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Posts Tagged ‘Manzoni’

«Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! […] Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti.» (A. Manzoni, I promessi sposi, cap. VIII)

Prima parte dell’arcinoto Addio monti manzoniano. E adesso, a fronte, un passaggio di Tempi difficili di Dickens:

«[…] Se ne andò sul far dell’alba abbracciando con lo sguardo, per l’ultima volta, la stanza e chiedendosi se l’avrebbe rivista mai più. La città era vuota come se gli abitanti avessero preferito abbandonarla che avere con lui un qualsiasi contatto. A quell’ora le cose sembravano diafane e sbiadite. Perfino il sole nascente pareva una chiazza pallida nel cielo simile a un mare triste.  Passò […] lungo vie fiancheggiate da case di mattoni rossi; passò accanto alle grandi fabbriche immerse nel silenzio, non ancora scosse dai fremiti delle macchine; accanto ai binari dove le luci di segnalazione sbiadivano pian piano, sopraffatte dal chiarore del giorno; accanto agli assurdi quartieri intorno alla ferrovia, costruiti a metà e a metà diroccati; accanto alle ville di mattoni rossi, sparse qua e là, dove sempreverdi, ormai affumicati e cosparsi di polvere nera, sembravano sudici fiutatori di tabacco; lungo sentieri ricoperti di scorie di carbone; accanto a una grande varietà di brutture, fino a che, raggiunta la sommità del colle, non si voltò a guardare indietro.  Un sole radioso splendeva sopra la città e nelle fabbriche le sirene annunciavano l’inizio del lavoro. Nelle case non era stato ancora acceso il fuoco, e le alte ciminiere avevano il cielo tutto per loro. Fra un po’ avrebbero nascosto l’azzurro con i loro sbuffi di fumo velenoso, ma, ancora per mezz’ora, le finestre sarebbero state d’oro sotto i raggi del sole; poi la gente di Coketown vi avrebbe visto, attraverso i vetri sporchi di fumo, un sole in fase di eterna eclissi.  Che strana sensazione allontanarsi dalle ciminiere, vedere gli uccelli, sentire il loro canto! Che strana sensazione avere sui piedi la polvere della strada invece della polvere del carbone! Che strana sensazione trovarsi a cominciare tutto da capo alla sua età, come un ragazzo, in quella mattina d’estate! Con questi pensieri nella mente e il fagotto sotto il braccio, Stephen si volse a guardare, assorto, la strada maestra.» (Tempi difficili, parte II, cap. 6)

Non so se Dickens tenesse presente o meno, scrivendo questo pezzo, il passo manzoniano. Improbabile, anche se non impossibile, dato che I promessi sposi erano discretamente noti a metà dell’Ottocento negli ambienti letterari inglesi. Oggettivamente, che risenta o no di una suggestione manzoniana (più o meno consapevole), il pezzo di Dickens è comunque un ideale, scioccante controcanto all’Addio monti. Narrativamente, un esodo il primo e uno speculare ‘controesodo’ il secondo: rispettivamente dalla campagna alla città e dalla città alla campagna. Ma metaforicamente entrambi sono immagine della dilemmatica oscillazione tra visioni ( o aspirazioni o condizioni) opposte e complementari della vita moderna: dalla natura alla anti-natura e ritorno; dalla (presunta) felicità all’infelicità (certa) e viceversa. Manzoni parla di una migrazione forzata e dolorosa; Dickens di una fuga liberatoria. In mezzo però, punto indesiderato di arrivo prima e poi di partenza, rimane sempre la città: prigione volontaria, male assoluto ma necessario, luogo dell’inumano stipato di umani, vertice e abisso della civiltà evoluta, ombelico e cloaca dell’universo industriale, madre e figlia del nostro sviluppo senza progresso… Un primo e lontano germe di consapevolezza di questa drammatica e direi fondante antinomia del nostro mondo c’era già nel secondo libro delle Georgiche. Ma il vecchio Virgilio non poteva avere ancora sentore della esponenziale e potenzialmente distruttiva escalation dello sviluppo urbano/industriale di oggi. Cosa di cui Dickens (et pour cause) possedeva invece, più di Manzoni e già a metà dell’ottocento, chiarissima consapevolezza.

