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Archive for ottobre 2010

FURBI E INTELLIGENTI


La furbizia è la sorella deforme dell’intelligenza.
Come quest’ultima è lungimirante e magnanima e paziente e generosa, 
così la prima è miope e gretta e frettolosa ed egoista.

Non sa attendere né guardare un palmo al di là del proprio naso.
L’Italia è soprattutto un paese di furbi.
Perciò non vi è posto per l’intelligenza.
Per la sua costituzionale incompatibilità con la furbizia.

Guai infatti alla persona intelligente che capiti in un mondo di furbi.
Il peggio che gli possa succedere è di essere calpestato e dileggiato.
Il meglio è di esserne sfruttato per i loro disegni.
Perché l’intelligente, all’occhio dei furbi, è un ingenuo.

Non sarà per caso che i nostri migliori cervelli scappino via, in esilio.

 

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Contro la letteratura. Poeti e scrittori. Una strage quotidiana nella nostra scuolaSegnalo che la mia recensione al pamphlet di Davide Rondoni Contro la letteratura si può leggere ora on line nella pagina dedicata alla scuola de L’Indice dei libri: http://www.lindiceonline.com/index.php?option=com_content&view=article&id=411:scuola-mazzocchini-rondoni&catid=52:indice-scuola-cat&Itemid=67

PS: Il link non è più attivo: perciò riporto qui di seguito l’intera recensione di allora:

“Di fronte alla crisi ormai annosa della nostra scuola è accaduto di frequente, negli ultimi anni, che intellettuali di varia provenienza abbiano sentito il dovere di prendere carta e penna per dare lezioni agli insegnanti. Basti ricordare, fra altri titoli e interventi, la lettera aperta di Vittorino Andreoli (Lettera ad un insegnante), le ‘suggestioni’ di Paolo Mottana (Caro insegnante) e i molteplici articoli di Umberto Galimberti su Repubblica (ripresi ultimamente nel volumetto Il senso di fare scuola). Si muove su questa scia anche il pamphlet di Davide Rondoni, poeta, scrittore, direttore del Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna e attivo organizzatore di vari eventi letterari. La tesi centrale del libello è chiara e netta sin dal titolo: la scuola uccide, anziché promuovere, il gusto e l’interesse per la grande letteratura. Si legge infatti nelle pagine iniziali: «I nostri autori sono fatti fuori dalla scuola. La pistola fumante è appostata sul portone di ingresso di tante scuole medie superiori italiane. La sentenza di morte è eseguita nelle aule e nei corridoi ufficialmente preposti a conservare e a tramandare quelle lancinanti e meravigliose bellezze». Questo sistematico assassinio sarebbe consumato, secondo Rondoni, soprattutto attraverso il veleno quotidiano degli ‘inquadramenti storici’ degli autori e delle tecniche di ‘analisi oggettiva’ delle loro opere. L’esorbitante spazio che gli insegnanti riservano alla ‘contestualizzazione’ degli autori oppure alla fredda, anatomica dissezione strutturale dei testi sottrae, secondo Rondoni, tempo prezioso alla lettura viva dei testi medesimi, al confronto problematico ed emotivo con essi: « Uno degli errori d’impostazione dell’attuale generale modo di insegnare la poesia e la letteratura è il tentativo di fare dei ragazzi degli esperti. Invece che degli amanti. Come se la scuola dovesse creare dei minicritici letterari invece che dei lettori». C’è dunque bisogno, secondo Rondoni,  di docenti-lettori-interpreti i quali dovrebbero, mettendosi in gioco con il loro esempio vivente, insegnare ai loro alunni a farsi ugualmente lettori-interpreti, cioè stupefatti e appassionati ‘cercatori di senso’ nell’incontro con i grandi della letteratura. Per Rondoni infatti la letteratura autentica è spaesamento: non fornisce risposte ma pone domande, svia il lettore dalle sue false o comode sicurezze per sollevarlo verso interrogativi ulteriori, vertiginosi ed inaspettati. Perciò chi vuole sintonizzarsi con essa deve rendersi disponibile a questa ricerca rischiosa e affascinante: « La poesia è la voce delle anime che si stanno facendo, che non sanno come fare, delle anime con i lavori in corso. Che non se la cavano. Con il sangue che corre e si versa. Le anime che rischiano. Che si illuminano e che a volte si perdono. Le altre, le anime tiepide, a mezzo gas, al cinque per cento, non sanno che farsene della poesia».

