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Posts Tagged ‘scuola’

« La scuola italiana è il regno della menzogna e finché resterà tale non potrà che peggiorare. Sulla carta tutto è previsto, tutto funziona, e alla fine tutti sono promossi. Ma la realtà [] è ben diversa. A cominciare ad esempio da quella che si cela dietro il mito dell’inclusione. In ossequio al quale nelle aule italiane — caso unico al mondo — convivono regolarmente, accanto ad allievi cosiddetti normali, ragazzi disabili anche gravi con il loro insegnante personale di sostegno (perlopiù a digiuno di ogni nozione circa la loro disabilità), poi ragazzi con i Bes (Bisogni educativi speciali: dislessici, disgrafici, oggi cresciuti a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie) e dunque probabili titolari di un Pdp, Piano didattico personalizzato, e infine, sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola d’italiano. Il risultato lo conosciamo.» (E.Galli della Loggia, Corriere della Sera, 12.01.2024)

Condivido in pieno. Spesso le esternazioni di Galli della Loggia sulla nostra scuola non mi entusiasmano affatto, perché le trovo troppo nostalgiche, preconcette e lontane da una conoscenza diretta della realtà attuale. Ma in questo caso la sua denuncia coglie nel segno. Anch’io, nel mio saggio autobiografico The dark side of the School, denuncio in termini molto simili la distanza tra apparenza (ufficiale, burocratica e propagandistica) e realtà effettuale della nostra istruzione. Drammatica distanza che fa il paio con quella, ancora più allarmante, direi ormai tragicamente scandalosa, della sanità pubblica. Si potrebbe dire che oggi un po’ tutto ciò che rimane del servizio pubblico sconta, in casa nostra, questa lacerante dicotomia fra apparire ed essere, intenzioni e realizzazioni, facciata e sostanza. Sarà sempre peggio, perché chi dovrebbe occuparsi del pubblico, cioè la politica, lo fa adoperandosi ormai unicamente, e spesso dichiaratamente, per la sua liquidazione a favore del privato. Salvo colmare poi la voragine di risorse materiali ed umane – che essa (politica) stessa ha scavato – con una montagna di retorica buonistica e solidaristica e/o cospargerla di un’aura (fritta) di innovazione aziendalistica e tecnocratica… Fuffa, schiuma verbale che nasconde a fatica, nel caso della scuola, la desolazione denunciata da Della Loggia. Per quanto in questa demolizione i vari governi si siano equivalsi ormai da parecchi decenni a questa parte, ritengo che la cosiddetta ‘sinistra’ abbia le responsabilità più gravi. In effetti mentre la destra, massacrando la scuola pubblica a favore di quella privata, non fa altro che realizzare con coerenza quello che promette, la sinistra (pur agendo sostanzialmente come la destra) è la parte che si adopera di più a nascondere, anziché a contrastare, lo scempio della nostra istruzione dentro la rosea nuvola di menzogna di cui sopra. Sarebbe certo una buona scuola quella dove i ragazzi con vari gradi di difficoltà o di deficit vengano selezionati e guidati, con percorsi mirati e insegnanti specializzati, verso un pieno ed autentico inserimento. In realtà non succede così: i ragazzi stranieri che non sanno ancora l’italiano vengono catapultati così come sono  in classi normali, anche di quarta o quinta superiore: “socializzando impareranno!” è il mantra, vale a dire: gettali in acqua e impareranno da soli a nuotare; e se poi dovessero affondare gli si lancerà una ciambella… Chi poi ha svantaggi oggettivi (e non sono tutti quelli che certificano di averli…) non viene aiutato a superarli con una didattica ad hoc, bensì soltanto facilitato – spudoratamente- esonerandolo da varie incombenze e spianandogli la strada comunque verso il pezzo di carta. Solo gli svantaggi più gravi ed evidenti si giovano del prof di sostegno, il quale però, per parte sua, è un semplice laureato in lettere o matematica che ha ricevuto in pochi mesi una impalpabile infarinatura di didattica “speciale”…   Classi, gruppi e (per)corsi differenziali sono stigmatizzati come il diavolo: guai a chi le nomina, discriminatore e razzista che non è altro! Eppure nella civilissima Germania essi esistono e come! Beninteso: nessun ragazzo deve essere ghettizzato, ma qualche ora o qualche periodo di separazione dalla classe di appartenenza per imparare meglio l’italiano o per seguire un insegnamento adatto ai suoi problemi non costituirebbe nessuno scandalo, anzi, potrebbe giovargli, in vista di un successivo inserimento, molto più che una prematura e forzata permanenza passiva (che talora diventa persino problematica e difficile, per lui e per gli altri) nel gruppo-classe. A occhi profani questa catechesi dell’inclusione può sembrare dettata da giustificati e nobilissimi motivi. In realtà, a guardar bene, essa è sostenuta da mere e bieche ragioni economiche: meno prof di sostegno e poco preparati, minori spese e minore impegno organizzativo per una didattica speciale e per corsi di lingua italiana… In compenso: anatemi e scomuniche gratuite verso quanti osino denunciare (per lo più qualche prof, più avveduto e coraggioso di altri) queste clamorose inefficienze mascherate da missione umanitaria.

