Il talento più vantaggioso non consiste nell’eccellere in un qualche campo dell’attività umana, ma nel saper sfruttare, manipolare e vendere, nel modo più abile e spregiudicato, le proprie ed altrui eccellenze.
È incredibile come situazioni sociali, economiche, politiche di reale emergenza e di grave conflitto mobilitino, elevandole al ruolo di primattrici – e raccogliendole sotto le più disparate bandiere – tutte le più inquietanti potenzialità psicopatologiche della nostra specie. La guerra (in tutte le sue forme) non è soltanto ‘educatrice’ violenta del peggio che sta in noi (come diceva Tucidide), ma anche dei peggiori tra di noi.
Non c’è categoria più vanitosa, egolatrica e narcisista dei letterati. Perciò stesso non c’è categoria di questa – psicologicamente – più suscettibile e vulnerabile. L’altissimo concetto che essi hanno di sé è inversamente proporzionale non tanto al loro valore (cosa sempre difficilissima da stabilire tra i contemporanei), quanto all’importanza del loro ruolo nella società che è oggigiorno, piaccia o no, praticamente nulla. Soprattutto perché oggi la letteratura è stata soppiantata, nel prestigio di cui godeva e per le funzioni che svolgeva, da altre attività: giornalismo, musica pop, intrattenimento televisivo, chiacchiera sui network ecc. La conseguenza è che i letterati devono per forza parlarsi e sostenersi e denigrarsi soltanto tra di loro, beccarsi e/o adularsi all’interno del loro pollaio, come diceva Timone di Fliunte dei poeti/eruditi alessandrini. L’unica difficile via d’uscita che vedo a questa asfissiante circolarità è un sempre forte e vigile impegno della letteratura a esplorare e indagare e rappresentare la vita, in tutte le sue forme, sottraendosi alla tentazione estetizzante di una compiaciuta ma sterile autoreferenzialità.
Quasi tutto – con un po’ di magnanimità – nei nostri rapporti interpersonali riusciamo a perdonare al nostro prossimo. Quasi tutto, tranne la ‘sfiga’. La nera e cronica sfortuna nelle sue molteplici e deliziose forme. Perché quest’ultima – a differenza di difetti e vizi che più e meno dipendono dalla volontà umana – è una croce che in varia misura dobbiamo condividere e compatire con lui senza un ragionevole argomento per imputargliela e lasciarla così interamente sulle sue spalle come una giusta punizione. Non sarà per caso – ma allo scopo preciso, seppure spesso irrazionale e inconfessato, di colpevolizzare la sfiga e di emarginare le sue vittime – che religioni antiche (e a loro modo anche aberranti ideologie moderne) abbiano interpretato malattia, deformità e povertà come conseguenze di impurità e di punizione/maledizione divina.