Si può forse discutere sulle convinzioni estetiche di Rondoni, di forte impianto irrazionalistico (le sue definizioni della poesia ricordano vagamente, a tratti, l’antico Anonimo del Sublime ) e di chiara – a tratti polemica – matrice spiritualistica; non si può inoltre sottacere che alcuni argomenti della sua requisitoria sono desunti di peso dall’ultimo Todorov (per altro onestamente citato un paio di volte); resta il fatto che l’accusa lanciata contro l’attuale insegnamento scolastico della letteratura ha dalla sua, almeno in teoria, valide ragioni. È purtroppo un dato di fatto che la centralità del testo poetico è oggi frequentemente trascurata nel lavoro in classe e che non di rado, anziché a leggere e a rimeditare personalmente i testi, gli alunni sono piuttosto indotti a studiare nozioni di storia letteraria o a ripetere acriticamente interpretazioni altrui. In realtà, come afferma giustamente Rondoni, « l’ascolto di una buona lettura di poesia vale più di cento discorsi intorno ad essa». È difficile non consentire in proposito: questa centralità del testo (non di qualsiasi testo, si badi bene, ma dei grandi classici) andrebbe restituita in ogni modo, anche a costo di minimizzare la cornice storico-letteraria, di sacrificare autori minori o infimi, di rinunciare a inseguire scrittori à la page di richiamo mediatico ma di dubbio valore letterario.

Tuttavia non tutte le istanze didattiche  di Rondoni appaiono condivisibili o quantomeno attuabili.

Sul piano pratico, infatti, Rondoni auspica la trasformazione del docente di lettere da freddo e nozionistico trasmettitore di – ismi a caldo e trascinante recitatore-attore-interprete di poesia.  Una metamorfosi difficile da realizzare e non del tutto connaturata con la funzione docente.

Per un verso, infatti, leggere Dante con la verve di un Benigni è  qualità di pochissimi artisti e non può (né deve) essere richiesta a migliaia di insegnanti di lettere: quello che, più legittimamente e realisticamente, ci si può attendere da loro è che si facciano quanto più possibile lettori ed esegeti originali ed appassionati dei testi che propongono ai loro allievi, evitando la sciatta ripetizione di nozioni e di formule critiche stantìe.

Per un altro verso, concesso per pura ipotesi che quella metamorfosi possa concretarsi,  essa non potrebbe comunque prescindere – restando fermi all’esempio dantesco – da una lunga e faticosa decodificazione dell’italiano trecentesco che per gran parte degli studenti è ormai quasi una lingua straniera. Resisterebbe insomma, anche nella didattica letteraria auspicata da Rondoni, una ineliminabile componente di faticosa routine, la necessità di un ingrato allenamento propedeutico senza il quale l’accesso emotivo e simpatetico alla grande poesia rimarrebbe precluso.

Ma vi sono nel pamphlet altre proposizioni che lasciano ancora più perplessi.

Prima fra tutte, la proposta di rendere facoltativo l’insegnamento della letteratura.

Vagheggiare infatti la costituzione di un ‘ordine’ di docenti- fascinatori e nel contempo sostenere che essi debbano esercitare il loro carisma solo nei confronti di uditori volontari significa, in buona sostanza, disconoscere il diritto-dovere della scuola di (provare a) insegnare la grande letteratura a tutti. Non si capisce allora quale rilevante promozione culturale produrrebbe nei nostri giovani la rivoluzione didattica auspicata da Rondoni: la massa ne rimarrebbe infatti comunque esclusa continuando a pascersi della subcultura massmediatica.

