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Archive for luglio 2011

Credere – come ha fatto e continua a fare tanta critica formalistica, per lo più accademica – che la letteratura si nutra essenzialmente e soprattutto di altra letteratura è come credere che il pane si faccia con altro pane anziché con farina ed acqua.
La farina e l’acqua della letteratura sono il vissuto interiore dell’autore.
E il vissuto interiore di un autore è l’elaborazione psichica del vissuto biografico; la miscela – torbida per lo più e magmatica – di temperamento ed esperienza; la sostanza fluida che si produce continuamente dalla reazione chimica dell’io a contatto con la realtà.
L’opera letteraria non dipende certo direttamente dalla biografia esterna del suo autore.
Ma sicuramente essa trae alimento dal medium della sua biografia interna, cioè – appunto – dal suo vissuto interiore.
Dire, ad es., che il pessimismo leopardiano discende tout court dalla deformità fisica di Leopardi è una rozza e scolastica banalità.
Dire invece che esso discende da una elaborazione emotiva ed intellettuale lunga e sofferta attorno al (perché stimolata dal) conflitto tra slancio vitale e quel drammatico limite esistenziale, è una profonda verità.
Alla base dell’opera letteraria vi è dunque sempre un vissuto interiore complesso, conflittuale, problematico.
Ma questo vissuto non produrrebbe l’opera se non si verificassero due passaggi ulteriori.
Il primo – e il più scontato e già individuato dal vecchio Aristotele – è che il magma del vissuto interiore sia decantato ulteriormente attraverso il filtro della universalità paradigmatica.
Non può quel magma diventare finalmente opera se non sublimando, prima, il più possibile; trascendendo cioè in una dimensione esemplare il vissuto più personale che lo alimenta e lasciando sul terreno tutte le sue scorie contingenti.
Il secondo è che la sublimazione precipiti poi dentro la forma linguistica e compositiva più adatta ad esprimere quella universalità paradigmatica di cui si diceva.
Che questa forma sia nuova e rivoluzionaria rispetto alla tradizione non è sempre né strettamente necessario.
Necessario è che chi scriva (con ambizioni artistiche) abbia qualcosa da dire e trovi la forma più adeguata per dirlo.
Abbia cioè miscelato e impastato a lungo farina ed acqua nella madia della sua coscienza ed abbia l’intenzione di ( e l’attitudine a)  trasformare quella massa in pane.
La lettura assidua di altri autori gli insegnerà il mestiere della panificazione con tutte le sue accortezze.
Affinerà cioè gli strumenti tecnici utili a raggiungere la forma più adatta a sublimare ed esprimere il proprio vissuto interiore sub specie universali.
Ma non gli permetterà, da sola, di creare alcunché.
 

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L’allievo non ama il maestro né il maestro l’allievo se non attraverso il comune amore di entrambi per la disciplina. La disciplina – qualunque essa sia – è il vero e diretto oggetto dell’amore di entrambi.
È un vero maestro solo colui che sa accendere amore nell’allievo non verso di lui (il maestro), ma verso la disciplina.
Così fu per Socrate e per i suoi allievi. Così sarà sempre.
Chiunque sostiene il contrario – cioè che l’allievo ama il maestro (o viceversa) soprattutto per la sua simpatia e la sua umanità a prescindere dal tertium della disciplina – non sta parlando dell’insegnamento, ma più genericamente di un rapporto umano, amicale o filiale/paterno che sia.

Con ciò non voglio dire che umanità e simpatia siano irrilevanti nel rapporto tra maestro ed allievo.
Intendo dire che non sono affatto essenziali.

PS.: Proprio il disinteresse del pedagogismo nostrano verso il ruolo centrale della disciplina nel rapporto educativo spiega – a mio avviso – i disastri didattici che il pedagogismo stesso ha prodotto, specie nella scuola superiore.

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Mi ero ripromesso di parlare il meno possibile di scuola in questo blog. Ma in certi momenti (e di fronte a certe realtà) non riesco a farne a meno; e chissà perché questo avviene di più in estate, quando i nodi più dolenti della nostra scuola vengono, direi inevitabilmente, al pettine.
Riporto in proposito qui di seguito il testo di una lettera da me inviata alla Stampa di Torino e pubblicata in data odierna con la risposta del direttore Calabresi.

