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Archive for novembre 2021

Giacomo Leopardi e Fanny Targioni Tozzetti: la storia d'amore mai raccontata
Franco Buffoni

Nel giugno del 1828, poco dopo aver composto A Silvia e quando già aveva cominciato a conoscere Antonio Ranieri, Leopardi annota un famoso pensiero che rielabora e a suo modo commenta il testo del grande idillio:

Una donna di venti, venticinque o trenta anni ha forse più d’attraits, più d’illecebre, ed è più atta a ispirare, e maggiormente a mantenere, una passione. Così almeno è paruto a me sempre, anche nella primissima gioventù: così anche ad altri che se ne intendono (M. Merle). Ma veramente una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, né suoi moti, nelle sue voci, salti ec., un non so che di divino, che niente può uguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di goventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria d’innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure, dei patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fiore della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un’idea di angeli, di paradiso, di divinità, di felicità. Tutto questo, ripeto, cioè senza muoverci desiderio di possedere quell’oggetto. La stessa divinità che noi vi scorgiamo, ce ne rende in un certo modo alieni, ce lo fa riguardar come di una sfera diversa e superiore alla nostra, a cui non possiamo aspirare. Laddove in quelle altre donne troviamo più umanità, più somiglianza con noi; quindi più inclinazione in noi verso loro, e più ardire di desiderare una corrispondenza seco.” [Zib. 4310, 30 giugno 1828]

Non c’è, credo, persona che possa concepire un pensiero come questo senza essere minimamente ed eroticamente attratto dal genere femminile. Grandi poeti apertamente omosessuali come Pasolini o Penna non avrebbero potuto scrivere qualcosa del genere se non cambiando di sesso le immagini leopardiane.

Eppure è uscito di recente un libello del poeta Franco Buffoni (Silvia è un anagramma, Marcos y Marcos 2020) in cui si sostiene che leopardi era gay. Si badi bene: non che Leopardi possa aver avuto anche infatuazioni o esperienze omosessuali, ma che fosse gay senza se e senza ma dalla nascita, rigorosamente. E che abbia nascosto e represso questa sua intima inclinazione, fino a quando, ormai trentenne, non conobbe a Firenze il giovane e aitante bellimbusto napoletano Antonio Ranieri di cui si sarebbe subito perdutamente invaghito, al punto da ‘liberarsi’ una volta per sempre dalle remore e dalle inibizioni imposte dalla cultura omofobica dell’epoca.

Secondo Buffoni, dunque, tutte le numerose confessioni, contemplazioni e fantasticherie amorose ‘etero’ di Giacomo dalla adolescenza fino ai trent’anni (ricordiamo almeno poesie come Il primo amore, La sera del dì di festa, A Silvia, Alla mia donna ecc.) sarebbero pura finzione, convenzione poetica, depistaggio rispetto alla sua segreta e autentica natura.

Anche le più mature, tormentate, intensissime poesie del ciclo di Aspasia (Il pensiero dominante, Amore e morte, A se stesso, Aspasia) scritte proprio nel periodo nel quale Giacomo conobbe Antonio Ranieri, non sarebbero altro che un paravento letterario della nascente e travolgente passione per l’amico napoletano. Insomma: Aspasia sarebbe per Buffoni solo una donna-schermo, la controfigura femminile socialmente presentabile di un amore maschile socialmente proibito.

Ora, a me pare che un libello come quello di Buffoni, per sostenere una tesi così perentoria non esiti a tagliare l’opera e la biografia leopardiana con l’accetta, ricorrendo cioè a arbitrarie e superficiali semplificazioni e a gratuite illazioni. E niente è invece, nella fattispecie, più complesso e profondo (direi tragico) della condizione umana e spirituale vissuta da Leopardi nell’ultimo periodo fiorentino, quello che va dal 1830 fino al 1833, l’anno in cui si trasferì a Napoli definitivamente.

Adesso proverò a dirvi in modo sommario, poco accademico e un po’ semiserio (ma basandomi sui testi, sui documenti e sulle acquisizioni più consolidate della critica storico-letteraria in proposito) che cosa verosimilmente è successo a Leopardi in questo periodo.