La seconda proposizione che sconcerta non poco è contenuta nella ‘lettera aperta’ ai prof che conclude il libello. Vi si legge fra l’altro: « Se avete difficoltà economiche andate a rubare, fate gli unici espropri che avrebbe senso fare. O fate cooperative, leghe di insegnanti di lettere, mutue, fate la questua. … Ma tanto l’unica vostra dignità professionale è data dall’aver fatto tremare o sgranare gli occhi a qualcuno leggendo la pagina di un capolavoro come se si stesse scrivendo ora lì con voi, collaborando a scriverla la vostra vita intera. Non è questione di soldi». In queste affermazioni risuona, mutatis mutandis, l’antico adagio secondo il quale l’insegnamento non sarebbe una professione qualsiasi bensì una disinteressata missione. Non a caso Rondoni aggiunge che l’insegnante è simile ad un monaco o a un guerriero: figure ascetiche ed eroiche che disdegnano il vile denaro e si appagano della grandezza del loro compito. Ma questo luogo comune del docente missionario e straccione, oltre che tremendamente antiquato in un epoca in cui oramai nessuna dignità sociale va disgiunta da un adeguato riconoscimento economico, suona in questi mesi oltremodo stonato e beffardo. Specialmente alle orecchie di quei prof precari che, dopo aver fatto sgranare gli occhi per anni a chi li ascoltava leggendo Dante o Montale, ora non potranno più farlo se non, forse, per elemosinare spiccioli come artisti di strada.

 

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Racconta Esiodo (Le opere e i giorni, vv. 69ss.) che Pandora, la prima donna inviata sulla terra da Zeus per punire gli uomini con una giara piena zeppa di mali, levò il coperchio e i mali si diffusero nel mondo. Tutti, tranne uno che rimase chiuso nella giara: Elpis, cioè la Speranza. Esiodo voleva forse dire che nel suo mondo imperversava a tal punto il male che non vi era neppure spazio per l’ingannevole conforto della speranza.

Resta il fatto – difficilmente contestabile nonostante una certa oscurità del passo – che per Esiodo la speranza era un male. Perché era per lui, (come d’altra parte per i contadini suoi coetanei e conterranei di quasi tremila anni fa condannati a una vita grama e difficile) nient’altro che una stolta e nociva illusione. Tant’è vero che più avanti, nello stesso poema (vv.498ss.) egli rimbrotta duramente i pigri che si lasciano cullare da vuote speranze anziché affidarsi al duro lavoro, unico reale sostegno contro la povertà.

Ma Esiodo non è il solo, nella Grecia antica, a ritenere la speranza un male. Altri, come Democrito e Platone, ribadiscono all’incirca lo stesso giudizio. Segno che speranza 'pagana' era davvero altra cosa dalla omonima virtù cardinale dei cristiani.

Più tranchant e chiarificatrice di tutte mi pare, in proprosito, la posizione dello storico Tucidide che fa dire agli Ateniesi, alle prese con la resistenza disperata dei Meli, quanto segue:

«Non uniformatevi al comportamento dei più i quali, quando dispongono ancora di mezzi umani per salvarsi […] si rivolgono alle speranze incerte: alla divinazione, agli oracoli e ad altre cose di questo genere che si uniscono alla speranza per portare gli uomini alla rovina» (Storie, V 103,1).
Il grande Tucidide aveva ben chiaro (già 2000 anni prima di Voltaire) che la ‘cattiva’ speranza era parente stretta delle credenze religiose e superstiziose e che il suo rovinoso difetto stava nel sostituire sciocche, vaghe ed inerti aspettative al concreto, faticoso e ponderato agire dell’uomo.
Aveva insomma ben chiaro (sopravanzando così di un balzo il fatalismo della cultura greca arcaica ) che il nostro destino è in gran parte affare nostro, appunto, non degli dèi.
Ma constatava anche, amaramente, che gran parte degli umani (come i Meli di cui parlava) non riusciva e mai sarebbe riuscito a sottrarsi alle lusinghe della speranza-illusione né a liberarsi coraggiosamente dalla propria minorità.
Lo constaterebbe ancora di più oggi se, per esempio, entrasse in una tabaccheria e osservasse gli avventori che la affollano per giocare numeri al lotto o per graffiare ansiosamente la superficie friabile e tentatrice dei gratta-e-vinci.
Ma nel contempo osserverebbe anche una muta soddisfazione sulla faccia del tabaccaio e ne dedurrebbe che alla rovina degli sciocchi la ‘cattiva’ speranza aggiunge, sempre, la fortuna degli scaltri.
 

