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Archive for ottobre 2020

Orazio e Lydia (studio), 1886 di Albert Edelfelt (1854-1905, Finland) |  Riproduzioni D'arte Del Museo Albert Edelfelt | WahooArt.com

[Orazio, Odi I 25]

Sempre di meno ragazzi impertinenti

tempestano di sassi i tuoi battenti

chiusi. Non ti disturbano più il sonno

e la tua porta ormai non si separa

per un solo istante dalla soglia.

E dire che sui cardini una volta

era tutto un apri e chiudi senza sosta.

Sempre meno ti cantano da sotto:

“Muoio d’amore per te nelle lunghe

mie notti, e tu che fai, Lidia? Dormi!”

Tra poco sarai tu – vecchia oramai

e ignorata da tutti – ad implorare

spavaldi bellimbusti in un vicolo

deserto, in quelle notti senza luna

spazzate in lungo e in largo dalla bora.

La voglia senza freno che fa andare

via di testa le cavalle in calore

a morsi ti strazierà le viscere

e ti farà piangere, e urlare.

Sì, perché allegra la gioventù gode

dei colori dell’edera e del mirto

ma le fronde rinsecchite le regala

all’Ebro, compagno dell’inverno.

La legge del tempo che rovescia un destino. Crudele e beffarda. Una legge che Orazio avverte e soffre con una sensibilità speciale, quasi unica. Vale per tutto e per tutti, ma specialmente per la bellezza, e in amore. Lidia è stata un’etèra (una escort) affascinante, desiderata e inseguita da molti. Si è potuta permettere di tenere sulla corda i suoi spasimanti, di umiliarli, di prendersene gioco. Ma adesso lei invecchia. E allora il gioco presto muterà in un atroce contrappasso. Sarai lei tra non molto a soffrire e a spasimare, come una lupa insaziata o una cavalla in amore, per giovanotti che a loro volta la umilieranno con il loro disprezzo e con la loro irriverente allegria. Forse l’acrimonia di Orazio cela un risentimento: ha amato molto anche lui, come tanti altri, questa donna ed è stato probabilmente anche lui vittima dei suoi capricci e della sua superbia. Ma, come sempre in poesia, la vicenda personale e il senso di rivalsa individuale sono trascesi in una rappresentazione – cruda e tragica – di valore universale. Nella traduzione ho voluto/dovuto sciogliere e ‘modernizzare’ talune espressioni oraziane che non avrebbero conservato in italiano, se rese alla lettera, una efficacia pari a quella dell’originale: così, per esempio, amat ianua limen (‘la tua porta ama la soglia’) è diventato la tua porta ormai non si separa/ per un solo istante dalla soglia; e non sine questu (‘non senza lamenti’) è diventato (con una endiadi adatta – credo – alla temperie drammatica del contesto) ti farà piangere e urlare.

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Concorsi universitari truccati, arrestati sette "baroni"

In una intervista televisiva un fisico italiano di fama internazionale sottolinea che le università straniere, specie americane e nord europee, sono piene di ricercatori reclutati all’estero, mentre l’università italiana no. Nella nostra università – lui parla delle facoltà scientifiche – dottorandi e ricercatori sono tutti indigeni. È vero. Confermo, per quel che mi risulta, lo stesso fenomeno di purezza della cittadinanza nostrana anche per le facoltà umanistiche. Il nostro scienziato si mostra, a ragione, rammaricato di questa autarchia nazionalistica del sistema universitario italiano. La scienza, si sa, in ogni campo, è internazionale. E chi non si giova di questa ampiezza, di questa univers(al)ità di apporti delle intelligenze, da qualsiasi parte provengano, immiserisce il tasso qualitativo del proprio sistema di ricerca. L’intelligenza non conosce confini. L’attitudine alla ricerca non ha bandiere. La eccellenza nella ricerca di una nazione dipende molto dalla sua internazionalità. E allora? Perché non reclutiamo anche noi ricercatori stranieri e non li mettiamo a collaborare e a competere con i nostri? Il noto scienziato però si ferma qui: a constatare e a deplorare questo nostro cattivo (autolesionistico e apparentemente incomprensibile) costume. Non accenna minimamente a spiegare perché da noi  – unico paese in tutto il mondo più avanzato – succeda così. Lui, in realtà, il motivo lo conosce bene. Ma forse per ritegno, o per diplomazia verso l’ambiente cui appartiene, sorvola. Io che non ho le sue remore, posso invece parlare chiaro in proposito.