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“…  didattica breve, didattica interdisciplinare, didattica delle competenze… Vediamo: che cosa possiamo inventarci adesso per giustificare gli extra che stanno per arrivarci in tasca… il capo dice che bisogna darci da fare per arraffare pure noi qualcosa … Dai, buttiamo un altro sasso in piccionaia! Diamogli in pasto, a quelli là, un altro di quei paroloni dei nostri, che suoni avanzato, pretenzioso, à la page; che li impaurisca ben bene, quelli là, ma che non dispiaccia al capo e ai suoi amici banchieri e confindustriali. Poi quelli là si arrangeranno, come sempre, a gratis. Armiamoci e partite! (ahahahah…) Che dici, va sempre tanto di moda l’orientamento: buttiamoci stavolta sulla “didattica orientativa”. Orientativa ai mestieri e al mercato del lavoro, s’intende, quella che tanto garba ai nostri amici della Fondazione… Che ne dici? Che è la solita pappa rimediata con la rigovernatura dei piatti, come quella di Gianburrasca? Che noi la spacciamo da anni sui nostri proclami cambiandole soltanto il nome? Eh, tranquillo, hanno tutti la memoria corta, nessuno se ne accorgerà! Suona troppo bene, perdinci, orientativo: moderno, aziendalistico, impattante, figo… abbastanza per mettere in soggezione e in agitazione tanti creduloni, ahahah… questo importa! Se poi quelli là ci chiedono (ma non lo faranno mai…) di spiegare concretamente che cos’è, diremo, come sempre, ai loro caporali e ai loro sindacati: che volete? C’è già una montagna di letteratura pedagogica su questo: la nostra anzitutto – quella dei nostri consulenti accademici e dei nostri formatori – ma pure in inglese, da anni! Il web ne pullula: saggi, articoli, webinar… e voi non la conoscete? E diffidate pure? Non sapete nemmeno, ignoranti, di che cosa si tratta? Che scandalo! E poi vorreste guadagnare come in Belgio o in Germania? Ma i prof belgi e tedeschi lo sanno bene di che cosa si tratta: figuratevi che già da vent’anni la mettono in pratica… [questa panzana, tranquillo, gliela possiamo impapocchiare perché della scuola belga e tedesca non sa un c… nessuno!] Vergogna! I professionisti dell’insegnamento siete voi… facciamo a capirci! Noi indichiamo la strada, «poi ogni istituto, con l’aiuto dei nostri tutor, la percorra con i mezzi che possiede e nei modi che crede: declini [bello eh: declini…, scrivi, scrivi, comincia ad appuntarti qualcosa per una ‘nota esplicativa ufficiale’, ihihih] declini l’orientamento didattico secondo lo spirito dell’autonomia » Che figata: declini… e poi: spirito! Sublime! Con tutto ‘sto latinorum qui parecchi di quelli se la faranno subito sotto! Siamo troppo forti!”

Intercettazione ambientale del tutto immaginaria (ma del tutto verosimile) captata da una talpa negli uffici di un certo Ministero… Chi avesse invece tempo da perdere o necessità (ahilui, non lo invidio..) di sapere seriamente di più di questa ennesima parola d’ordine inflitta con dolo e con danno alla nostra scuola per evidenti secondi fini e per indicibili guadagni, si rivolga altrove, perché il web ne pullula, appunto. Io invece oramai rinuncio a scalare certe altezze… De hoc satis. Per me parli il sergente Murtaugh di Arma letale: « Sono troppo vecchio per queste str…te!».

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La scuola è ricominciata da poco. E quando la scuola ricomincia se ne parla un po’, come da rito, sui media, così come se ne parla un po’ anche a giugno, al termine delle lezioni. Poi, per lo più, cala il silenzio, salvo occasioni eccezionali o pretestuose. Chiacchiere comunque scontate che non vale in genere la pena né di leggere né di commentare.

Quest’anno invece mi hanno colpito, per opposti motivi, un paio di cose uscite a breve distanza di tempo entrambe su La Stampa. La prima è un articolo dello psicoanalista Massimo Recalcati pubblicato l’11 settembre scorso e intitolato la scuola al via: gli insegnanti sono la luce. Ne riporto alcuni passaggi:

« Le norme grigie che strutturano il tempo scolastico (calendari, riunioni, programmi, valutazioni, ecc.) favoriscono la sua rappresentazione come una istituzione condannata a una ripetizione senza sorpresa. Un peso al collo o una condanna nel vissuto di molti studenti. Una incombenza necessaria in quello di molti insegnanti. Il processo di istituzionalizzazione della Scuola tende infatti a consumare anche i migliori. È quella che ho definito altrove l’anima grigia dei dossier, il feticismo del numero, l’assillo della quantificazione. […] Questa riduzione del sapere a un sapere morto scoraggia l’entusiasmo dell’apprendimento e ribadisce la sua separazione dalla vita. A cosa serve apprendere, studiare, sapere se poi l’impatto con la vita ne rivelerebbe fatalmente l’inutilità? La formazione scolastica sarebbe allora una perdita di tempo, un ritardare inutilmente l’inizio dell’attività lavorativa, come sostengono anche noti imprenditori del nostro paese? Dovremmo sempre, oggi più che mai, contro discorsi simili, ricordare la centralità della scuola non tanto come luogo di accumulo di informazioni, ma come luogo insostituibile di formazione. L’esperienza della Scuola non è solo esperienza di una routine mortifera, ma anche della luce del sapere: il sapere non è un libro morto, ma un libro vivo, non è una passione triste ma una passione erotica. Ma questa luce deve essere testimoniata da chi insegna. […] L’esperienza della luce richiede sempre dedizione, cura, attenzione. È quella che molti hanno avuto la fortuna di incontrare nei propri maestri. Diversamente, la distrazione svia da ogni possibile cura. Ecco la testimonianza difficile a cui sono tenuti i nostri insegnanti. Dare prova di una concentrazione che non sia una forma ottusa del rigore, ma una cura. Essere concentrati sulla propria pratica è, del resto, la sola salvezza possibile per non cadere in una ripetizione scolastica del sapere che stroncherebbe anche gli spiriti più nobili. È la solitudine inevitabile che accompagna ogni insegnante: restare concentrati sul proprio lavoro, restare prossimi alla cosa, non lasciarsi distrarre dai rumori del mondo.»

Parole sante, specie queste ultime. Contro la diffusa burocratizzazione della vita scolastica e la minaccia tecnocratica incombente della sua trasformazione in puro addestramento pratico e professionale Recalcati ripropone (sulla scia del suo bel libro L’ora di lezione) una visione alta e disinteressata di scuola come luogo – lo chiama lui – di erotizzazione del sapere e della cultura. Erotizzare sapere e cultura significa per Recalcati non sostituire i contenuti delle discipline umanistiche e scientifiche con ‘educazioni’ spicciole né con più banali e brillanti argomenti à la page, bensì rendere desiderabili proprio quei contenuti spostando sempre più in là, con un metodo che definirei fondamentalmente socratico, il limite della conoscenza: suscitando cioè dubbi e interrogativi, stimolando la curiosità, promovendo la partecipazione emotiva e lo spirito critico. Il prof vero secondo Recalcati è (ha da essere) un portatore di luce. Un maestro. Uno che non si abbassa alla sottocultura di massa ma innalza i suoi studenti alla cultura autentica. Obiettivi ambiziosi ma fondamentali per salvaguardare e incrementare la qualità dell’insegnamento. Obiettivi che purtroppo la scuola reale e quella progettata (ed in fieri) dalle riforme ministeriali (ne ho scritto anche troppo) sembrano ignorare o addirittura contrastare.

