutralizzare a colpi di statuti, griglie valutative, carte, deliberazioni formalmente impeccabili… Autopromozione e autodifesa sono due facce della stessa medaglia.
D. Chi sono le vittime di questo meccanismo autoconservativo?
R. Alunni e insegnanti. I primi non imparano più nulla di sistematico perché in gran parte chiedono (e in gran parte ottengono) di essere soprattutto blanditi e intrattenuti nel Kindergarten di una scuola-spettacolo, avviati senza traumi (come il Pinocchio di Collodi) ad una asinificazione indolore. I secondi fanno sempre più fatica ad insegnare: sia perché chiamati ad affaccendarsi, schiacciati come sono tra burocrazia autodifensiva e logi(sti)ca autopromozionale, in tutt’altre faccende rispetto all’autentico insegnamento; sia perché, se anche volessero continuare ad insegnare davvero (come alcuni tentano ancora, eroicamente, di fare) sarebbero bersagliati – senza difesa alcuna – dal fuoco incrociato della dirigenza da un lato e dei genitori più irresponsabili dall’altro. E se non è facile quantificare la percentuale dei genitori irresponsabili, è comunque certo che l’alleanza populistica che da decenni ormai si è stretta tra questi genitori e la dirigenza (e i suoi collaboratori) contro i docenti è solidissima e decisiva nel determinare le scelte e le sorti della scuola attuale.
D. Dunque nella scuola di adesso nessuno impara e nessuno insegna più?
R. No, nonostante tutto ci sono ancora studenti che studiano e insegnanti che insegnano. Questo è il consolante paradosso. Ma riescono a farlo nelle condizioni ambientali più avverse che si possano immaginare, ricavandosi in un contesto ostile una zona franca sempre più esigua, arroccandosi in una cittadella sempre più assediata. Mentre si affaticano per fare ancora autenticamente scuola devono combattere ogni giorno contro quella che io chiamo l’antiscuola.
D.Quale sarebbero secondo lei le cause più profonde di questa situazione?
R. Le scelte di politica scolastica degli ultimi 25 anni (riforme e riformine demenziali, spesso sparagnine e sempre demagogiche e/o iper-burocratiche, a partire dalla cosiddetta ‘autonomia’ per finire con la famigerata Alternanza Scuola-Lavoro) costituiscono indubbiamente la causa più diretta e concreta della deriva del sistema. Ma forse non sono la causa prima né la più profonda. Che è da rintracciarsi soprattutto, a mio avviso, nella radicale e accelerata omologazione in senso edonistico, mercantile e consumistico della società occidentale dell’ultimo quarantennio. Una vera rivoluzione antropologica che ha prodotto, nei giovani e nella famiglia prima e nella scuola di rimbalzo, l’evaporazione di quel confronto/conflitto generazionale che, piaccia o no, è presupposto di qualsiasi fecondo processo educativo. Il venir meno di questa opposizione dialettica e di questa alterità tra vecchi e giovani, genitori e figli, educatori ed educandi mi pare la radice più autentica e ineliminabile della crisi pedagogica attuale.
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