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Siccome siamo fatti in proporzioni pressappoco pari di ´bene´ e di ´male´ (cioè di altruismo e di egoismo, apertura e chiusura, ragionevolezza ed istinto, testa e pancia, empatia ed apatia ecc.), ultimamente i politici nostrani hanno pensato bene di puntare al 51 per cento dei voti scommettendo chi sull’una chi sull’altra componente dell’essere umano. Il quadro mutevole dei consensi elettorali è dunque diventato lo specchio di questa eterna psico-machia che non vedrà mai, per altro, un definitivo vincitore, bensì sempre (e a seconda delle situazioni storiche e degli interessi di gruppo o di classe: Tucidide docet) una alterna, ondeggiante prevalenza dell’una parte sull’altra. Il guaio è che, speculando su questi impulsi elementari (specie sul male), la politica abdica ad un suo compito costitutivo fondamentale: che è quello di civilizzare gli uomini. Di governare cioè razionalmente questa lotta delle pulsioni mettendole al servizio dell’utile superiore della polis. Questo sottogenere di politica distrugge invece la compagine civile. Realizza di fatto il contrario di ciò per cui la politica sarebbe chiamata ad operare. Alimenta le tensioni. Proietta la psicomachia individuale sul grande schermo del tessuto sociale. Fomenta così la guerra interna, il polemos e la stasis, anziché costruire la pace. Lèggi, per capire tutto e meglio, l’Orestea di Eschilo, specialmente le Eumenidi, o anche le grandi elegie politiche di Solone. In questo dualismo esasperato, tuttavia, anche quei politici che puntano sul ‘bene’ lo fanno anzitutto per demonizzare l’avversario, dividere la società in buoni e cattivi e raggranellare così il consenso di quanti riconoscono ancora (nella propria interiore psico-machia) la supremazia del ‘bene’. Rinunciano cioè a capire (o fingono, per calcoli elettorali piuttosto miopi, di non capire) che per contrastare nel maggior numero di persone possibile il sopravanzare del deprecato ‘male’ bisogna prima riconoscere e contrastare efficacemente le cause concrete (economiche anzitutto) per le quali questo ‘male’ sta prendendo il sopravvento. Altrimenti si fa solo stucchevole retorica buonista portando fieno alla cascina del demonio… Sentivo proprio oggi in tv un noto scrittore di questa area politica affermare con pathos che i cattivi sono cattivi, senza giustificazione, e devono andare all’inferno. Anni fa lo stesso personaggio avrebbe forse detto, in termini più brutali e meno cattolici, che dovevano tornare nelle fogne. Ma quando i topi di camusiana memoria escono dal sottosuolo (ammesso che oggi stia succedendo davvero qualcosa del genere) bisogna bonificare a regola d’arte la rete fognaria, non certo bandire una crociata contro i roditori. Quando Milano appestata finisce nelle mani dei monatti bisogna prendere tutte le misure concretamente utili per rimuovere le cause della pestilenza, non dichiarare guerra ai monatti.

Veritatem laborare nimis saepe aiunt, extingui numquam. Gloriam qui spreverit, veram habebit (Tito Livio. XXII, 39) [= Dicono che troppo spesso la verità versi in condizioni difficili, ma che non muoia mai. Chi disprezzerà la gloria, otterrà la gloria autentica,]. Parole attribuite da Livio a Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, incarnazione antica di un anti-populismo ante litteram. Parole che sottoscrivo senza riserve. Parole di bruciante attualità. Istruttive persino – se mai si degnassero di leggerle e meditarle – per tanti uomini pubblici dei nostri giorni. Pubblici in senso lato. Ci metto dentro anche intellettuali, letterati, giornalisti, artisti ecc. Gente che oggi cerca spesso visibilità e fama a buon mercato, blandendo con astuzia le mode del momento, impipandosene del rispetto della verità che pure presenterà prima o poi, a tutti loro, il suo conto.

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Baudelaire si lamentava che gli venissero attribuiti tutti i delitti di cui scriveva.

Più comunemente può anche accadere a chi scrive fictio(n) letteraria che gli vengano attribuite seconde intenzioni personalistiche, allusive o malevole, che non lo hanno mai sfiorato.

Succede infatti che lettori vicini alla persona dell’autore cadano spesso vittime di un equivoco, direi, molto provinciale: faticano cioè a scindere la persona dall’opera che la persona ha prodotto; proiettano anzi la persona stessa dell’autore (i suoi pregi e i suoi difetti, la sua biografia, il suo mondo concreto di cui essi partecipano) sull’opera. Credono fermamente che nell’opera l’autore riproduca giocoforza da vicino persone reali a lui note e fatti a lui accaduti. Provocano così un corto circuito rovinoso per la comprensione corretta dell’opera stessa riducendola miseramente ad oggetto di gossip. Perciò si dovrebbe, in linea di principio, sconsigliare la lettura di un autore ad amici, parenti, colleghi e conoscenti e riservarla soltanto ad estranei e sconosciuti. Purtroppo nella pratica, e per ragioni che tutti comprendono, avviene di solito esattamente il contrario.

