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Posts Tagged ‘Eschilo’

Ho maltrattato altrove Diego Fusaro giurando che lo avrei da quel momento ignorato, ma questa volta mi tocca riparlarne riconoscendogli, in tutta onestà, un merito: quello di aver tentato a suo modo, e tra pochissimi altri, di smascherare il mito e lo slogan, ormai onnipervasivi, della resilienza. Fusaro lo fa in un suo saggio, brillante ma insidioso (e piuttosto ridondante, come tutti i suoi) dal titolo inequivocabile, diretto come un treno: Odio la resilienza. Contro la mistica della sopportazione (Rizzoli, Milano 2022). Si sa: i nemici dei nostri nemici sono o diventano, per legge di natura, contro la nostra volontà e contro ogni nostra aspettativa, nostri amici, quantomeno occasionali. Il comune nemico mio e di Fusaro è, in questo caso, l’ottimismo obbligatorio di ‘regime’. Il regime è quello, tanto ampio da diventare impersonale e inafferrabile, aziendal-finanziario- mercantilistico che domina l’occidente globalizzato da decenni. L’ottimismo è quello, fasullo, che questo regime vuole imporre per persuadere masse sterminate di consumatori che essi continuano a vivere nel migliore dei mondi possibili e di conseguenza devono continuare, questo mondo, a sostenerlo in tutti i modi e senza riserve così come è, nonostante tutto e all’infinito. L’ottimismo obbligatorio della società consumistica, lo vado ripetendo da sempre, è merce del diavolo. Ben impacchettata, suadente, seducente, ma profondamente corruttiva e rivolta al bene e all’interesse primario di chi lo propaganda. E fin qui concordo col Fusaro. E tuttavia la strategia propagandistica dell’ottimismo obbligatorio è irresistibile perché fa leva su un aspetto incoercibile della natura umana. Tutti noi abbiamo bisogno di speranze e di illusioni per vivere. Tutti noi desideriamo e sogniamo naturalmente – e indefinitamente -, in primis, il benessere e il piacere. E l’ottimismo della propaganda di regime alimenta ogni giorno, ogni istante, fino all’overdose, attraverso i mille canali promozionali che possiede, proprio il desiderio e l’illusione di raggiungerli. Chi coltiva ciecamente desideri e illusioni di benessere e di piacere, infatti, alimenta a sua volta il sistema che le produce e che le vende: non lo mette in discussione e non percepisce i rischi mortali della sua espansione infinita e indiscussa.

La resilienza è l’ultima trovata della neolingua di questo sistema – ha ragione qui il Fusaro. Drammi e problemi gravissimi, figli diretti o indiretti (ma inequivocabili) della mondializzazione capitalistica (dalla pandemia, alle guerre, al disastro ecologico e allo sfruttamento indiscriminato e squilibrato delle risorse) mettono in pericolo imminente la sopravvivenza del genere umano, quindi il “sistema” stesso. E il “sistema” per parte sua quale soluzione propone? La resilienza. Sob! Sarebbe a dire che non dobbiamo attrezzarci, ribellarci, mobilitarci collettivamente in social catena per contrastare e combattere le cause di questi pericoli, bensì adeguarci, sopportarne, accettarne gli effetti, resistere individualmente con forza d’animo, pazienza e speranza infinite… Già, la speranza. Ovvio, dice giustamente il Fusaro, ribellarci e combattere in molti significherebbe muovere contro il sistema. Adattarsi e sopportare e sperare da soli invece non mette in discussione un bel nulla se non noi stessi. Molte volte in effetti su questo blog ho richiamato gli antichi greci per sbugiardare la falsa virtù della speranza. Che significa spesso, come ben sapevano loro, una proiezione illusoria del desiderio, ovvero una infondata autosuggestione: chiudere insomma gli occhi della ragione di fronte alla realtà. Oggi la speranza si chiama meglio “pensare comunque positivo”, cioè fiducia incondizionata nel futuro a prescindere da qualsiasi dato realistico o condizione oggettiva. Una virtù coltivata ingenuamente dagli individui per sopravvivere, ma utile soprattutto al sistema per imbonire le masse e perpetuare se stesso. La speranza così intesa è diventata insomma, nel vocabolario creativo del sistema “turbo-capitalistico”, sinonimo stretto o almeno alleato della resilienza.

