Posted in parole on 20 marzo 2013|
La parola spesso – la psicoanalisi lo insegna – è traditrice. In molti modi. Non solo nei casi classici del lapsus linguae vel calami di singoli parlanti o scrittori; ma anche nello scivolamento di senso che nella storia di una lingua patiscono alcune parole. Intelligentemente una mia alunna mi ha fatto notare come, nella sua accezione comune, l’aggettivo patetico non sembri oggi avere più una relazione semantica stretta con il greco pathos da cui deriva. Pathos significa infatti in greco antico ‘evento, spesso disgraziato o calamitoso, che ci colpisce’; oppure ‘un’emozione, una passione, un sentimento molto intensi e coinvolgenti’ (e in quest’ultima accezione viene ancora usato per lo più nell’italiano moderno). Non c’è traccia alcuna di ignobiltà nel vocabolo. Patetico invece è attualmente un aggettivo che connota spesso – nel linguaggio comune – personaggi, situazioni e comportamenti penosi e irritantemente miserevoli, che suscitano cioè un senso di fastidio, di disdegno o di distacco in chi li osserva anziché autentica pietà umana. Una analoga Sinnverschiebung si osserva, d’altro canto, tra pietà o pena nel loro primitivo significato e espressioni o aggettivi che ne derivano: fare pietà/pena e pietoso/penoso. Non riesco a spiegarmi altrimenti questo slittamento se non pensando che esso denunci – tradisca! – la naturale e istintiva e primitiva (ancorché inconfessabile) repulsione dell’uomo verso la sventura del prossimo. Quella originaria e animale e egoistica ripugnanza per la ‘sfiga’ altrui – che pure secoli di civilizzazione filosofica e religiosa hanno cercato di sostituire nelle coscienze con la pietas – è beffardamente riemersa in superficie aggrappandosi allo stesso nobile significante che avrebbe dovuto sommergerla.
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