La strada maestra indicata da Recalcati non è a mio avviso per niente affatto anacronistica né astratta, specie se pensiamo alla scuola liceale: se da decenni questa strada non viene più seguita questo accade da noi non per una inevitabile cambiamento imposto dai tempi ma per una precisa scelta politica e dirigenziale. Non è infatti soltanto la grigia burocratizzazione denunciata da Recalcati a depauperare la scuola e a deprimerne l’efficacia didattica ma sono anche e soprattutto, nella scuola ‘autonoma’, il trionfo, pilotato e caldeggiato dall’alto, dei progetti più balzani e peregrini sopra la programmazione disciplinare e l’invadenza sistematica di attività ludiche e promozionali in sostituzione (e a crescente discapito) della lezione ordinaria: proprio quella nella quale il prof dovrebbe illuminare gli allievi concentrandosi e concentrandoli sui tesori della sua materia. Invece la lezione ordinaria oramai viene additata con disprezzo dai soloni ministeriali come anticaglia sacrificabile a qualsiasi altra attività-paccottiglia-bigiotteria di quelle nominate sopra. Ma lasciamo stare…

Un altro scritto recente sulla scuola che, per contrasto, mi ha molto intrigato e spiazzato è stato un bel racconto di Monica Acito uscito un mese prima nell’inserto letterario dello stesso giornale (Tuttolibri/La Stampa del 12.08.23). Il racconto si intitola La buona educazione e la storia è narrata in prima persona da una immaginaria, giovane ma poco ‘motivata’ insegnante di scuola superiore, certa prof Macrì. Eccone qualche stralcio (e tenetevi forte…):

« Ritorno alla cattedra e ripren­do a sproloquiare su Dante, virtù e cono­scenza. Ormai non so più cosa sia manco la digni­tà, quando ti metti a fare questo mestiere fir­mi col sangue una clausola in cui rinunci a ogni tipo di rivendicazione di fierezza, intelligenza o altro; non so più nemmeno che cosa sia la vergogna, infatti riprendo a spiegare come se nulla fosse, tutto viene tamponato da una garza che è nascosta da qualche parte del mio corpo, mi passo un fazzoletto gigante sulla bocca umida dello stomaco, tutta la rabbia rimbalza in qualche parte di me che non conosco e poi riemerge di notte, mi risale sulla bocca sotto forma di fiotto acido oppure mi risale dal pube mentre sto facendo sesso, ma mi risale sotto forma di secchezza, blocco e siccità. […] Quando un docente riesce a gestire gli alunni, si dice che «sa tenere la classe». Io la classe non la so tenere, e quando io e Emilia Pinto, la docente di inglese, ci dia­mo il cambio, gli alunni si mettono tutti sull’attenti, sembrano soldatini di piombo, fiammiferi spenti che si mettono in piedi e la ossequiano. Con me, invece, fanno quello che voglio­no, perché io non so tenere la classe, e loro se ne accorgono: agli alunni non puoi na­scondere niente, ti entrano nel corridoio dei pensieri, edificano stanze nella tua mente e si ficcano nel letto pure mentre stai chiavando, ti fissano nella penombra men­tre lo stai prendendo in bocca, sono degli spiritelli cattivi a cui non posso celare nem­meno i miei pensieri più segreti, hanno gli occhi appuntiti e lucenti come quelli dei ro­ditori. Io non so più cosa fare con questi alunni, vedo le loro code che sgusciano ovunque, il sabato e la domenica non lavo­ro e rimango nel letto fino all’una, perché mi sento il canale di scolo dell’umanità, co­me se tutto il materiale di scarto del mondo si fosse calcificato sulla mia pelle e io fossi fatta di squame di nausea. Certi giorni mi chinerei sul cesso e mi metterei a vomitare ogni lettera del mio no­me e del mio cognome, mi metterei a vomi­tare i miei capelli, le mie ciglia, le pupille dei miei occhi liquefatti, tirerei lo sciacquo­ne e andrei a inquinare qualche oceano con quello che rimane di me. Io non ci voglio più entrare in classe, io non le voglio più sentire le mie colleghe che in sa­la docenti si organizzano per fare attività, la­vori di gruppo, cooperative learning, flipped classroom, proiezioni di video, uscite didatti­che, io non so insegnare, e sto facendo que­sto solo perché non so fare niente altro. […] Oggi Martina C. ha esagerato. Mentre spiegavo la latitudine e la longi­tudine nell’ora di geografia, per sbaglio ho confuso meridiani e paralleli perché l’ulti­ma per me è particolare: all’ultima ora, io in realtà non ci penso a cosa sto spiegando, perché non vedo l’ora di correre in macchi­na e fiondarmi nel mio monolocale, per ap­parare una bella piadina farcita di speck in offerta, mozzarella cruda, rucola in busta e maionese mischiata con la salsa barbecue, pure quella in offerta. «La Macrì non sa manco cosa sono i meri­diani e i paralleli, forse le manca la prima media»: Martina C. bisbiglia a Larisa, l’alunna nuova, e quando Martina C. bisbi­glia, sembra una piccola volpe. Larisa an­nuisce e Martina C. le dice, scandendo be­ne le parole «Lo tiene scritto in faccia che nemmeno stanotte ha scopato». Larisa ridacchia e mette un astuccio da­vanti al musetto, e Martina C. scandisce di nuovo bene le parole: «Se scopava, vedi co­me se li ricordava bene i meridiani e i paral­leli!», e Martina C. e Larisa fanno dei cerchi con le dita e dentro ci infilano dei pennarel­li, poi li tolgono e ce li infilano di nuovo, si mettono a stantuffare con le dita pensando che io non le veda.