In questo periodo Leopardi frequenta e si innamora della avvenente Aspasia, alias la nobildonna Fanny Targioni Tozzetti, corteggiata e chiacchierata animatrice di un salotto letterario fiorentino. La (direi scontata) indifferenza di lei alle avances del poeta precipita Leopardi in una profonda ‘crisi di autostima’, diremmo oggi, se solo si trattasse di un individuo qualsiasi. Ma siccome parliamo di un genio, di una indole ipersensibile e di una intelligenza superiore, oltre che di una persona già segnata, a quel punto della sua vita, da sofferenze psichiche e fisiche inenarrabili, la frustrazione di questo ennesimo amore rifiutato significa per Giacomo qualcosa di più: segna il crollo definitivo degli ameni inganni giovanili, intanto; e poi si traduce in vertiginosa creazione poetica nutrita da una dolorosa riflessione sull’amore e sulla morte, sulla vita umana in generale e sulla natura femminile in particolare. Insomma: la faccenda di Aspasia è una batosta esistenziale tremenda che Leopardi riesce in buona misura (per sua e per nostra fortuna) ad incassare sublimandola in poesia. Ma umanamente egli è solo, disperato, malato, quasi un morto vivente, “un tronco che sente e pena” (tanto che si dedica una poesia che è una specie di auto-epitaffio: A se stesso): con la delusione patita da Aspasia infatti gli è rovinato definitivamente addosso tutto il castello delle illusioni giovanili, quelle che la Natura ci fornisce perché ci aiutino a sopportare meglio la vigliaccheria dell’esistenza, a lenire cioè i mali che la Natura stessa ci infligge. Non gli resta che la poesia e la vicinanza dell’amico Antonio Ranieri. E allora, in questo stesso periodo di disperata depressione, Giacomo – oltre a scrivere il ciclo di Aspasia – tempesta l’amico (che se ne era ritornato nel frattempo a Napoli per vari suoi affari e lo aveva lasciato temporaneamente solo) di letterine appassionate: anima mia e mille baci sono le formule fitte e martellanti di cui infarcisce numerosi, brevi messaggini (oggi li affideremmo a whatsapp) in una sorta di stalking quasi quotidiano. A leggerli oggi questi bigliettini ci sembrano senza ombra di dubbio messaggi d’amore, e forse lo sono: difficile però entrare nella testa e nella sensibilità di un genio. Difficile giudicare, tanto più che in quei tempi le lettere agli amici più cari si scrivevano così, con un frasario affettuoso spinto che confinava o si confondeva con quello erotico. Ma anche se non possiamo sindacare più di tanto sui sentimenti di Leopardi per Ranieri, possiamo però provare a capire, con un po’ di psicologia, che cosa rendesse tanto spasmodico il suo desiderio di rivedere l’amico. La solitudine tremenda di quel momento dopo la delusione subita da Fanny, i malanni fisici che lo torturavano, la paura di dover tornare a Recanati: tutto faceva in quel momento di lui un individuo umanamente molto fragile, angosciato, bisognoso di aiuto, disponibile ad aggrapparsi all’amicizia (più interessata, a dire il vero, che generosa) di Ranieri come il naufrago si aggrappa al relitto della nave. Infatti in quelle lettere Giacomo la canta proprio chiara ad Antonio: lo chiama unica causa vivendi (‘unico motivo per continuare a vivere’) oppure ultima e sola mia speranza. Insomma: non saprei se si possa chiamare amore, ma di certo si tratta di paura fottuta dell’abbandono e di morbosa e assai appiccicosa dipendenza affettiva. Poi Ranieri tornerà e lo porterà con sé a Napoli, per sempre. Quello che gli resta da vivere, meno di quattro anni, Leopardi lo vivrà cercando di assaporare come meglio può, nella caotica e contraddittoria metropoli partenopea, i pochi piaceri materiali che la sua disastrata salute gli permette ancora di godere: soprattutto i piaceri della gola, forse qualche scappatella con scugnizzi e prostitute, qualche giro turistico a Pompei, oziose passeggiate e svaghi nei quartieri e negli ambienti più e meno nobili di quella incredibile città… Ma dentro di sé, spiritualmente e poeticamente, Leopardi è un redivivo: riesce per un po’ a scrivere solo testi amaramente satirici o funerari. Soltanto in extremis, quando si rifugia con Ranieri in quarantena in una villa alle falde del Vesuvio (a Napoli imperversava il colera), la sua immensa vena poetica si risveglia e gli detta il capolavoro ultimo: La ginestra, cioè il fiore del deserto. Metafora di molte cose, ma soprattutto della poesia come fragile ed eroica superstite nel deserto pietrificato delle illusioni, pietosa consolatrice del male e del nulla che dominano per legge di natura la vita umana: la sua vita così come quella di tutti noi suoi simili. Perciò agli uomini non resta, oltre che accettare con dignità questo destino infelice, allearsi e stringersi con coraggio fra di loro in social catena, per limitare i danni inferti dalla Natura, il comune nemico.