Chi scrive fictio(n) letteraria, in realtà, mette al mondo creature originali, soltanto sue. Suoi figli immaginari partoriti con grande fatica. Questi figli però (come tutti i figli), una volta consegnati alla pagina, vivono di vita propria ed autonoma. E pur non essendo identici a nessuno, possono e potranno sempre – come aveva già capito il grande Aristotele – somigliare a moltissimi. Non c’è infatti niente di più vero(simile) della finzione artistica.

Chi scrive racconti ficti raccoglie in genere – è vero – frammenti sparsi e plurimi della sua esperienza diretta e indiretta. Questo succede, anche spesso. Ma poi li rimescola e li riplasma (li ‘ri-finge’) a suo infinito piacimento, come materiale di riporto, nella sua propria e autonoma ideazione letteraria, cioè fantastica. Uno scrittore animato da una vera intenzione artistica, insomma, non attinge mai un personaggio e una storia alla propria realtà autobiografica per rovesciarli  di peso sulla pagina, pena il fallimento quasi certo del suo tentativo.

Non si può pertanto pensare, banalmente, che i personaggi e le vicende di una autentica fictio(n) letteraria siano maschere, pretesti per alludere a persone e a fatti reali. Non è per nulla così: essi non sono un nobile mezzo letterario usato per coprire la propria esperienza concreta, ma al contrario sono essi stessi il fine, rispetto al quale sparsi tasselli della esperienza vissuta o della realtà conosciuta dall’autore possono al massimo contribuire a fornire, ripeto, qualche  grezzo materiale compositivo. Chi capisce un po’ di letteratura sa che così funziona la scrittura cosiddetta creativa. Quantomeno così, nella mia limitata esperienza in questo campo, funziona (ha sempre funzionato) per me. Ma anche per autori enormemente più importanti di me.

La Gertrude di Manzoni o il Galileo di Brecht, per esempio, sono prodotti del vissuto interiore (morale, sentimentale, ideale) dei loro autori, non certo lo specchio fedele e documentario dei personaggi storici cui Manzoni e Brecht si sono ispirati. Anzi, nel loro immenso valore letterario, il loro tasso di infedeltà rispetto alla storia è altissimo. Quanto più alto, tanto artisticamente più fecondo. Perché l’arte non riproduce la realtà esterna (storica o autobiografica che sia), bensì rappresenta l’effetto o la reazione che quella realtà (più o meno direttamente sperimentata o conosciuta) produce nell’interiorità dell’autore. Ma quell’effetto e quella reazione possono essere tali da trasfigurare e metabolizzare completamente – fino a renderla irriconoscibile ed autenticamente nuova – la realtà che li ha provocati.

PS. Leggo proprio oggi, mettendo mano a una raccolta di short stories di Lucia Berlin (La donna che scriveva racconti), un sottotitolo che potrebbe fungere benissimo da epigrafe a questo post: racconti veri, ma inventati.

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GALILEO […] Io credo nell’uomo, e questo vuol dire che credo alla sua ragione! Se non avessi questa fede, la mattina non mi sentirei la forza di levarmi dal letto.

SAGREDO Allora stammi a sentire: io non ci credo. In quarant’anni di esistenza tra gli uomini, non ho fatto che constatare come siano refrattari alla ragione. Mostragli il pennacchio fulvo di una cometa, riempili di inspiegabili paure, e li vedrai correre fuori dalle loro case a tale velocità da rompersi le gambe. Ma digli una frase ragionevole, appoggiala con sette argomenti, e ti rideranno sul muso.

GALILEO Non è vero. È una calunnia. Non capisco come tu possa amare la scienza, se sei convinto di questo. Solo i morti non si lasciano smuovere da un argomento valido!

SAGREDO Ma come puoi confondere la loro miserabile furbizia con la ragione!