Sconvolgente, no? E non certo (o non soltanto) per il linguaggio. Vorrei tanto che questa immaginaria prof.ssa Macrì non esistesse. Non fosse mai esistita se non nella testa della sua inventrice. Meglio: vorrei non essere mai stato – non essermi mai sentito – neanche un po’ come lei. Vorrei sentirmi solo ed unicamente come il prof di Recalcati. Ma mi trastullerei, da narciso, in un concetto del mio mestiere troppo alto per essere del tutto credibile. Mentirei con me stesso e con i lettori. Perché questa figura di prof, ahimè, come tutte le figure inventate dalla penna di uno scrittore degno di questo nome (e qui, secondo me, Monica Acito riesce ad esserlo), è più vera (= verosimile) di quelle reali. La sua prof è il contraltare (iper)realistico del prof ideale di Recalcati: è uno specchio crudo della condizione professionale e soprattutto sociale e psicologica dell’insegnante attuale. C’è un gioco rivelatore di specchi, appunto, in questo racconto: lo specchio torturante dello sguardo adolescente che trafigge l’amor proprio della prof inchiodandola a una immagine intollerabile di sé e quello della pagina scritta che riflette sul lettore, senza veli, il depresso e deprimente vissuto interiore dell’io narrante, la sua devastata autostima.

Il re è nudo. La prof Macrì, in senso fisico e metaforico, si sente e ci si mostra nuda. Ogni prof, d’altronde, quando entra in classe, è nudo. Non ha veli né armature né scudi. Deve mettersi in gioco per quello che è, non illudersi di cavarsela, oggi meno che mai, recitando bene una parte.

Se ubbidissi allo spirito di corpo e all’orgoglio di scuderia obietterei a Monica Acito le solite cose: che una prof scoppiata ed incapace come la Macrì non rappresenta quasi nessuno, che professionalmente la media degli insegnanti italiani è molto più preparata e dignitosa di lei ecc… ma anche se queste obiezioni d’ufficio avessero, come credo, un fondamento, sfido chiunque fra i miei colleghi a giurare di non essersi sentito mai, nemmeno una volta, in una condizione interiore simile a quella confessata dalla protagonista. Spergiurerebbe, perché purtroppo questo racconto coglie nel segno della micidiale asimmetria del rapporto docente-alunno. Una asimmetria che si è ingigantita, fino ad esplodere, negli ultimi decenni per il venir meno di ogni principio di autorità e per il concomitante precipitare della condizione professionale e della considerazione sociale dell’insegnante medio italiano. Un racconto così ci rappresenta in certa misura, tocca ammetterlo. È uno schiaffo salutare. Di quelli che solo la buona letteratura è capace di assestare. Perché solo l’onesto riconoscimento del peggio che ci abita e che ci circonda può permetterci di riscattarlo. Di camminare, nel nostro caso, nella direzione auspicabile, nobile e ideale ma tutt’altro che utopica, indicata da Recalcati.

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Ogni tanto il solito giornalista o opinionista di grido getta il sasso nello stagno della scuola italiana. Sia chiaro: meglio parlarne che tacerne. Ma gli interventi di questi personaggi, con tutte le buone intenzioni che possono ispirarli, mi suonano parecchio sgangherati, da orecchianti, per intenderci. Lontani, comunque, molte miglia dalla realtà effettuale. Beppe Severgnini ha gettato il suo sasso dal Corriere, con il lodevole scopo di accendere i riflettori sulla nostra scuola liceale, sul classico in particolare, e ravvivare il dibattito intorno al suo attuale stato di salute.

Ho scritto parecchio su questo blog e nei miei libri intorno al liceo classico. Avendolo frequentato, da studente prima e da prof poi, per quasi mezzo secolo, credo di averlo fatto con cognizione di causa, ed anche perciò in maniera realistica, anticonvenzionale, tutt’altro che oleografica.

Severgnini dice del liceo classico cose, mi pare, piuttosto generiche e un po’ contraddittorie.

Prima, pensando forse al vecchio liceo dei suoi (e dei miei) tempi, dice che è una palestra formidabile dove esercitarsi strenuamente da adolescenti, prima di gareggiare da adulti. Sottintende con evidenza la metafora della ginnastica, dell’allenamento duro che prepara all’agonismo sportivo. Se ricordasse un po’ del greco antico aggiungerebbe magari che la parola palàistra (così come certi verbi attinenti agli esercizi che vi si svolgono, come ponèo o askèo) ha a che fare con la fatica e la lotta fisicamente intese, rimanda quindi, come metafora, ad una idea di sacrificio, di impegno, di sudore assidui, necessari nel presente per poter attingere a risultati futuri. Ma fin qui sarei molto d’accordo con lui. Un punto di forza del classico è (ancora) l’attitudine di diversi alunni che vi si iscrivono e di molti prof che vi insegnano a studiare e a lavorare seriamente, creando così l’habitat più adatto a maturare un metodo e una preparazione che trascendono le nozioni delle singole discipline.

Poi però, inspiegabilmente, Severgnini infierisce proprio contro gli insegnanti attuali del classico accusandoli di mortificare ancora oggi gli studenti con l’imposizione di un ingrato e anacronistico carico di lavoro, di uno studio “matto e disperatissimo”.

Qui Severgnini, oltre che contraddirsi, sbaglia di grosso. Va decisamente fuori bersaglio. Il classico degli ultimi due/tre decenni, infatti, non è più quello che io e Severgnini abbiamo frequentato. Allora quella palestra era molto più dura ed era fatta principalmente di greco e di latino: cioè di esercizio stremante e apparentemente ingrato e inattuale (soprattutto nel primo biennio) perché concentrato in gran parte sulle lingue antiche e sulla traduzione dei loro classici. Allora forse si poteva parlare (ma fino a un certo punto, senza generalizzare) di studio ‘matto e disperatissimo’, imposto ancora in modi un po’ autoritari ed ottocenteschi: cinque ore di scuola la mattina e altrettante (se non di più) di compiti pomeridiani.

