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Archive for settembre 2023

La scuola è ricominciata da poco. E quando la scuola ricomincia se ne parla un po’, come da rito, sui media, così come se ne parla un po’ anche a giugno, al termine delle lezioni. Poi, per lo più, cala il silenzio, salvo occasioni eccezionali o pretestuose. Chiacchiere comunque scontate che non vale in genere la pena né di leggere né di commentare.

Quest’anno invece mi hanno colpito, per opposti motivi, un paio di cose uscite a breve distanza di tempo entrambe su La Stampa. La prima è un articolo dello psicoanalista Massimo Recalcati pubblicato l’11 settembre scorso e intitolato la scuola al via: gli insegnanti sono la luce. Ne riporto alcuni passaggi:

« Le norme grigie che strutturano il tempo scolastico (calendari, riunioni, programmi, valutazioni, ecc.) favoriscono la sua rappresentazione come una istituzione condannata a una ripetizione senza sorpresa. Un peso al collo o una condanna nel vissuto di molti studenti. Una incombenza necessaria in quello di molti insegnanti. Il processo di istituzionalizzazione della Scuola tende infatti a consumare anche i migliori. È quella che ho definito altrove l’anima grigia dei dossier, il feticismo del numero, l’assillo della quantificazione. […] Questa riduzione del sapere a un sapere morto scoraggia l’entusiasmo dell’apprendimento e ribadisce la sua separazione dalla vita. A cosa serve apprendere, studiare, sapere se poi l’impatto con la vita ne rivelerebbe fatalmente l’inutilità? La formazione scolastica sarebbe allora una perdita di tempo, un ritardare inutilmente l’inizio dell’attività lavorativa, come sostengono anche noti imprenditori del nostro paese? Dovremmo sempre, oggi più che mai, contro discorsi simili, ricordare la centralità della scuola non tanto come luogo di accumulo di informazioni, ma come luogo insostituibile di formazione. L’esperienza della Scuola non è solo esperienza di una routine mortifera, ma anche della luce del sapere: il sapere non è un libro morto, ma un libro vivo, non è una passione triste ma una passione erotica. Ma questa luce deve essere testimoniata da chi insegna. […] L’esperienza della luce richiede sempre dedizione, cura, attenzione. È quella che molti hanno avuto la fortuna di incontrare nei propri maestri. Diversamente, la distrazione svia da ogni possibile cura. Ecco la testimonianza difficile a cui sono tenuti i nostri insegnanti. Dare prova di una concentrazione che non sia una forma ottusa del rigore, ma una cura. Essere concentrati sulla propria pratica è, del resto, la sola salvezza possibile per non cadere in una ripetizione scolastica del sapere che stroncherebbe anche gli spiriti più nobili. È la solitudine inevitabile che accompagna ogni insegnante: restare concentrati sul proprio lavoro, restare prossimi alla cosa, non lasciarsi distrarre dai rumori del mondo.»

Parole sante, specie queste ultime. Contro la diffusa burocratizzazione della vita scolastica e la minaccia tecnocratica incombente della sua trasformazione in puro addestramento pratico e professionale Recalcati ripropone (sulla scia del suo bel libro L’ora di lezione) una visione alta e disinteressata di scuola come luogo – lo chiama lui – di erotizzazione del sapere e della cultura. Erotizzare sapere e cultura significa per Recalcati non sostituire i contenuti delle discipline umanistiche e scientifiche con ‘educazioni’ spicciole né con più banali e brillanti argomenti à la page, bensì rendere desiderabili proprio quei contenuti spostando sempre più in là, con un metodo che definirei fondamentalmente socratico, il limite della conoscenza: suscitando cioè dubbi e interrogativi, stimolando la curiosità, promovendo la partecipazione emotiva e lo spirito critico. Il prof vero secondo Recalcati è (ha da essere) un portatore di luce. Un maestro. Uno che non si abbassa alla sottocultura di massa ma innalza i suoi studenti alla cultura autentica. Obiettivi ambiziosi ma fondamentali per salvaguardare e incrementare la qualità dell’insegnamento. Obiettivi che purtroppo la scuola reale e quella progettata (ed in fieri) dalle riforme ministeriali (ne ho scritto anche troppo) sembrano ignorare o addirittura contrastare.