Il Fusaro sostiene proprio questo, in buona sostanza. Dice di odiare la resilienza in quanto truffa lessicale, propaganda di un sistema che cerca con tutti i suoi potentissimi mezzi di spacciare per leggi di natura le leggi proprie, quelle cioè che garantiscono i propri interessi di dominio (finanziario, economico, ideologico ecc) ormai planetario. Dice di odiare la resilienza in quanto finto valore utile soprattutto a rovesciare sull’individuo/atomo la colpa di non sapere o volere accettare i crescenti ‘inconvenienti’ del sistema; se non ce la fai ad affrontarli è perché sei un disadattato o un debole o un immaturo; se soccombi è solo perché non sei abbastanza resiliente.

Ora fin qui, ripeto, io concorderei abbastanza col Fusaro. Ma intanto il potentissimo nemico che egli addita è reale, certamente, ma estremamente impersonale, vago, ubiquo, inafferrabile. Chi sono i signori del sistema da combattere: Amazon, le multinazionali, le banche, i mercati, i cinesi? O tutti questi e molti altri insieme? Quali volti concreti ha questo sistema mondiale “turbo-capitalista”? Contri chi e che cosa dovremmo o potremmo rivoltarci? Come e con quali mezzi potremmo farlo? E, soprattutto, coalizzandoci e organizzandoci tra chi? Chi fra noi, in questo momento, dovrebbe o potrebbe farsi promotore e attore di questa rivolta o rivoluzione globale? Appellandosi a quale nuovo manifesto condiviso da un neo-proletariato mondiale? Non trovo al momento, da perfetto profano di sociologia, economia, politologia ecc., una risposta possibile (concreta) a questa domanda. Anche perché questo neo-proletariato politicamente non esiste. I nuovi poveri vittime della macchina turbo-capitalistica mondiale sono certamente milioni, miliardi. Ma quale istanza comune, trasversale, internazionale potrebbe unirli e mobilitarli in una social catena contro il moloch che li minaccia? La realtà è che essi sono tragicamente ed infinitamente divisi, addirittura ostili in primis gli uni verso gli altri. E lasciamo stare l’impotenza sociale delle turbe immense di schiavi sfruttati nei vari terzi e quarti mondi. Ma anche nelle società meno povere come la nostra la polverizzazione categoriale del disagio e/o della vecchia e nuova povertà è evidente: partite iva contro statali, precari contro non precari, categorie protette contro categorie emergenti, italiani contro immigrati, giovani contro anziani ecc. È un bellum omnium (pauperum) erga omnes. Un facile trionfo per il turbocapitalismo internazionale. Un paradosso, direi: all’internazionale socialista del Novecento è subentrata l’internazionale capitalista del nuovo millennio e la vecchia, difficile lotta dei proletari uniti contro i singoli capitalisti si è rovesciata in facile vittoria del grande capitale mondiale unito contro sfruttati divisi, litigiosi, atomizzati, pressoché imbelli.

Fusaro sottace abbastanza questa realtà. Non solo: con tutta la profusione di cultura filosofica con cui maschera la voragine di fondo della sua argomentazione, quando dovrebbe arrivare al nodo della questione, cioè a proporre marxianamente soluzioni “pratiche” (di prassi politica, cioè), non sa appellarsi ad altro che al ridicolo rifiuto della scienza, della fantomatica dittatura sanitaria, quella delle mascherine e dei green pass durante la pandemia, per intenderci: quello sarebbe secondo lui un esempio importante di rivolta contro il sistema! Parturiunt montes, nascitur ridiculus mus

Ma no, dottor Fusaro, abbia pazienza: credo che lei sia abbastanza intelligente per capire che correndo dietro a queste infeltrite bandierine dell’antiscienza, del sovranismo, della patria e della famiglia ecc. non si arriva proprio da nessuna parte…

Io la vedo molto diversa e parecchio più tragica (apocalittica), purtroppo. Vedo che il moloch contro cui si dovrebbe combattere è in realtà una immane macchina sfrenata, lanciata a tutta forza verso un imminente schianto, un blackout fatale che tutti rimuoviamo e che temo sia ormai impossibile evitare. È solo questione di tempo.