Oggi chi frequenta seriamente il classico deve ancora studiare abbastanza, è vero. Ma intanto non si esige più, come ai tempi miei e di Severgnini, di farlo altrettanto seriamente. La selezione allora – lo ricordo bene – era spietata. Oggi il tasso di respinti e ‘riorientati’ dal classico verso altre scuole è irrisorio rispetto a quei tempi. E soprattutto studiare oggi al classico (per chi vuole ancora farlo sul serio) risulta gravoso sì, ma per ben altri motivi. Non certo perché ci siano ancora al classico, come li chiama Severgnini, prof ‘cattivi’, sadici Kapò che si incarogniscono contro i ragazzi torturandoli con uno studio disumano fatto di polverose nozioni e di regolette di grammatica. Tutt’altro… Se esistessero ancora, questi prof finirebbero subito impallinati dalle famiglie, verrebbero subissati di proteste e di esposti alla presidenza e neutralizzati quanto prima dai dirigenti scolastici. Il metodo dirigenziale, che gli addetti ai lavori conoscono bene, è quello infallibile della “spalmatura” dell’eventuale prof ‘fanatico’ su molte classi contemporaneamente e su piccoli spezzoni di orario, condannato cioè a insegnare solo geografia o geostoria (magari) in molte sezioni o, meglio ancora, esiliato in qualche innocuo progetto extracurricolare.

I tempi sono cambiati. Uno studente del classico di oggi non passa più tutti i santi pomeriggi a studiare senza poter fare altro. Anche perché lui, il ragazzo di oggi, anche il più volenteroso, ha molto più da fare, di pomeriggio, rispetto a noi, ragazzi di allora: ha la sua ora di palestra, di allenamento, di musica, di attività ricreativa programmata ecc.; ma soprattutto dedica un’enormità di tempo al suo smartphone, cazzeggiando per ore coi suoi amici sui social o girovagando sul web.

E allora perché chi frequenta il classico lamenta ancora, oggi forse più di prima, il peso di uno studio opprimente, eccessivo rispetto ad altre scuole? Semplice, direi, per due motivi.

Primo: il classico di oggi, grazie alle ‘riforme’ ministeriali e all’autonomia, ha aggiunto al latino e al greco una enormità di apprendimenti e di attività ulteriori e collaterali ‘moderni’ che non esistevano ai nostri tempi. Il classico non è più da tempo la vecchia scuola (coi suoi pregi e i suoi limiti) incentrata soltanto sul latino e sul greco. Molti ragazzi, proprio perciò, non ce la fanno oggettivamente a reggerne tutto il peso. In genere (come ho già scritto altrove) si arrangiano, cercano varie scorciatoie (la più nota è, per latino e greco, la copiatura acritica, di sana pianta, dal web di frasi e di versioni già tradotte) e così eludono il momento più importante ed efficace dello studio, che è la fatica della rielaborazione lenta, metodica e personale di quello che hanno appreso in classe.

Secondo: il peso dello studio viene avvertito (‘percepito’) oggi anche e soprattutto soggettivamente, cioè in relazione al tempo che si è disponibili, oggi rispetto a ieri, a concedergli. Ai nostri tempi sei ore pomeridiane potevano ben essere occupate da quattro/cinque ore di studio più una o al massimo due di oratorio o di passeggiata. Oggi ben oltre la metà almeno di quelle sei ore sono dedicate a interessi e attività extrascolastici che spesso non si è minimamente disposti (a ragione o a torto) a sacrificare a favore dell’impegno richiesto da una scuola liceale. E il peso più gravoso, si sa, è quello che non si desidera portare…

[PS.: Ringrazio Severgnini per aver linkato nella sua rubrica Italians questo mio post alcuni giorni fa:https://italians.corriere.it/2023/02/14/lettera-liceo-classico-i-tempi-sono-cambiati/ ]

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Volentieri ricevo e volentieri diffondo. Fulminante, matematica foto della parabola della nostra scuola superiore negli ultimi cinquanta anni. Senza neanche troppa esagerazione. E senza bisogno di ulteriori commenti…

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Ogni governo partorisce e battezza ministeri a suo capriccio. Ovvero a propria immagine e somiglianza. Però non mi è del tutto chiaro perché Istruzione sia adesso gemellata con Merito. Merito di chi e per che cosa? Degli studenti per il proprio talento e/o la propria applicazione allo studio? Pleonastica sottolineatura, nel caso: per quanto a manica slabbrata e con inflazione numerica galoppante, infatti, bene o male la distinzione tra geni, bravi e mediocri la nostra scuola la registra ancora. Merito dei prof per aver superato il concorso a pieni voti? O per essersi aggiornati alle ultime astruserie buro-pedagogiche? O per essersi accollati con fervore tutte le corvée logistico-promozionali della scuola autonoma? Mistero, al momento fitto, tenebroso. Si vedrà. Mi è chiaro invece che Merito sarebbe andato perfettamente a braccetto con un altro ministero: quello dell’Università. Messo lì accanto sarebbe stato un bel proposito e un bell’impegno per il nascente governo: un bel merito davvero, se promessa ed impegno fossero stati poi mantenuti… Ecco perché l’operazione non mi convince. Non solo perché è stato ratificato a parole un matrimonio che era già una, per quanto logora e sgangherata, unione di fatto, ma soprattutto perché non è stato nemmeno annunciato quell’altro matrimonio che da troppo tempo s’avrebbe da fare (meglio: da consumare): quello tra la nostra accademia e il merito, da sempre sposi promessi e mancati. Temo bisognerà aspettare ancora, per chissà quanti governi, fino alla ricostituzione completa dei ghiacci dell’artico e della foresta amazzonica…

Due giorni fa alla tv si parla di scuola in un salotto librario radical chic. Ospiti due insegnanti, entrambi – rigorosamente! – della stessa identica parrocchia pedagogica ed entrambi del genere “abbastanza famoso”. Perché se non è anche giornalista o scrittore o cantautore di una certa fama il comune prof non ha diritto di parola nei media di casa nostra. Entrambi (ma uno dei due soprattutto) le sparano grosse, forti della mancanza di contraddittorio, a parte un paio di timide obiezioni che l’intervistatore muove per dovere di ruolo. Sento dire dai due che la scuola di adesso va cambiata perché è troppo selettiva (?), perché è classista (!), perché è nozionistica (?!), perché è cattedratica e frontale (sob!), perché non esce dalle aule (wow…), perché i prof non seguono i dettami della pedagogia più aggiornata ma si incaponiscono a insegnare le proprie materie (sig!)…. E penso: in quale scuola insegnano mai questi due? E contro quale scuola mai si stanno scagliando?  Forse vivono ancora negli anni cinquanta e sono atterrati in tv con la macchina del tempo! Forse sono ologrammi o animazioni della propaganda ministeriale. Forse sono figure della realtà aumentata e rovesciata, e io mi trovo già nel futuro metaverso di raistoria…

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THE DARK SIDE OF THE SCHOOL è stato segnalato oggi nella rubrica del Domenicale del Sole 24h curata da Gino Ruozzi.