La strada maestra indicata da Recalcati non è a mio avviso per niente affatto anacronistica né astratta, specie se pensiamo alla scuola liceale: se da decenni questa strada non viene più seguita questo accade da noi non per una inevitabile cambiamento imposto dai tempi ma per una precisa scelta politica e dirigenziale. Non è infatti soltanto la grigia burocratizzazione denunciata da Recalcati a depauperare la scuola e a deprimerne l’efficacia didattica ma sono anche e soprattutto, nella scuola ‘autonoma’, il trionfo, pilotato e caldeggiato dall’alto, dei progetti più balzani e peregrini sopra la programmazione disciplinare e l’invadenza sistematica di attività ludiche e promozionali in sostituzione (e a crescente discapito) della lezione ordinaria: proprio quella nella quale il prof dovrebbe illuminare gli allievi concentrandosi e concentrandoli sui tesori della sua materia. Invece la lezione ordinaria oramai viene additata con disprezzo dai soloni ministeriali come anticaglia sacrificabile a qualsiasi altra attività-paccottiglia-bigiotteria di quelle nominate sopra. Ma lasciamo stare…

Un altro scritto recente sulla scuola che, per contrasto, mi ha molto intrigato e spiazzato è stato un bel racconto di Monica Acito uscito un mese prima nell’inserto letterario dello stesso giornale (Tuttolibri/La Stampa del 12.08.23). Il racconto si intitola La buona educazione e la storia è narrata in prima persona da una immaginaria, giovane ma poco ‘motivata’ insegnante di scuola superiore, certa prof Macrì. Eccone qualche stralcio (e tenetevi forte…):