E noi? Noi siamo in tragico ritardo.

Perché noi, tutti quanti siamo – diceva il grande scrittore russo Gogol – dormiamo, e sogniamo

Continuiamo pervicacemente a sognare. Che cosa sogniamo? Semplice, ripeto: piacere e benessere. Semplice e naturale. Il sogno che il capitalismo occidentale ci ha educato da decenni a sognare. Il sogno più istintivo e dolce (ma virtualmente pericoloso, come ben sapeva il vecchio Epicuro) che potremmo accarezzare: il sogno edonistico. Perché hedùs in greco significa dolce, appunto, ed hedonè è la dolcezza del piacere. Se il capitalismo occidentale ha costruito nella storia un sistema più efficiente e vincente di tutti gli altri non è per caso: è perché ha prodotto nella società umana, (più male che bene, solo per alcuni e non per tutti, ma di sicuro più diffusamente che altri sistemi) piacere e benessere, certo, ma anche – con il suo formidabile apparato pubblicitario – il cieco e mai sazio desiderio di entrambi. Il turbocapitalismo consumistico ci ha intimamente corrotti, antropologicamente trasformati, snaturati, è vero: ma lo ha fatto a partire dalla sollecitazione sistematica dei nostri più basilari e naturali desideri. Chi poteva resistere a una sollecitazione del genere? Diciamocelo: nessuno può né vuole combattere davvero contro ciò che naturalmente desidera. Tantomeno ci riesce contro chi, in maniera artificiale ma scientifica, sa alimentare quei desideri all’infinito. Non riesco a vedere nel mondo attuale popoli, o gruppi o movimenti che non siano profondamente conquistati dal modello di vita occidentale: anche quelli che sembrano combatterlo con furia, o addirittura minacciano di distruggerlo, nel profondo desiderano eguagliarlo o sostituirlo. Il loro odio dichiarato è in realtà, ne sono convinto, inconfessabile o inconsapevole invidia.

Solo il sistema in realtà potrebbe salvarci da sé stesso. Ma non lo farà. Perché l’interesse immediato di quanti lo guidano è più forte e ingovernabile delle virtù che occorrerebbero loro per frenare la corsa e salvare il convoglio dallo schianto: lungimiranza, misura, sacrificio condiviso e giustizia distributiva sarebbero forse oggi le vere, uniche, ardue strategie di sopravvivenza.  Ma gli insaziabili happy few alla guida della locomotiva si limitano tutt’al più a elogiare a parole queste virtù. In realtà non vogliono e nemmeno possono rallentare la corsa del treno. Preferiscono perciò mantenere tutti gli altri passeggeri, fino all’ultimo poveraccio imbucato nella terza classe, immersi nel sonno e nel sogno…

La vulgata pubblicitaria del turbocapitalismo ha infatti rimosso (ne ho già scritto altrove) negli ultimi sessant’anni dalla cultura dell’uomo medio occidentale la concezione stessa della tragedia: il senso del limite, l’incombenza inevitabile della morte, della sconfitta e del nulla, il dovere drammatico della rinuncia e della scelta. Tutte queste componenti, oggettive e irremovibili della condizione umana, sono state lavate pericolosamente via dalla nostra coscienza collettiva. E ciò è accaduto perché esse sono irriducibili nemiche di un sistema che, per perpetuarsi ed espandersi, ha bisogno di nasconderle e di iniettare sempre e comunque negli individui-consumatori dosi di fideistica e bambinesca (pseudo-umanistica) speranza nel futuro.

Ma quel sistema, caro prof Fusaro, noi non riusciamo purtroppo più di tanto a combatterlo, né tantomeno a odiarlo del vecchio e proverbiale – e a lei ancora caro – odio di classe: perché esso promette a tutti noi, che lo ammettiamo o no – lo ribadisco -, il paradiso verso cui si protendono i nostri profondi e immediati desideri. E noi occidentali, per altro, di quel sistema abbiamo goduto per alcuni decenni vantaggi concreti in abbondanza, più (e a scapito) di ogni altra popolazione al mondo. Perciò, temo, dovremo essere noi a pagarne (e stiamo già iniziando a pagarlo) il prezzo più amaro, senza sconti.