Inoltre è contemporaneamente uscita una mia breve intervista in merito nel sito NellaNotizia: https://www.nellanotizia.net/scheda_it_116797_Intervista-a-Paolo-Mazzocchini_1.html

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Il libro di Ricolfi e Mastrocola, un danno per il lettore e per la verità

Più di un quarto di secolo fa – era il 1996 e io ero (ancora) un prof abbastanza giovane e speranzoso – davanti a una scuola della mia zona stavo raccogliendo firme contro la legge, da poco varata dal primo governo Berlusconi, che aboliva gli esami di riparazione. Quel provvedimento mi pareva scandaloso perché cancellava di colpo nella valutazione dei ragazzi le differenze tra promossi e rimandati, tra sufficienze e insufficienze, tra merito e demerito: legalizzava pertanto dei falsi in atto pubblico. Ero preso in quei giorni dal fuoco sacro della protesta e andavo cercando a destra e a manca proseliti per la mia nobile causa, quando… quando un collega più anziano che conoscevo appena mi si avvicinò, lesse le motivazioni della raccolta di firme, firmò, poi aggiunse laconico, con un’espressione facciale indefinibile, tra l’ironico e il compassionevole, ma con un soffio di rabbia triste e malamente trattenuta tra le labbra: «Caro collega, mi disse, bisogna rassegnarsi: siamo un parcheggio!» Stop. Non aggiunse altro e se ne andò.

Leggendo il recente saggio di Paola Mastrocola (scritto col marito Luca Ricolfi), Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza (La Nave di Teseo, 2021), mi è balzata in mente più volte questa scena. Non perché io non condivida molto (come sempre) di questa ennesima, lucida e accorata denuncia della collega e scrittrice intorno ai mali vecchi e nuovi della nostra povera scuola. Anzi, nutro verso l’autrice (e in questo caso la estendo anche al consorte-coautore) particolare gratitudine. Perché senza la sua testimonianza nessuno si accorgerebbe di noi. Di noi, intendo, i pochissimi irriducibili rimasti a reclamare, o meglio a ‘desiderare’(etimologicamente) una scuola superiore ancora seria e culturalmente qualificata. La Mastrocola ha saputo sfruttare a dovere la sua fama letteraria per farla sentire a molti, la nostra voce. Non solo la sua. Purtroppo però, come succede a certi eroi della tragedia greca (penso ad Antigone in particolare), quando si testimonia al mondo il più sacrosanto dei valori capita di essere vilipesi, infangati e calpestati, specie se ci si scontra con un potere che gode di un consenso molto esteso. Nel nostro caso capita immancabilmente di essere screditati da quel potere come protervi, ottusi e frustrati reazionari. Come fossimo briganti sanfedisti che tentano di disturbare i manovratori della gioiosa macchina da guerra dell’istruzione moderna per sabotarne le magnifiche realizzazioni. Non si concede alle nostre prese di posizione neanche il beneficio della dignità morale, né della autenticità testimoniale. Insomma, siamo messi persino peggio di quei soldati o quegli ufficiali valorosi di cui narrano Cesare o Sallustio o Livio: quelli che di fronte alla sconfitta ormai compiuta del proprio esercito si gettano eroicamente in medios hostes, nel folto dello schieramento avversario, cercandovi una morte certa ma gloriosa. Perché almeno a quei combattenti antichi si riconosceva unanimemente il rispetto dei loro ideali o l’onore delle armi…

I nostri avversari sono un esercito imponente. Un esercito che monta la guardia da un trentennio ormai attorno al cantiere di demolizione (sempre aperto) della scuola italiana. Un esercito armato fino ai denti, che se la ride delle azioni di disturbo di una pattuglia striminzita e mal equipaggiata come la nostra. L’invincibile armata nemica schiera infatti una formidabile artiglieria ideologica e una variegata ma compatta compagine di forze alleate: pedagoghi di stato e funzionari del ministero, dirigenti scolastici, partiti politici (tutti, praticamente…), poteri economici e mediatici forti, gran parte delle famiglie degli studenti e infine, ahinoi, persino una bella fetta dei nostri colleghi insegnanti… Contro la Grande Coalizione Pedagogica aziendal/ progressista non c’è per noi, sic stantibus rebus, speranza di vittoria.

Retorica militare e metafore bellicose a parte: questa volta nel raccontare le sue esperienze e nell’esternare le sue considerazioni controcorrente Paola Mastrocola si è fatta aiutare, come dicevo, dal marito Luca Ricolfi, che è sociologo e docente universitario e che porta a conforto delle affermazioni di lei statistiche e inchieste fitte di dati e di tabelle. È stata una buona idea: così i nostri avversari (ho pensato subito, e lo stesso avranno pensato i due autori nel progettare il libro) la smetteranno una buona volta di dire che i nostalgici della scuola di qualità si aggrappano solo a ideali astratti e superati, a esperienze individuali e a valutazioni soggettive, senza il riscontro positivo delle moderne scienze umane e sociali.