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L’ABITUDINE DEL PORCO

Stai alla larga dal porco. Sua abitudine preferita è infatti quella di schizzare addosso al prossimo il brago in cui si rivoltola e poi grugnirli contro: « Lo vedi che pure tu sei (s)porco come me? »

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LA BARCA E IL MARE

Mostra immagine a dimensione interaSe la tua barca patisce troppo e continuamente l'inclemenza del mare, ed ogni piccola onda la offende come uno schiaffo intollerabile, allora è probabile che il difetto sia nella tua barca, non nel mare.

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Se credessi nella provvidenza, o almeno in un ordine razionale e finalistico del mondo, direi che tutto ciò che è assolutamente  idiota serve a farci sentire più intelligenti; tutto quello che è assolutamente marcio serva a farci sentire più puliti; tutto ciò che è assolutamente mostruoso serva a farci sentire più umani ecc.
Ma siccome sentirsi migliori non significa poi necessariamente diventarlo; e siccome non credo affatto nella provvidenza ecc., ecco che quelle manifestazioni estreme di ciò che noi chiamamo male o vizio sono in realtà assolutamente naturali, perciò assolutamente inevitabili e non ordinate ad alcun fine ulteriore. Ecco quello che comunemente si chiama la 'banalità del male', cioè la sua fisiologica assurdità
.

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«Credere che un essere faccia parte di una vita sconosciuta, in cui il suo amore ci farà penetrare, è, tra le cose che l’amore esige per nascere, quella a cui tiene di più e gli fa trascurare tutto il resto. » (M. Proust, La ricerca del tempo perduto [dalla parte di Swann]).
Folgorante intuizione proustiana circa la genesi dell’innamoramento, che è soprattutto fascinazione di un presunto mistero rispetto al quale la persona amata è – dovrebbe essere – il tramite, la via d’accesso. È così – continua Proust – che alcune donne si innamorano, ad esempio, di militari, perché la divisa è come l’emblema materiale di un sogno eroico, di una dimensione altra, ignota ed inesplorata, perciò desiderata.

Ma in questa ontogenesi dell’innamoramento è inevitabilmente implicito – mi sembra – tutto il facile presagio del disamore e del disincanto. Sia perché a quel segno (l’immagine della persona o, come direbbe il mio Lucrezio, il simulacrum) si assegna spesso arbitrariamente un significato improprio, totalmente soggettivo ed irreale; sia soprattutto perché (se pure, nella migliore delle ipotesi, a quella proiezione soggettiva corrispondesse  una qualche realtà) il fascino, cioè l’innamoramento, non sopravvive comunque al disvelamento del mistero che lo ha prodotto ed al ruvido attrito della quotidianità.

L’innamoramento in sé (non parlo dell’amore o dell’affetto che sono altra cosa) è dunque psicodramma solitario di ‘numeri primi’: incantevole ma illusorio (nel senso etimologico di entrambi gli aggettivi) ed irrimediabilmente transeunte. 

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Detesto l’ ipocrisia.
 

Ma ancora più intollerabili mi risultano, di questi tempi, coloro – e sono molti – che spacciano i vizi per virtù o, peggio ancora, ostentano con arroganza il vizio perché legittimato, secondo loro, da soldi, potere, successo e (millantato) favore popolare.
 

Di fronte alla faccia tosta di questi signori penso che l’ipocrisia, la vecchia ipocrisia borghese, sia da rimpiangere come un male minore, come un argine possibile (dignitoso, direi quasi, e persino elegante) agli effetti pedagogicamente devastanti della spudoratezza.

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