Anzi, lo lascio dire meglio a un ipotetico barone dell’accademia nostrana, un personaggio immaginario che rappresenta però alla perfezione la categoria, specie quella delle facoltà umanistiche. Ecco cosa risponderebbe in proposito, se potesse farlo fuori dai denti, il nostro prof-barone:

« Io, i miei dottorandi e i miei ricercatori me li scelgo a mio piacimento, tra persone gradite e fedeli (amanti, parenti stretti, portaborse e via dicendo). A questo privilegio feudale non rinuncio di certo, per quanto dipende da me (e ancora dipende e come, visto che sono pure, insieme a tanti colleghi, deputato). Quelli che metto in cattedra sono solo miei predestinati (o predestinati dai quei colleghi con cui intrattengo solidi legami di amicizia). Sic stantibus adhuc rebus ai giovani ricercatori stranieri non conviene proprio presentarsi ai nostri concorsi: tanto sanno bene che non entreranno mai. D’altro canto, mettetevi nei miei panni: come potrei accettare nel mio dipartimento dottorandi o ricercatori stranieri? Per farlo dovrei rinunciare al mio diritto, illegale ma inconcusso, di cooptare con concorsi truccati soltanto i miei prescelti. E come potrei assumere gente che non conosco, europei o americani o extracomunitari che siano, se non attraverso concorsi regolari? E poi, non rischierei di tenermi fra i piedi gente ignara delle nostre buone abitudini accademiche? Gente che non mi potrebbe garantire, una volta entrata, nessun debito di riconoscenza e nessun dovere di vassallaggio? Gente che pretenderebbe di sedersi in cattedra solo perché è più brava di altri? Sarebbe intollerabile. Se dovessi far entrare stranieri da me, dovrei piegarmi per forza, in quel caso, a un reclutamento fondato sul merito e a dei rapporti professionali corretti e trasparenti… Insomma: l’ingresso di questa gente nuova in casa mia seppellirebbe il mio potere per sempre. Dio ci scampi e liberi! Sarebbe una rivoluzione giacobina. Non conterei più nulla se non potessi mettere io, ai posti che voglio, le persone che voglio. Scherziamo? L’unico limite a questa mia discrezionalità non può e non deve essere la costituzione italiana, di cui mi importa (tranne che nei discorsi ufficiali e televisivi) una beata m*, ma solo l’obbligo di ricambiare i favori ai miei amici. L’università è solo cosa nostra

Chiaro no?

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LA VITA IN CAMPAGNA E

[Orazio, Odi I 24]

Quando si piange un amico così caro

non vale misura né ritegno. Musa

dèttami un canto inondato di dolore

con la tua voce limpida e la cetra

che avesti da tuo padre.

Un sonno eterno pesa su Quintilio:

quando avverrà che Fedeltà sorella

di Giustizia, Pudore e Verità nella sua

nuda bellezza incontreranno

una persona uguale?

Quintilio è morto: in molti lo hanno pianto

tra la gente perbene, ma nessuno,

Virgilio, più di te. Nella tua vana

fede reclami dagli dèi un amico

che non per questo tu affidasti a loro.

Se pure tu suonassi con maggiore

dolcezza di Orfeo la tua cetra – Orfeo

che muoveva le piante ad ascoltarlo –

tornerebbe forse il sangue a riscaldare

la sua impalpabile ombra che la verga

ripugnante di Mercurio, – un dio

che non si piega certo alla preghiera

né ti riapre le porte della vita –

ha spinto ormai nel gregge senza luce?

Durissimo accettarlo, e tuttavia

se ti rassegni diventa più leggera

pure una sorte che non può mutare.