« Ritorno alla cattedra e ripren­do a sproloquiare su Dante, virtù e cono­scenza. Ormai non so più cosa sia manco la digni­tà, quando ti metti a fare questo mestiere fir­mi col sangue una clausola in cui rinunci a ogni tipo di rivendicazione di fierezza, intelligenza o altro; non so più nemmeno che cosa sia la vergogna, infatti riprendo a spiegare come se nulla fosse, tutto viene tamponato da una garza che è nascosta da qualche parte del mio corpo, mi passo un fazzoletto gigante sulla bocca umida dello stomaco, tutta la rabbia rimbalza in qualche parte di me che non conosco e poi riemerge di notte, mi risale sulla bocca sotto forma di fiotto acido oppure mi risale dal pube mentre sto facendo sesso, ma mi risale sotto forma di secchezza, blocco e siccità. […] Quando un docente riesce a gestire gli alunni, si dice che «sa tenere la classe». Io la classe non la so tenere, e quando io e Emilia Pinto, la docente di inglese, ci dia­mo il cambio, gli alunni si mettono tutti sull’attenti, sembrano soldatini di piombo, fiammiferi spenti che si mettono in piedi e la ossequiano. Con me, invece, fanno quello che voglio­no, perché io non so tenere la classe, e loro se ne accorgono: agli alunni non puoi na­scondere niente, ti entrano nel corridoio dei pensieri, edificano stanze nella tua mente e si ficcano nel letto pure mentre stai chiavando, ti fissano nella penombra men­tre lo stai prendendo in bocca, sono degli spiritelli cattivi a cui non posso celare nem­meno i miei pensieri più segreti, hanno gli occhi appuntiti e lucenti come quelli dei ro­ditori. Io non so più cosa fare con questi alunni, vedo le loro code che sgusciano ovunque, il sabato e la domenica non lavo­ro e rimango nel letto fino all’una, perché mi sento il canale di scolo dell’umanità, co­me se tutto il materiale di scarto del mondo si fosse calcificato sulla mia pelle e io fossi fatta di squame di nausea. Certi giorni mi chinerei sul cesso e mi metterei a vomitare ogni lettera del mio no­me e del mio cognome, mi metterei a vomi­tare i miei capelli, le mie ciglia, le pupille dei miei occhi liquefatti, tirerei lo sciacquo­ne e andrei a inquinare qualche oceano con quello che rimane di me. Io non ci voglio più entrare in classe, io non le voglio più sentire le mie colleghe che in sa­la docenti si organizzano per fare attività, la­vori di gruppo, cooperative learning, flipped classroom, proiezioni di video, uscite didatti­che, io non so insegnare, e sto facendo que­sto solo perché non so fare niente altro. […] Oggi Martina C. ha esagerato. Mentre spiegavo la latitudine e la longi­tudine nell’ora di geografia, per sbaglio ho confuso meridiani e paralleli perché l’ulti­ma per me è particolare: all’ultima ora, io in realtà non ci penso a cosa sto spiegando, perché non vedo l’ora di correre in macchi­na e fiondarmi nel mio monolocale, per ap­parare una bella piadina farcita di speck in offerta, mozzarella cruda, rucola in busta e maionese mischiata con la salsa barbecue, pure quella in offerta. «La Macrì non sa manco cosa sono i meri­diani e i paralleli, forse le manca la prima media»: Martina C. bisbiglia a Larisa, l’alunna nuova, e quando Martina C. bisbi­glia, sembra una piccola volpe. Larisa an­nuisce e Martina C. le dice, scandendo be­ne le parole «Lo tiene scritto in faccia che nemmeno stanotte ha scopato». Larisa ridacchia e mette un astuccio da­vanti al musetto, e Martina C. scandisce di nuovo bene le parole: «Se scopava, vedi co­me se li ricordava bene i meridiani e i paral­leli!», e Martina C. e Larisa fanno dei cerchi con le dita e dentro ci infilano dei pennarel­li, poi li tolgono e ce li infilano di nuovo, si mettono a stantuffare con le dita pensando che io non le veda.

Sconvolgente, no? E non certo (o non soltanto) per il linguaggio. Vorrei tanto che questa immaginaria prof.ssa Macrì non esistesse. Non fosse mai esistita se non nella testa della sua inventrice. Meglio: vorrei non essere mai stato – non essermi mai sentito – neanche un po’ come lei. Vorrei sentirmi solo ed unicamente come il prof di Recalcati. Ma mi trastullerei, da narciso, in un concetto del mio mestiere troppo alto per essere del tutto credibile. Mentirei con me stesso e con i lettori. Perché questa figura di prof, ahimè, come tutte le figure inventate dalla penna di uno scrittore degno di questo nome (e qui, secondo me, Monica Acito riesce ad esserlo), è più vera (= verosimile) di quelle reali. La sua prof è il contraltare (iper)realistico del prof ideale di Recalcati: è uno specchio crudo della condizione professionale e soprattutto sociale e psicologica dell’insegnante attuale. C’è un gioco rivelatore di specchi, appunto, in questo racconto: lo specchio torturante dello sguardo adolescente che trafigge l’amor proprio della prof inchiodandola a una immagine intollerabile di sé e quello della pagina scritta che riflette sul lettore, senza veli, il depresso e deprimente vissuto interiore dell’io narrante, la sua devastata autostima.

Il re è nudo. La prof Macrì, in senso fisico e metaforico, si sente e ci si mostra nuda. Ogni prof, d’altronde, quando entra in classe, è nudo. Non ha veli né armature né scudi. Deve mettersi in gioco per quello che è, non illudersi di cavarsela, oggi meno che mai, recitando bene una parte.