In realtà i nostri avversari non si fermano di fronte a nulla. Non si fermano perché la loro guerra è (o vuole apparire) soprattutto una guerra di religione. E infatti eccoli sparare subito a zero, dalle postazioni di varie riviste online “progressiste”, non solo contro la Mastrocola ma anche – ovviamente – contro il suo consorte. Riporto solo un paio di link tra molti altri che stroncano a colpi di anatema il libro, accusandolo di lesa maestà ideologica, senza mai confrontarsi concretamente con i dati di fatto che esso riporta: https://www.minimaetmoralia.it/wp/altro/come-non-conoscere-o-non-capire-nulla-della-scuola-democratica-ovvero-il-danno-che-provocano-le-confuse-opinioni-di-luca-ricolfi-e-paola-mastrocola/ https://www.ilbenecomune.it/2021/11/29/la-teoria-del-danno-scolastico-ecco-perche-non-regge-la-tesi-di-ricolfi-e-mastrocola/

Taccio del tutto sui pochissimi recensori che invece lo elogiano, perché si tratta quasi sempre di finti simpatizzanti della nostra causa, cioè di astuti pennivendoli interessati soltanto a strumentalizzarla politicamente: spudorata strumentalizzazione, perché la parte politica che costoro rappresentano è di fatto, e nemmeno tanto segretamente, alleata da anni della Grande Coalizione… D’altra parte solo se si è ingenui o in malafede si può credere che lo sfascio della scuola dell’ultimo trentennio sia da addebitare esclusivamente alla “sinistra progressista” (uso a ragion veduta le virgolette…). La quale “sinistra” porta certamente una buona metà, forse anche di più, delle responsabilità del degrado della nostra istruzione perché ha coperto e giustificato ideologicamente (spalmandola con una vernice di efficientismo e intridendola di una melassa catto-socialista) la sua metamorfosi pseudo-aziendalistica e mercantilistica. Ma questa metamorfosi è, nella sua essenza, intimamente di destra, quantomeno di quella destra neo-liberale e ultraliberista che negli ultimi venticinque anni ha (s)governato anch’essa molto a lungo e soprattutto ha egemonizzato i media e l’opinione pubblica, contaminando e seducendo ampi settori della sinistra.

Per parte mia assolverò presto il mio debito di riconoscenza verso questa ennesima testimonianza di Paola Mastrocola dedicandole in altra sede una recensione più seria, oggettiva e articolata. Meno ondivaga, sentimentale e agrodolce, insomma, di questo post.

Il fatto è che parlare di scuola, difendere le mie (le nostre) convinzioni sulla scuola, mi appassiona ancora, sì, ma da un po’ mi immalinconisce anche abbastanza. Perché vedo che le nostre file, già esigue, si assottigliano ahimè sempre di più. I pochissimi resistenti invecchiano (sia la Mastrocola che il sottoscritto e diversi altri sono ormai in pensione). E i non molti nostri simpatizzanti ancora in attività per lo più tacciono di fronte ai megafoni della Grande Coalizione: un po’ per convenienza, forse, e un po’ forsanche perché sopraffatti precocemente dal mio stesso malinconico scetticismo. Così faceva, del resto, di fronte ai proclami e ai gesti eroici della sorella Antigone anche Ismene: consentiva ma taceva. Così fece anche quel mio collega di cui parlo all’inizio: firmò la petizione, poi, triste e silenzioso, salutò e girò i tacchi. Non senza aver sibilato prima tra i denti la sua tremenda sentenza: siamo un parcheggio!

PS del 02.02.2022: l’articolo-recensione che annunciavo sopra è uscito oggi nella rivista online Limina: https://www.liminarivista.it/comma-22/chi-ha-prodotto-il-danno-scolastico-riflessioni-sulla-crisi-della-nostra-scuola/

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Covid-19: Prestiti alle imprese nel collo di bottiglia della burocrazia e  di un credito con tanti banchieri e pochi bancari | Nens | nuova economia  nuova società

Sono andato ieri prima in banca e poi in un ufficio comunale e ho trovato: file rigorosamente distanziate all’esterno, entrata uno alla volta, impiegati protetti da alti schermi di plexiglas… Insomma: tutte le cautele possibili (e comprensibili) in questa fase di nuovo critica della pandemia. Che cosa mi raccontano invece colleghi che insegnano nei licei? Classi superaffollate come sempre, nessun distanziamento, ammucchiate incontrollabili nei cambi d’ora (lascio immaginare i trasporti scolastici); quarantene ormai continue di intere classi per casi positivi con conseguente Dad… Insomma: c’è chi si difende al meglio e chi invece lavora mandato allo sbaraglio. Ora la situazione reale della scuola prima e durante la pandemia purtroppo la conosciamo tutti (anche se fingiamo di ignorarla). Quello che personalmente non digerisco è che alla base di tutto questo non c’è tanto un nobile motivo pedagogico (“la scuola non si deve mai fermare”) quanto l’opportunismo inerte e demagogico di governi che, pur di non disturbare le comodità delle famiglie, non ha nemmeno imposto alla scuola quella che poteva essere la misura più ovvia e sensata, oltre che davvero responsabilizzante ed educativa, quantomeno per i ragazzi delle superiori: il possesso del green pass per poter frequentare le aule con maggior tranquillità. Quelli che inneggiano in maniera astratta ed incondizionata alla sacralità delle lezioni in presenza dovrebbero prima capire che populismo giovanilistico e educazione dei giovani non sono per niente la stessa cosa. E che confonderli comporta, anche con le migliori intenzioni, i peggiori disastri.

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Costruire il futuro 2017/2018 | Cos'è la Scienza? Come progredisce? |  19.12.2017 | Fondazione per la Scuola

Scrivevo in un post di alcuni anni fa che negli ultimi decenni il senso della parola libertà è profondamente cambiato in peggio. Si è snaturato. Nel novecento infatti, dopo le esperienze tragiche dei totalitarismi, nel linguaggio politico e sociale libertà significava soprattutto la condizione di chi non è schiavo né assoggettato a qualsiasi dominio prevaricatore o dispotico. Già nell’Italia degli ultimi venticinque anni, tuttavia, lo stesso termine ha cominciato a campeggiare sui vessilli e nella propaganda di vari partiti politici nel più ambiguo significato di licenza, arbitrio, diritto di fare ciò che si vuole a dispetto del bene collettivo e del rispetto della legalità. Ora la pandemia ha fatto il resto. Come succede spesso nelle situazioni di grave emergenza, il covid ha portato inequivocabilmente in superficie (nei media e nelle piazze) il fondo semantico nuovo ed impuro che si nascondeva sotto la vecchia e nobile etichetta verbale.

