Credere – come ha fatto e continua a fare tanta critica formalistica, per lo più accademica – che la letteratura si nutra essenzialmente e soprattutto di altra letteratura è come credere che il pane si faccia con altro pane anziché con farina ed acqua.
La farina e l’acqua della letteratura sono il vissuto interiore dell’autore.
E il vissuto interiore di un autore è l’elaborazione psichica del vissuto biografico; la miscela – torbida per lo più e magmatica – di temperamento ed esperienza; la sostanza fluida che si produce continuamente dalla reazione chimica dell’io a contatto con la realtà.
L’opera letteraria non dipende certo direttamente dalla biografia esterna del suo autore.
Ma sicuramente essa trae alimento dal medium della sua biografia interna, cioè – appunto – dal suo vissuto interiore.
Dire, ad es., che il pessimismo leopardiano discende tout court dalla deformità fisica di Leopardi è una rozza e scolastica banalità.
Dire invece che esso discende da una elaborazione emotiva ed intellettuale lunga e sofferta attorno al (perché stimolata dal) conflitto tra slancio vitale e quel drammatico limite esistenziale, è una profonda verità.
Alla base dell’opera letteraria vi è dunque sempre un vissuto interiore complesso, conflittuale, problematico.
Ma questo vissuto non produrrebbe l’opera se non si verificassero due passaggi ulteriori.
Il primo – e il più scontato e già individuato dal vecchio Aristotele – è che il magma del vissuto interiore sia decantato ulteriormente attraverso il filtro della universalità paradigmatica.
Non può quel magma diventare finalmente opera se non sublimando, prima, il più possibile; trascendendo cioè in una dimensione esemplare il vissuto più personale che lo alimenta e lasciando sul terreno tutte le sue scorie contingenti.
Il secondo è che la sublimazione precipiti poi dentro la forma linguistica e compositiva più adatta ad esprimere quella universalità paradigmatica di cui si diceva.
Che questa forma sia nuova e rivoluzionaria rispetto alla tradizione non è sempre né strettamente necessario.
Necessario è che chi scriva (con ambizioni artistiche) abbia qualcosa da dire e trovi la forma più adeguata per dirlo.
Abbia cioè miscelato e impastato a lungo farina ed acqua nella madia della sua coscienza ed abbia l’intenzione di ( e l’attitudine a) trasformare quella massa in pane.
La lettura assidua di altri autori gli insegnerà il mestiere della panificazione con tutte le sue accortezze.
Affinerà cioè gli strumenti tecnici utili a raggiungere la forma più adatta a sublimare ed esprimere il proprio vissuto interiore sub specie universali.
Ma non gli permetterà, da sola, di creare alcunché.