Musi rasati, netti di geometrici baffi o decorativi
pizzetti, zazzera calligrafica scolpita che accarezza
colletti a camicie imbalsamate. Nuotano i loro busti
d’automi dentro eleganti spezzati, incravattato
il cuore in filiformi spadini, il grugno illuminato
da telematici sorrisi: laccati, laminati, tenaci come
mastini questi aggregati di topi antropomorfica
mente modificati, addestrati quanto basta a sfoggiare
una lorica di spocchia che non arretra di fronte a fischi
né inchini, lesti ad amputare col laser dei canini la polpa
del formaggio a spregio sovrano di ferite o gogna: arduo
per la ranocchia fermarli, i giovani ratti rinati dalla fogna
in metallizzata mise da damerini. Anfibi di melma
e di stagno, noi, c’aspettavamo altro: muridi ceffi
laidi, vecchie pantegane, mantelli lerci di morchia
rimediata strisciando nei tombini, monatti
carichi dei vibrioni assassini di camusiana
memoria, pronti a inquinare le uova della rana
con raffiche di bombe stercorarie: invece
l’azzimato nemico ribatte sul tamburo – udite
udite – di volerci bene, di azzannare per noi le nostre
pene, di volerci spurgare del fango in un brodo
d’amore: basta che ci si affidi – dice – tutti al vangelo
roditore, quello che intona il credo nel già presente
futuro della transgenica specie, quella nella
quale potrà mutare, come ciofeca in vino
doc certificato, l’intera fauna dell’universo
immondo. Basta che ogni rana, inforcate le lenti
della fede, senza retropensieri lo voglia e gracidi
lieta danzando in tondo tonde giaculatorie
a Rodigrana: incisivi di smalto, froge
di bronzo, né(r)vi d’acciaio, fulminante
duce, liberaci dai lagni di nottole, gufi
e barbagianni e riconduci all’acque
morte, qui, sulla tenaria riva, il sole
della magnifica sorte e progressiva.