Non è difficile capire, per altro, che cosa abbia provocato la mutazione semantica del termine. La nuova libertà è figlia della società dei consumi e dell’individualismo edonistico sfrenato generato prima dal boom economico degli anni sessanta e nutrito poi dal liberismo ideologico trionfante degli anni ottanta e novanta: quello – per capirci – che ha trascinato il pianeta verso tutte le catastrofi (economica, ecologica, sanitaria) che incombono oggi sul nostro immediato futuro.

Colpisce tuttavia (ma non stupisce) che i crociati di questa nuova libertà rappresentino ancora, sopra i loro scudi e sui loro stendardi, il nuovo idolo secondo la vecchia e più rispettabile immagine originaria. Dichiarano infatti per lo più che la libertà che idolatrano è un valore prezioso minacciato da un qualche oscuro disegno totalitario: una sorta di complotto (?!) politico-plutocratico insomma che, con la scusa di difendere la gente dal virus, vorrebbe imporre a tutti il guinzaglio di regole e di divieti liberticidi.

Ora è chiaro come il sole che questa difesa a spada tratta della libertà (intesa come licenza di continuare a vivere beatamente spaparazzati dentro l’occhio del ciclone di una tragedia immane) riposa sopra una gigantesca rimozione dei limiti insuperabili della condizione umana. Limiti che la corruzione edonistico-consumistica degli ultimi decenni hanno reso ormai impercettibili e perciò inaccettabili alla coscienza di molti individui.

È chiaro altresì come questi strenui fautori della libertà/licenza abbiano razionalizzato, rimuovendola e nobilitandola in ideologia antiscientifica inscalfibile, la propria difficoltà psicologica di accettare il principio di realtà e di affrontare e di elaborare da persone adulte la paura della privazione, della sofferenza e della morte.

È chiaro anche e più che comprensibile che a questi oltranzisti del principio del piacere guardino con interesse e simpatia, oltre che le solite forze politiche di cui sopra, anche numerose categorie sociali concretamente e talora duramente danneggiate dal virus sul piano economico

Non riesco invece, proprio per nulla, a comprendere come tra i simpatizzanti o addirittura tra i fiancheggiatori di questi irriducibili possano esserci insegnanti e dirigenti della scuola pubblica. Perché pare proprio, ahinoi, che ce ne sia qualcuno in giro. Pochissimi, per fortuna – almeno a quanto mi risulta. Ma pur sempre troppi, a mio avviso. Un insegnante e, ancora peggio (vista la sua posizione dirigenziale), un preside non possono infatti in nome di questa strana e malintesa libertà negare l’autorevolezza e il primato della scienza. Parlo della Scienza autentica (perciò ufficiale), quella galileiana, per intenderci a scanso di equivoci. Non possono negarli, perché chi insegna e chi dirige la scuola ha tra i suoi compiti deontologici primari quello di preparare i giovani a diventare uomini e cittadini adulti. Di emanciparli cioè in maniera critica da quella condizione di sudditanza agli istinti, al pressapochismo culturale, alla seduzione delle mode, della pubblicità e delle ideologie che la società attuale, attraverso mille canali, esercita su di loro. Chi insegna e chi dirige la scuola di questi tempi ha insomma il compito ingrato di immunizzare i giovani dai molti rischi della massificazione. E io non vedo (pur essendo un letterato) come oggi la scuola possa riuscire in questo compito senza affidarsi principalmente alla scienza e al suo  metodo.

La scienza galileiana svolge il ruolo principale in questa educazione, proprio perché insegna a distinguere la sfera dell’opinabile da quella dello scibile: quella sfera nella quale qualcosa si può affermare solo sulla base di una esperienza riproducibile e di una rigorosa dimostrazione. Un qualcosa cioè che non può essere confutato da nessuna idea opinabile ma soltanto da un’altra esperienza e dimostrazione contraria altrettanto riproducibile e rigorosa. Un metodo che vale per le varie scienze matematiche e naturali, ma che dovrebbe, per quanto possibile, essere applicato anche nelle varie discipline umanistiche, se non si vuole insegnarle in maniera dilettantesca.

Perché questo è il guaio della nostra epoca: il primato schiacciante, multiforme e pervasivo del marketing ha prodotto il trionfo totale di una nuova sofistica: il dominio cioè della persuasione, della chiacchiera e del vacuo debate a scapito della vera conoscenza.

Ma già gli antichi sapevano che tra opinione e verità scientifica c’è un abisso.

Dovrebbero saperlo ed accettarlo anche tutti quanti gli insegnanti e i dirigenti della nostra scuola pubblica se vogliono continuare a esercitare legittimamente il proprio mestiere.

[ NB: Qualche doverosa puntualizzazione aggiuntiva:

1) è chiaro che bisogna distinguere tra conoscenze scientifiche e le conseguenti applicazioni operative adottate da governi e amministrazioni varie: queste ultime sono ovviamente discutibili da molti punti di vista, soggette perciò al libero dibattito politico.

2) Se la scienza in sé è neutra e non opinabile non si può dire sempre la stessa cosa degli scienziati, purtroppo. Ma per distinguere gli scienziati affidabili da quelli disonesti non serve essere a propria volta scienziati, bensì essere solidamente formati – dalla scuola in primis – a una mentalità (cioè a un modo di ragionare e di valutare) altrettanto scientifica.

3) La scienza può diventare strumento di poteri dispotici solo quando le sue conoscenze restano nelle mani di pochi potenti che possono sfruttarle a loro elitario ed esclusivo vantaggio: quanto più numerosi sono i cittadini che acquisiscono una robusta formazione scientifica, tanto più facilmente le conoscenze della scienza possono ricadere positivamente, ispirando le scelte pubbliche, sulla collettività. Ma una robusta, seria e diffusa formazione scientifica può solo essere fornita dalla scuola, non certo da internet né dai media. ]

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