Se ubbidissi allo spirito di corpo e all’orgoglio di scuderia obietterei a Monica Acito le solite cose: che una prof scoppiata ed incapace come la Macrì non rappresenta quasi nessuno, che professionalmente la media degli insegnanti italiani è molto più preparata e dignitosa di lei ecc… ma anche se queste obiezioni d’ufficio avessero, come credo, un fondamento, sfido chiunque fra i miei colleghi a giurare di non essersi sentito mai, nemmeno una volta, in una condizione interiore simile a quella confessata dalla protagonista. Spergiurerebbe, perché purtroppo questo racconto coglie nel segno della micidiale asimmetria del rapporto docente-alunno. Una asimmetria che si è ingigantita, fino ad esplodere, negli ultimi decenni per il venir meno di ogni principio di autorità e per il concomitante precipitare della condizione professionale e della considerazione sociale dell’insegnante medio italiano. Un racconto così ci rappresenta in certa misura, tocca ammetterlo. È uno schiaffo salutare. Di quelli che solo la buona letteratura è capace di assestare. Perché solo l’onesto riconoscimento del peggio che ci abita e che ci circonda può permetterci di riscattarlo. Di camminare, nel nostro caso, nella direzione auspicabile, nobile e ideale ma tutt’altro che utopica, indicata da Recalcati.

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Un mondo, il nostro, dove tutti reclamano tutti i diritti, compreso quello di non avere doveri.

Un mondo, il nostro, dove tutto si fa per la fama, nulla per la gloria: fama ad ogni costo, gloria a nessun prezzo.

Un mondo, il nostro, dove a praticare l’anticonformismo, un tempo prerogativa degli intelligenti, sono sempre di più gli idioti. Più pericolosi, per altro, che inutili.

Un mondo, il nostro, di piazzisti. Vecchi, nuovi, nuovissimi, inediti. Per vocazione e per forza. Dichiarati o camuffati. Seguaci tutti di Ermes. Contafrottole, quasi tutti, più e meno spudorati. Cacciatori di clienti. Un mondo di piazzisti è deserto di certezze, disertato da Onestà e da Verità. Affollato dai fantasmi di Inganno, di Lusinga e di ardente ed occhiuta Fregatura. Un mondo dove chi può si difenda e si salvi, da solo.

In questo nostro mondo ogni piazzista, incontrando il cliente, sente di guardarsi allo specchio. E viceversa. In questo nostro mondo, insomma, cliente e piazzista siamo spesso la stessa persona: Dr. Jekyll e Mr. Hyde. Due personaggi e un interprete. Schizofrenico gioco delle parti. E quello che uno fa da piazzista non vuole certo che gli sia fatto da cliente, e viceversa… Qui sta il busillis.

In questo nostro mondo di piazzisti mai svegliare cliente che dorme. Anzi: mettergli possibilmente un bel sonnifero nelle crocchette.

La follia può talora essere innocente, mai innocua.

Chi vuole impórti un linguaggio vuole impórti un pensiero.

A forza di cucire addosso al(la) re(altà) tante belle vesti immaginarie non bisogna poi strapparsi le proprie se il primo (finto) scemo che capita ce ne sventola davanti a tutti, tra lo stupore e l’approvazione generale, la lampante e squallida nudità.

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Ricevo e pubblico volentieri la segnalazione della prossima presentazione del libro di Luca Bufarale Sebastiano Timpanaro. L’inquietudine della ricerca (Centro di documentazione Pistoia Editrice, 2023), presentazione che avverrà il prossimo mercoledì 6 settembre alle 21,30 presso il Circolo Arci di Recanati.

Quello di Luca Bufarale è un lavoro importante che colma una lacuna nella storiografia culturale del Novecento.

Sebastiano Timpanaro è stato infatti uno degli ingegni più versatili e al tempo stesso più rigorosi ed anticonformisti della filologia e della filosofia italiana del secolo scorso. Filologo di formazione e marxista convinto ma davvero poco allineato con l’evoluzione della sinistra politica italiana istituzionale del secondo Novecento, Timpanaro ha fornito in ogni campo di ricerca in cui ha operato, e pur senza mai far parte per scelta del mondo accademico ufficiale, contributi basilari ed imprescindibili per qualsiasi cultore di quelle discipline. La filologia classica, Giacomo Leopardi e l’Ottocento letterario italiano, il materialismo storico e dialettico, la critica alla psicoanalisi sono solo alcuni, forse i più importanti, campi di ricerca nei quali Timpanaro ha lasciato una impronta decisiva e non di rado fuori dalla traccia delle mode e delle tendenze culturali dei suoi tempi.