Mi sono dilungato molto (fino alla fine della storia) per far capire che questa vicenda fiorentina di Fanny, di Ranieri e di tutto quello che ne consegue non è un momento qualsiasi dell’esistenza di Leopardi: è un fatale crocevia, un punto di non ritorno della sua parabola poetica ed esistenziale, la goccia che fa traboccare il vaso.

Se invece diamo retta al saggio di Buffoni secondo cui Aspasia sarebbe una montatura e dietro il suo nome si nasconderebbe Ranieri, questo fatale snodo esistenziale viene manomesso, arbitrariamente alterato e drasticamente semplificato. E allora i conti non tornano più, in nessun modo. Perché Leopardi dovrebbe scrivere per Ranieri poesie così tragiche, dolorose e risentite come quelle del ciclo di Aspasia? La loro amicizia era iniziata da poco, non sappiamo che ci fossero drammi o gelosie o incomprensioni fra loro. E poi nel ciclo di Aspasia Leopardi parla della fine di un amore, non di un inizio. E poi Aspasia nella poesia omonima è una presenza troppo viva, femminile, autentica, sensuale per essere una donna schermo, un ectoplasma, una semplice controfigura allegorica di un uomo… mah! Tutto della tesi di Buffoni mi riesce (testi e documenti alla mano) gratuito, incomprensibile e inverosimile.

A me pare evidente, insomma, che a Buffoni interessi poco la verità storica su Leopardi. A lui interessa affermare che Giacomo era gay, e basta. Dico affermare, non dimostrare. Gli studiosi seri analizzano i documenti per dimostrare una tesi. Buffoni afferma una tesi e poi seleziona (tutt’al più) i documenti che servirebbero a suffragarla mentre tace su quelli che la sbugiarderebbero, come ha taciuto del famoso pensiero dello Zibaldone che ho citato all’inizio… Comodo no? Così uno può affermare quello che gli fa comodo: che esistono gli Ufo, che la terra è piatta, che nei vaccini c’è il mercurio o che siamo vittime di un complotto planetario. Non è per caso proprio questa la genesi e la diffusione delle fake news?

Ci diceva un nostro prof dei tempi andati: affermate pure che la luna è quadrata, ma prima dimostratemelo… Ora, beninteso: Franco Buffoni ha tutto il diritto di andare in giro a esprimere e a propagandare, da coraggioso militante qual è, le sue idee circa i diritti sacrosanti delle minoranze sessuali. Ma non può arruolare indebitamente i grandi della letteratura sotto la bandiera della sua pur nobile causa, né gratuitamente appropriarsene come icone o trofei della sua pur legittima battaglia. Non può comportarsi con Leopardi come fanno certi ambienti cattolici che lo dipingono (lui, ateo e materialista dichiarato) come un fervido, ancorché inconsapevole, credente. Non può insomma tendergli le braccia e gridargli, come quell’invadente bigotto nannimorettiano che ho già citato altrove, «Giacomo, anche tu sei uno dei nostri!»

PS:

1) Concorda in buona parte con queste mie valutazioni la recensione di Pierluigi Lanfranchi in Poesia del nostro tempo: https://www.poesiadelnostrotempo.it/il-riduzionismo-sessuale-franco-buffoni/. Si tratta per quanto so dell’unica recensione che muova critiche sensate e puntuali al libro di Buffoni. Nella stragrande maggioranza dei casi le altre recensioni non sono che levigati ed acritici elogi della novità ‘straordinaria e coraggiosa’ del libro (e non si fa fatica a capire perché). Per parte mia ritornerò sull’argomento in toni più professionali in una recensione che è in corso di pubblicazione in altra sede. Sia chiaro che le mie radicali obiezioni al libro di Buffoni non c’entrano nulla con la questione in sé della presunta etero/bi/omo/sessualità di Leopardi (che come tale non mi interessa affatto), ma riguardano essenzialmente la arbitrarietà delle tesi sostenute e la scarsa scientificità con cui si cerca di sostenerle. Una chiara e lineare contestazione punto per punto del saggio di Buffoni si trova per altro anche nel sito curato da Yasmina Pani: https://yasminapani.it/letteratura/leopardi-gay/