GALILEO Non parlo della loro furbizia. Lo so: dicono che un asino è un cavallo quando vogliono venderlo, e che un cavallo è un asino quando vogliono comprarlo. E questo per la furbizia! Ma la vecchia donna che, la sera prima del viaggio, pone con la sua mano rozza un fascio di fieno in più davanti al mulo; il navigante che, acquistando le provviste, pensa alle bonacce e alle tempeste; il bambino che si ficca in testa il berretto quando lo hanno convinto che pioverà, tutti costoro sono la mia speranza: perché tutti credono al valore degli argomenti. Si: io credo alla serena supremazia della ragione tra gli uomini. A lungo andare, non le sanno resistere. (B. Brecht, Vita di Galileo)

Difficile condividere oggi la fiducia illuministica del Galileo brechtiano. Difficile credere oggi nel popolo e nella sua educazione razionale, nella sua elevazione culturale, persino più difficile che ai tempi di Galileo. Il rapporto tra il popolo e la cultura alta è sempre stato problematico. Se vogliamo parlarne, bisogna prima intendersi circa il significato di popolo. Il Renzo manzoniano che diffida del latinorum di don Abbondio interpreta un popolo contadino ignorante ma giudizioso, guardingo nei confronti di una classe dirigente che usa farsene gioco anche con l’imbroglio linguistico. La plebe di Recanati nutre disprezzo verso la cultura del contino Leopardi perché, ignorandola, non ne comprende il valore: perciò non può far altro che deriderla, ingiustamente persuasa che quello se ne faccia motivo di vanto e di superbia:

Nè mi diceva il cor che l’età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di se, ma perchè tale estima
Ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno. (Le ricordanze, vv. 28ss.)

In entrambi casi quel popolo univa però al disprezzo e alla diffidenza per la cultura alta la consapevolezza sia della propria ignoranza sia di una subalternità alle élites di allora.

Il ‘popolo’ di cui parliamo oggi mi pare altra cosa.

Pare una massa socialmente ed economicamente eterogenea di individui di bassissima e superficiale e frammentarissima cultura che crede però di avervi facile ed automatico accesso grazie alla profusa disponibilità di mezzi di informazione. Contrariamente al saggio socratico, questa massa, non sapendo sostanzialmente nulla, crede di (poter) sapere tutto, mentre ignora che il sapere vero non è quella accozzaglia di notizie o di nozioni che si pescano a casaccio sul web, ma una lunga e metodica meditazione, una metabolizzazione mentale lenta, una selezione strutturata e verificata di conoscenze e di esperienze. Il popolo-massa, per quanto molto più scolarizzato che in passato, non legge libri, ignora il valore dello studio inteso come passione e fatica esercitati con pazienza nel tempo. Perciò disprezza (come il popolino di Leopardi) coloro che vi si dedicano. Li disprezza perché, nella migliore delle ipotesi, li ritiene perdigiorno passatisti e parassiti. Nella peggiore (come il Renzo manzoniano), sospetta che, sotto sotto, quelli vi si applichino per fini secondi e a suo deliberato svantaggio,

Ma diversamente dal popolino di un tempo, il popolo-massa di oggi – questo è il guaio – disconosce con presunzione il valore della cultura autenticamente intesa pretendendo di opporle l’alternativa – fasulla – di una sottocultura raccogliticcia, mediatica ed internautica.  Questo popolo, forte di questa sua presunzione, in farmacia vuol saperne più del farmacista, in ambulatorio più del medico, in autofficina più del meccanico ecc. A scuola poi (experientia me docuit), vuol saperne più, molto di più dell’insegnante. Non entra cioè in dialettica virtuosa con chi ha scienza e competenza, ma in competizione rovinosa.

Ciò che l’uomo massa internauta colloca in cima alla scala del disprezzo è la cultura formativa, quella non immediatamente o concretamente spendibile, vale a dire quella umanistica.

Eppure proprio la cultura dell’uomo, dei suoi valori individuali e politici – quella che adesso, se fosse coltivata, sarebbe virtualmente a disposizione di tutti – potrebbe più di ogni altra cosa aiutarci a crescere come persone e come cittadini, ad emanciparci dalla povertà sottoculturale e dal pressapochismo, a giudicare meglio la realtà, a vaccinarci da vecchi e nuovi pregiudizi.

Succede invece che una scuola che si attardi e si incaponisca a insegnare ancora le humanities sia continuamente delegittimata, e non solo dal ‘popolo’, ma anche da chi lo manovra politicamente, oltre che dai soliti fautori forti del primato tecnocratico. I ricorrenti attacchi concentrici al liceo classico, all’insegnamento della civiltà antica, della storia o della filosofia, lo testimoniano ad abundantiam. La categoria degli intellettuali e dei professor(in/on)i sperimenta oggigiorno il punto più basso della considerazione sociale, del vilipendio o della dispettosa commiserazione. È la categoria che incarna la versione più sfigata del deprecato elitarismo.

Persino autorevoli scienziati vengono contestati in nome di avventurosi pseudo-saperi ‘scientifici’ alternativi che viaggiano sul web. Figuriamoci quegli ingravidatori di nuvole che sono gli umanisti…

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