Ode in morte di Quintilio Varo, amico comune di Orazio e di Virgilio. Ma si tratta anche di una consolazione rivolta a Virgilio, il più toccato dalla scomparsa di Quintilio. Le parole di Orazio invitano Virgilio alla rassegnazione, ma sono anche piene di innegabili – per quanto tipiche della poesia funeraria – sottolineature della implacabile ed iniqua durezza degli dèi. Ovvero (nell’ottica laica ed epicurea di Orazio) della assurdità di una qualche fiducia nella loro provvidenza. Merita attenzione, a mio parere, l’espressione frustra pius (da me tradotto con inutile fede) con cui Orazio definisce Virgilio cogliendone la tormentatissima fede religiosa (quella che il poeta mantovano ha proiettato spesso nei personaggi e nelle situazioni della sua poesia, nell’Eneide in particolare). La traduzione di questa ode mi ha posto più che in altri casi di fronte a un bivio: o tentare di riprodurre lo stile particolarmente lapidario e pregnante dell’originale rischiando una resa illeggibile (oltre che poeticamente inaccettabile) per il lettore italiano odierno; oppure giocoforza sciogliere molte delle iuncturae callidae dell’originale in una sintassi più esplicita e in una cadenza più ampia, piana e cantabile, salvaguardando comunque tutti i nodi semantici e concettuali del testo di partenza. Ho scelto questa seconda strada, non facile, nonostante le apparenze, ma meno accidentata e improduttiva della prima.

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L'Orologio dell'Apocalisse fermo nel 2019, ma l'umanità è ancora qui -  Positanonews

L’economia attuale muove dal desiderio più che dal bisogno. O forse dal desiderio trasformato ad arte in bisogno. Insomma: dal principio del piacere. Compito della scienza è richiamare, nel modo più rigoroso e consapevole, al principio di realtà. Compito della scienza, perché la politica a questo compito ha ormai completamente abdicato. Tristo e sgradevole compito, ma necessario per un progresso e un benessere adulti e sopportabili. La sfida oggi è questa, più che mai. Oggi, che gli uomini sono mentalmente sempre più succubi del desiderio infantile gonfiato e titillato a (illimitata) dismisura dalle irriducibili illusioni dello sviluppo, mentre la realtà del mondo in cui vivono si avvia a diventare una sua arcigna, sempre più spietata, fustigatrice. Noi tutti si vive in una grottesca sfasatura. In una drammatica convergenza di processi opposti. Arriverà, temo, il punto di deflagrazione. Il corto circuito che innesca l’ecpyrosis universale. Forse ci siamo già arrivati, ma non riusciamo ancora a realizzarlo. La scienza deve avere il coraggio di svegliarci dal sortilegio prima che la scintilla fatale scocchi. Di richiamarci, come l’antico oracolo di Delfi, al senso smarrito del limite. Prima che quel limite ci si pari davanti come una muraglia invalicabile.  La scienza, proprio lei, con tutta la sua piccolezza e la sua urtante e grigia e fredda imperfezione. La scienza, con il suo compunto linguaggio da confraternita dei flagellanti. Cos’altro? Tutto il resto (quel che sopravviverà) verrà poi per un di più, se mai riusciremo – per mezzo suo – a salvarci.

Avremmo dovuto capirlo prima. Eppure già il vecchio Epicuro l’aveva capito: il principio del piacere (alias il desiderio) è il nostro dio e la nostra nemesi. Lo si può assecondare (e goderne) impunemente (cioè legittimamente) soltanto imparando a rinunciare. Semplice a dirsi. Ma complicatissimo a farsi, oggi più che mai, quando non bastano più gli anticorpi della saggezza individuale per difendersi dentro un sistema economico totale. Una locomotiva che, per perpetuare la sua corsa, deve tenere il motore del desiderio perennemente accesso, a pieni giri.

La scienza è neutrale, gli scienziati un po’ meno. Perché sono anch’essi fatti come noi di desiderio. Sono uomini. E gli uomini preferiscono, per istinto, la tenebra del desiderio al lumicino della scienza.

Attorno al rigagnolo vivo, ma esile e sussurrante della scienza gracidano i rospi della politica, squittiscono i ratti dell’informazione. Attingono a quell’acqua per farne, mescolandola alla loro liscivia spumeggiante, bolle di sapone. Bolle enormi, luminescenti, che deflagrano immantinente, aria nell’aria.

Solo l’arte e la poesia ci possono consolare delle verità della scienza. Solo la scienza ci può salvare dalle fate morgane del desiderio, e dagli incantatori che le eccitano dalle sabbie del deserto. Solo l’arte e la poesia possono fare di quelle fate morgane la materia di rivelazioni ingrate e, insieme, gratificanti ed utili. E perciò magicamente esorcizzarle. Smascherarle e riconoscerle rappresentandole. Trasformare le Erinni cieche del desiderio in docili, ragionevoli Eumenidi. E così agevolare il compito della scienza.

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