2) Chi legga il saggio di Buffoni senza il retroterra di una buona conoscenza di Leopardi rischia di esserne seriamente fuorviato per molti motivi. Rischia di intendere Silvia e Nerina come astratte e cerebrali finzioni letterarie. Rischia di intendere l’isolamento e il pessimismo del poeta e del pensatore come frutto esclusivo di una emarginazione o di una repressione omofobica. Rischia di credere che Leopardi sia scappato da Recanati verso grandi città solo perché l’ambiente di provincia impediva la manifestazione delle sue pulsioni omosessuali. Rischia di credere che il ciclo di Aspasia sia solo una copertura dell’infatuazione per Antonio Ranieri. Una lettura come quella di Buffoni immiserisce insomma parecchio – a mio parere – la personalità di Leopardi. Nasconde e rimuove molto di più di quanto pretenderebbe provocatoriamente di rivelare. Perciò credo che la sua diffusione e il suo successo possano danneggiare non poco (anche a livello di didattica liceale) la comprensione della personalità e dell’opera di Leopardi.

3) È curioso che, se non apparisse chiarissima la volontà dell’autore di proporre la (vera o presunta) omosessualità di vari nostri autori come un valore aggiunto sotto ogni punto di vista, questo libro parrebbe altresì scritto come una raccolta di malevoli pettegolezzi privati a scopo di gossip: e questo basta a dare la misura dello scarso spessore critico-letterario dei saggi (almeno di quello dedicato a Leopardi) che esso contiene; tanto è vero che la lettura e l’interpretazione dei testi vi trovano uno spazio esiguo a favore di notiziole e dettagli biografici spesso davvero marginali o poco significativi. Insomma, se non ci fosse dietro la levatura (in sé riconosciuta) di un autore/poeta come Buffoni e l’intento dichiaratamente nobile delle sue tesi, questo libro non si innalzerebbe granché oggettivamente al di sopra di certo trash che dilaga nella nostra editoria…

4) A rafforzare l’ipotesi di un Leopardi fondamentalmente ‘etero’ (e a smentire clamorosamente Buffoni) basterebbe per altro una riflessione come questa: «Tutte le qualità e cagioni che producono la grazia nelle persone o portamenti o azioni ec. umane, sono piú efficaci, e gli effetti loro piú notabili negli osservatori ec. di sesso diverso. I quali concepiscono quella tal grazia per molto maggiore ch’essa medesima non apparisce agli osservatori del sesso stesso. Ma tal differenza d’idee non ha punto che fare colla natura né della grazia in genere, né  di quella tale in ispecie. E quel grand’effetto non è della grazia, ma della diversità del sesso, aiutata dalla grazia, o viceversa della grazia aiutata ec. in quanto aiutata ec. Tutto ciò dicasi ancora della bellezza ec. (Zib. 17 ottobre 1823)». Riflessione che per altro orienta ed illumina l’interpretazione di quella più famosa, che ho citato all’inizio del post, sulla “giovane dai 16 ai 18 anni ecc” sottraendola all’ipotesi che si tratti (lì come in A Silvia) di una mera e asessuata contemplazione della grazia. Se quello che Leopardi scrive qui in termini psicologici generali ha una radice particolare e soggettiva – come è difficile che non sia… – allora come si fa ad affermare con tanta sicumera che Silvia è un anagramma?

5) Sul tema della affettività e della sessualità leopardiana trovo per altro impeccabile il giudizio complessivo espresso dal regista Mario Martone: « […] Il fatto che Leopardi abbia vissuto la sua vita in una forma così libera dal punto di vista delle relazioni (l’amicizia con Ranieri, Fanny ecc.) rende tutt’oggi difficile, se non impossibile, pur nella vastità degli studi leopardiani, dire parole definitive sulla sua parabola: questa si chiama libertà. Il modo in cui quest’uomo ha vissuto il proprio rapporto anche con la sessualità, con l’amore, è stato improntato a una libertà totale, senza la quale oggi lo si potrebbe incasellare in un modo o nell’altro, mentre invece non lo si può fare in nessun modo. Non c’è, come dire, letteratura omosessuale che lo possa ingabbiare, così come non c’è letteratura omofoba che se ne possa appropriare, perché lui sfugge a ogni categorizzazione.» (Intervista a Mario Martone su Leopardi, a c. di F. Cacciapuoti e R. Lauro, in Appunti leopardiani (5-6) 1, 2013,  Pagina 110)