Proprio la rimozione del tragico d’altronde (la poesia e il teatro greco ce lo insegnano) è la condizione più favorevole all’accendersi e al consumarsi, implacabile, della tragedia. Il presupposto della nemesi. Della catastrofe. Di quel doomsday di cui gli uomini di scienza più avveduti stanno aggiornando, ahinoi, proprio in questi giorni la data.

Non so perché ma scrivendo queste cose mi vengono in mente – per inquietante analogia – il Serse di Eschilo, l’Edipo di Sofocle, l’Eracle folle di Euripide e tanti altri grandi archetipi dimenticati (riposti/rimossi: remoti) negli scantinati del mito. Vicende tragiche segnate, tutte, dal sogno ostinato della potenza, dalla hybris del successo, dal naufragio sanguinoso dell’illusione. E dal tardivo riconoscimento della realtà.

Spero che stavolta i miei classici mi tradiscano.

PS: un breve ma penetrante e (molto) condivisibile articolo contro la resilienza (firmato da Maurizio Puppo) si legge altresì in: https://altritaliani.net/contro-la-resilienza-ora-e-sempre-resistenza/

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Covid e nuove sfide educative, incontro online con lo psicanalista Massimo  Recalcati - piacenzasera.it

«Se i nostri ragazzi non hanno potuto beneficiare di una didattica in presenza nel corso di quest’anno, se hanno perduto una quantità di ore e di nozioni significative e di possibilità di relazioni, questo non significa affatto che siano di fronte all’irreparabile. Il lamento non ha mai fatto crescere nessuno, anzi tendenzialmente promuove solo un arresto dello sviluppo in una posizione infantilmente recriminatoria. A contrastare il rischio della vittimizzazione è il gesto etico ed educativo di quegli insegnanti che spendono se stessi facendo salti mortali per fare esistere una didattica a distanza. Insegnare davanti ad uno schermo significa non indietreggiare di fronte alla necessità di trovare un nuovo adattamento imposto dalle avversità del reale testimoniando che la formazione non avviene mai sotto la garanzia dell’ideale, ma sempre controvento, con quello che c’è e non con quello che dovrebbe essere e non c’è. Si tratta di una lezione nella lezione che i nostri figli dovrebbero fare propria evitando di reiterare a loro volta la lamentazione dei loro genitori. Non ci sarà nessuna generazione Covid a meno che gli adulti e, soprattutto, gli educatori non insistano a pensarla e a nominarla così lasciando ai nostri ragazzi il beneficio torbido della vittima: quello di lamentarsi, magari per una vita intera, per le occasioni che gli sono state ingiustamente sottratte». [M.Recalcati, La Repubblica 23.11.20 (grassetti miei)]