 

(La risposta del direttore Calabresi si può leggere in: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/grubrica.asp?ID_blog=273&ID_articolo=583&ID_sezione=627)

 

« C’erano, tanto tempo fa, nella scuola italiana gli esami di settembre. Poi arrivò un ministro (di centrodestra) e li abolì. Poi arrivò un altro ministro (di centrosinistra) e li reintrodusse, ma ebbe la bella idea – in omaggio alla cosiddetta ‘autonomia’ scolastica – di lasciare alle singole scuole (cioè ai presidi e ai collegi deliberanti) la facoltà di svolgerli, volendo, anche ad agosto o a  luglio.Così in questi giorni torridi di piena estate io – insegnante- mi ritrovo (dopo aver appena concluso la maturità) ad esaminare i miei alunni ‘rimandati’ appena un mese fa.Pongo (e mi pongo) un paio di semplici domande:
1) Come fa uno studente rimandato in due o tre materie a recuperare in un mese?
2) Perché molti prèsidi (e gli insegnanti che li appoggiano) caldeggiano tanto la scelta di luglio come data ideale per gli esami di riparazione?
Alla prima domanda è facile rispondere, con un no secco.
Difficile rispondere invece alla seconda se non insinuando qualche secondo fine non dichiarato. Mi spiego. Con gli esami a luglio si favoriscono le promozioni facili perché ci si guarda bene dal bocciare di fronte allo spauracchio di sacrosanti ricorsi. Oppure: con gli esami a luglio le vacanze tranquille di alunni e famiglie sono garantite, mentre gli esami  a fine agosto o a settembre romperebbero loro non poco le uova nel paniere; oppure ancora (e questa è la più maligna ma anche la meno comprensibile ai non addetti ai lavori) con gli esami a luglio ai prof resta solo agosto per fare le ferie e si offre così al ministero e all’opinione pubblica l’immagine di una scuola efficiente.
L’immagine, appunto, e nient’altro.
Perché se si fatica per fare cose inutili o addirittura assurde tutto si è fuorché efficienti.
Tutt’al più si è patetici interpreti di una malinconica farsa.»

 

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La mia allergia alle tesine di maturità cresce di anno in anno, di esame in esame, e sta per diventare perniciosa.
Non proprio a tutte le tesine, ma a quelle ‘interdisciplinari’ di cui parlavo in un precedente post.

Proposi tempo fa ne La scuola del P(l)of, a proposito di questo genere di lavori, alcune curiose similitudini: 

« La tesina [sc. interdisciplinare] è un cesto
in cui finiscono
frutti di varia specie:
una pera filosofica;
una mela poetica;
una nespola storico-sociologica.
La tesina ricompone
in una natura morta di OGM,
saperi diversi
cresciuti su alberi
differenti,
sapori maturati
a latitudini distanti.
La tesina è una rete,
i commissari prof. sono i pesci;
mai visti pesci più desiderosi
di farsi prendere nella rete!
Come Cristo fa degli apostoli
pescatori di anime,
così la tesina fa dei maturandi
pescatori di prof.
La tesina è uno stecco
sul quale il maturando
costruisce il suo spiedino:
prima ci infila un ciccio filosofico,
poi una foglia d’alloro poetico,
quindi una sapida salsiccia matematica
infine un frustulo di peperone scientifico:
su tutto spalma una salsa linguistica
anglo-vernacolare.
Davanti alla commissione
il maturando sfila
ad uno ad uno
i pezzi etero-genei
del suo manicaretto.
Gli resta in mano
alla fine
lo stecco nudo
spolpato
che li teneva,
esso soltanto e unicamente,
insieme:
senso ultimo,
anima culturale,
metafora suprema
del nuovo Esame di Stato.»
(da: La scuola del P(l)of, Ed. Aracne, 20102)

Non aggiungerei altro a queste parole che scrissi allora.
Devo comunque precisare, a discolpa degli studenti, che l’istigazione a ripetere questo obbrobrio didattico è venuta e continua a venire dall’alto. Dal ministero, anzitutto, quando una dozzina d’anni fa impose questo tipo di performance obbligatoria (10 minuti in cui il candidato può parlare su un argomento a piacere, preferibilmente ‘multidisciplinare’, senza essere interrotto!); e poi da molti insegnanti che continuano a caldeggiare la tesina interdisciplinare così che la commissione possa ‘agganciarvisi’ (cioè – per dirla in modo papale – continuare il colloquio sull’argomento prediletto dal candidato).

Ora però, cari ragazzi e cari colleghi, non se ne può più!
Dopo oltre dieci anni in cui mi sento appiccicare insieme a capocchia la relatività di Einstein con il relativismo pirandelliano, la luna del Pastore errante dell’Asia con quella che governa le maree o patisce le eclissi, la rivoluzione industriale col moto di rivoluzione dei corpi celesti.. dico no, no, basta!!!
Non si può più continuare a preparare e ad ingoiare insalate miste tanto indigeste che offendono il buon gusto e il buon senso!

Lo stomaco si ribella e mi detta un grido di protesta e quasi una preghiera:
Parcite nobis!
Libera nos, domine, a thesiuncula interdisciplinari!
Visto che tanto il ministero non ce ne libererà, temo, mai più!
Perché semplicemente se ne infischia.
Perché tutte le peggiori mode didattiche che confluiscono nella scuola italiana non solo non vengono mai rimosse, ma lentamente, per inerzia, si solidificano, si fossilizzano e si stratificano; creano un conformismo mentale che è l’esatto opposto del senso più autentico di fare cultura nella scuola: quello di esercitare sempre e comunque e su qualsiasi cosa il nostro spirito critico.

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