Bufarale ricostruisce con acribia ma anche con oculata e competente selettività prima la formazione umana e culturale del personaggio poi la sua vasta produzione saggistica articolandola, per capitoli, nei suoi filoni principali: dall’impegno politico agli appassionati studi leopardiani, fino alla produzione filosofica di atipica impronta marxista e alla argomentata polemica contro il freudismo. Il libro si chiude con una intervista al noto italianista Romano Luperini che offre una testimonianza diretta e una valutazione personale intorno a vari aspetti della personalità intellettuale dell’amico.

Pregio tra i molti della monografia di Bufarale mi pare particolarmente il confronto frequente con i testi dell’opera di Timpanaro: citazioni dirette anche consistenti intorno alle quali la trama complessa della biografia intellettuale del grande studioso si dipana con esemplare chiarezza espositiva.

Ne emerge ben delineata e centrale, a mio avviso, la compresenza complementare e dialettica di filologia e di filosofia militante. Proprio dalla perfetta e virtuosa interazione di queste due componenti della sua formazione e della sua personalità deriva, a mio parere, la peculiare grandezza di Sebastiano Timpanaro: chi legge le sue opere vi avverte costantemente un sostrato di inscalfibile onestà intellettuale, di vigile attenzione a privilegiare sempre il dato concreto dell’analisi rispetto all’amor di tesi e alla soggezione ideologica verso chicchessia. Il rispetto assoluto del filologo per i verba diventa un paradigma non solo metodologico ma anche conoscitivo per il filosofo materialista che indaga le res della storia, della condizione e della società umane. Dote, questa, davvero rara negli studiosi del settore umanistico. Si comprende meglio allora perché T. non riesca mai, pur dichiarandosi marxista, ad aderire tranquillamente alle tendenze dominanti del pensiero e della prassi politica della sinistra italiana dei suoi tempi.

Anzi il suo pensiero si sviluppa fino alla fine, come dice il sottotitolo, sull’onda di una inquietudine mai sopita che lo porta da un lato a integrare profondamente, in una sintesi pregnante e davvero inedita, il materialismo biologico e naturalistico di Leopardi con quello storico e dialettico del marxismo classico, di cui rifiuta ogni tendenza  (o tentazione) idealistica o utopistica; dall’altro questa inquietudine lo spinge spesso a polemizzare contro mode e correnti culturali (la psicoanalisi e lo strutturalismo) che egli considera di dubbia scientificità ma con cui la cultura marxista del secondo novecento ha spesso flirtato.

Studioso di implacabile fedeltà al metodo scientifico e pensatore eterodosso, realista ed antiideologico, Timpanaro ha avuto altresì sempre una precisa, lucida consapevolezza del mutare dei tempi attorno a lui e della direzione probabile degli eventi della storia. Si legga fra tutte una delle sue ultime riflessioni che risale alla fine degli anni Novanta e che Bufarale cita opportunamente a suggello della sua monografia:

« Se non sorgerà (per opera di giovani che dovranno superare ostacoli di ogni genere, rifarsi una cultura, non cadere in giovanilismi sessantotteschi di corto respiro ma nemmeno dar retta alle menzogne di vecchie volpi) un movimento comunista internazionale, l’umanità, certamente non destinata in nessun caso a vita eterna, morrà precocemente, e anche ai capitalisti, inutilmente vincitori, non rimarrà che morire di morte ecologica. »

Se togliamo a queste parole la piccola tara di un termine ormai anacronistico (comunista) è difficile negarne per tutto il resto la stupefacente, profetica lungimiranza.

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