Una voce controcorrente, quella dello psicoanalista Recalcati sulla cosiddetta DAD, nel fiume delle lamentazioni vittimistiche e giovanilistiche del mainstream mediatico degli ultimi mesi. Condivido dalla prima all’ultima parola: già scrivevo qualcosa di molto simile (ignorando ancora le posizioni di Recalcati) nel post Bambini adulti e adulti bambini di qualche tempo fa. Ho sempre ritenuto per parte mia che storicamente il vittimismo perpetuo di persone, gruppi, categorie, popoli interi – anche quando si fondi su di un grave torto o su di una sventura effettivamente patiti – rischi di diventare nel tempo un intollerabile alibi per fuggire le proprie responsabilità e per giustificare la propria inerzia, la propria inettitudine, persino gravi e (altrimenti) imperdonabili colpe. Ma forse Recalcati non sa che nella scuola attuale moltissimi dirigenti e non pochi insegnanti concedono ai giovani questo beneficio torbido della vittima molto a buon mercato, anche in tempi normalissimi e per ragioni molto più banali e pretestuose di una pandemia. Chi non vive nella scuola non può in effetti sapere che la deresponsabilizzazione e la vittimizzazione degli adolescenti sono oggigiorno una pratica quotidiana, figlia di una fede ideologica per alcuni e di una strategia politica per altri. Ma entrambi i comportamenti convergono verso un unico effetto diseducativo. Da un lato ci sono educatori (quelli che io definisco i prof ‘psicosocio’) convinti, per inclinazione personale e/o per soggezione a certo pedagogismo alla moda, che i ragazzi siano angeli incarnati, incapaci di ogni malizia e di ogni malefatta che non derivi dagli errori e dal cattivo esempio degli adulti o dalle storture dell’ambiente e della società. Questi educatori non riescono nemmeno a concepire che un diciottenne sia un essere autonomo e debba ormai accollarsi i suoi doveri e le sue responsabilità: di fronte a problemi grandi e piccoli che riguardano la comunità scolastica essi non sanno fare altro, di conseguenza, che giustificare i giovani e flagellare se stessi. Dall’altro lato ci sono dirigenti che da anni oramai hanno abbracciato un facile e spudorato populismo giovanilistico come unica e formidabile arma per riscuotere la customer satisfaction, cioè per accattivarsi il favore delle famiglie e per raggranellare iscrizioni. In questo sono spalleggiati sempre e trasversalmente dalla politica e da gran parte dei mass media. Quando parliamo della questione giovanile non riflettiamo mai abbastanza sul fatto che gli adolescenti e i giovani sono anzitutto un formidabile e vastissimo target pubblicitario, non solo per gli istituti scolastici, ma anche e soprattutto per l’industria, per il commercio e per la politica. Il consenso dei giovani muove interessi vari ed enormi. Ecco perché esso interessa molto di più che la loro crescita e la loro autentica educazione. Ecco il perché, nemmeno tanto recondito, di un giovanilismo così diffuso e spesso così malinteso e sospetto, nella scuola e fuori di essa. Ecco, insomma, il vero motivo di tanta campagna mediatica contro la DAD. Una campagna in gran parte inopportuna e strumentale, dati i tempi e le circostanze. Perché avrei voluto vedere che cosa sarebbe stato della scuola, nei mesi più bui della pandemia, senza questo pur limitato e imperfettissimo strumento. Ripeto: i miei genitori persero anni di istruzione elementare e media durante l’ultima guerra mondiale. Hanno sofferto molto, ma poi hanno vissuto e costruito la loro vita con rinnovata energia, con saggezza e con spirito di iniziativa. Ed è stata paradossalmente quella traumatica esperienza a insegnare loro come affrontare al meglio le avversità. Pathei mathos: soffrendo si impara. E si matura. Vale ancora e per tutti il vecchio motto eschileo. Ma vale molto di più per i giovani, perché la loro è l’età più adatta per imparare, appunto. Anche e soprattutto dalle sofferenze. Grazie Recalcati. Anche se siamo in pochi ormai a pensarla così, una volta tanto abbiamo trovato un compagno di strada autorevole ed ascoltato.

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Leggere per non dimenticare: presentazione del libro "Odiare l'odio" di  Walter Veltroni
Il neopuritanesimo non è la strada della sinistra | About…

Non leggo mai libri in classifica, meno che mai quelli scritti da nostri politici. E tuttavia il titolo di un recente libro di Walter Veltroni Odiare l’odio, mi sconcerta e mi fa riflettere. Sconcerta perché il gioco di parole contiene una contraddizione in termini: se si odia il sentimento stesso dell’odio, infatti, quel sentimento, paradossalmente (per quanto indirizzato all’odio stesso) si afferma (e si ammette) di provarlo comunque: si dichiara insomma di non esserne esenti. Questo è il punto critico imbarazzante. Inoltre se l’odio è, come sono convinto che sia, parte integrante della natura umana e non lo si può estirpare senza mutilarla, ne consegue che l’odio verso l’odio non può essere altro che una forma di avversione (distorta, e potenzialmente addirittura patologica) nei confronti della natura umana nella sua integrità. Chi odia l’odio odia la natura umana.