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Bocciata la Legge Fornero: "buco da 5 miliardi di euro". |
Chiesa e società. Cosa resta degli adulti tra longevità, giovanilismo,  crisi della fede? | AgenSIR

« Quando la politica si dice preoccupata per i giovani, gli anziani devono preoccuparsi seriamente. Per esempio se si sta decidendo qualcosa sulle pensioni, la truppa foltissima e trasversale dei neoliberisti leva prontamente un accorato lamento: bisogna pensare ai giovani! Chissà perché? Quando si tratta di fare un po’ di giustizia per gli anziani (per quei sessantenni che da oltre un decennio sono condannati ai lavori forzati fino alla soglia dei settanta, anche dopo quarant’anni e passa di onorato servizio e contro la legge di natura che nega loro ormai salute, lucidità, adattabilità ecc. – ma non sono affatto esentati dal dover ancora mantenere figli ed accudire genitori novantenni) ecco che si agita subito sul fondale della scena lo spettro del delitto contro la gioventù. Come se negare diritti ai vecchi significasse automaticamente garantirli ai giovani! Ma quando mai? La sanguinosa legge Fornero è in vigore da dieci anni ed ha permesso allo stato di risparmiare miliardi sulla pelle dei sessantenni. Qualcuno di questi miliardi è servito forse in questi anni a migliorare la condizione sociale e lavorativa dei giovani? Ditemi se mi sfugge qualcosa, perché a me risulta (al contrario) che nel frattempo il lavoro dei giovani continua a essere iper-precario, i loro stipendi miserabili, le prospettive di carriera qualificata pessime (tanto che moltissimi – i migliori – continuano a scappare all’estero). E allora di che cosa stiamo parlando? Se poi vogliamo far credere di preoccuparci sin d’ora delle loro future pensioni, allora mi viene proprio da ridere. Sì, perché i ventenni di adesso saranno pensionati intorno al 2070… A quella data i politici e i pensionandi di adesso saranno già morti o in qualche casa di riposo. Al posto loro ci saranno altri politici che ripeteranno ai pensionandi di allora (cioè ai giovani di adesso) che non li si potrà mandare in pensione perché bisognerà prima pensare ai giovani di allora, e così via…Quanto ai soldi che si risparmiano adesso impedendo agli attuali sessantenni di andare in pensione, ebbene questi soldi si saranno persi e prosciugati nel frattempo ben altrove. D’altro canto sfido chiunque a negare che le pensioni di adesso servano spesso proprio a mantenere figli e nipoti disoccupati e sottoccupati, molto più che non il reddito di cittadinanza! E allora di che cosa state parlando, cari crociati del neoliberismo giovanilistico? Ma sì, lo sappiamo bene: non state parlando degli interessi futuri dei giovani, ma di quelli presenti di banche, assicurazioni private, imprese ecc. ecc. Ma allora raccontatela giusta ai giovani: perché loro invece distinguono con chiarezza chi – tra voi e i loro nonni – vuole davvero il loro bene.»

Ho inviato questa mia lettera a vari giornali nazionali, finora senza successo. Non mi meraviglio, perché far passare concetti e argomenti di giustizia a favore di una categoria minoritaria e indifesa come i sessantenni pensionandi di questi ultimi anni è impresa improba. La censura al riguardo è spietata. Proteste come questa mia sono infatti molto difficili da reperire sul web e rarissime in tv e sui giornali. Perciò ho ritenuto doveroso riportarla in questo post senza aspettare (temo inutilmente) che qualcuno la pubblichi in una sede più visibile. Per altro, al di là dei diritti calpestati, ma per me sacrosanti, dei sessantenni, ho sempre denunciato in questo blog la retorica giovanilistica della politica e dei media, nella certezza che essa sia (nella storia come nella nostra attualità) sempre sospetta e strumentale, cioè indirizzata a secondi fini innominabili e ignobili.

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