Parlo di mutilazione e mi viene non per caso in mente Il visconte dimezzato di Italo Calvino. In quell’ apologo bizzarro e paradossale (per l’appunto) l’interezza dell’essere umano, il suo impasto irriducibile di bene e di male, viene scissa da un colpo di cannone e le due metà continuano a vivere separate: ma non sono più veri uomini, bensì un mostro di malvagità (ferina e immotivata) il primo e una caricatura di bontà (stucchevole e controproducente) il secondo. Sono insomma una dimostrazione per assurdo della insensatezza di ogni facile dualismo etico e, soprattutto, del rischio che comporta ogni tentativo, anche nobile, di sradicare il male dall’uomo riducendolo alla sua sola componente ‘buona’.

In altre parole chi odia l’odio è uno che vorrebbe riplasmare l’uomo ex novo. Retropensiero allettante ma pericoloso. Affermazione utopica, ovvero ultraideologica e potenzialmente totalitaria (non sto parlando a questo punto del pensiero di Veltroni, ma sto semplicemente deducendo conseguenze logiche generali dall’assunto espresso nel titolo del suo libro). L’uomo nuovo emendato dall’odio era l’obiettivo rivoluzionario del cristianesimo delle origini e sappiamo che in duemila anni di storia umana questo nobile progetto di rinnovamento spirituale e antropologico (almeno qui sulla terra…) ha dato scarsissimi frutti e ha prodotto anzi, in certe epoche, crociate e tribunali dell’inquisizione, oltre che un mare di ipocrisia. L’uomo nuovo – la palingenesi della natura umana – è stato altresì l’obiettivo principe dei totalitarismi e dei terrorismi vari del novecento. Sappiamo com’è finita.

Anche perciò chi – coram populo – dichiara guerra all’odio ed esalta l’amore va sempre guardato con legittimo sospetto.

Chi dichiara guerra all’odio e assolutizza il suo contrario potrebbe perseguire il secondo fine del dominio delle coscienze, cioè il più diabolico dei poteri (non per caso il Grande Fratello orwelliano aveva istituito il Ministero dell’Amore)

Chi dichiara guerra all’odio, inoltre, è uno che non vede (o non vuole vedere) le ingiustizie, le storture e le colpe che dell’odio costituiscono le radici profonde: di quelle radici l’odio è soltanto la chioma visibile. Se la si taglia lasciando intatte le radici l’albero ricrescerà.

Sì perché l’odio – semplificando senza voler rubare il mestiere a psicoanalisti e filosofi morali – è figlio di due genitori: l’uno è il disagio psichico soggettivo della persona (la frustrazione, l’insoddisfazione di sé, il difetto di autostima ecc) che si proietta all’esterno, l’altra è la ingiustizia oggettiva (nelle sue varie forme di oppressione, di conflitto, di sopruso e di violenza) nei rapporti umani, sociali ed economici.

Chi vuole sopprimere l’odio rinuncia, per ottusità o tornaconto, a capire e a curare il primo (il disagio psichico) e a sanare la seconda (l’ingiustizia). Si limita a condannarne o (peggio ancora) a perseguitarne e reprimerne l’effetto. A combattere la febbre anziché curare la malattia.

L’odio dell’odio insomma può nascondere la malafede di un disegno di potere (quando quel potere teme l’odio come reazione legittima alla sua ingiustizia), oppure un buonismo miope ed ottuso che può degenerare in un neo-puritanesimo aggressivo (ed essere pericolosamente strumentalizzato in chiave politica). 

E qui vengo al punto che mi preme personalmente di più.

Le nuove crociate contro l’odio potrebbero prendere di mira la grande letteratura. Sta già accadendo (è già accaduto) da varie parti qualcosa, ahimè, di molto simile e di profondamente inquietante.

Si stanno già condannando all’indice giganti della letteratura mondiale solo perché contengono personaggi, pensieri o situazioni non conformi ai nuovi totem (e tabù) del politically correct come il femminismo o l’ambientalismo o l’antirazzismo o l’anticolonialismo. Valori o ideali morali e civili – questi ultimi – nobili ed indiscutibili in sé, beninteso, ma che niente hanno a che vedere con la qualità o con l’essenza di un’opera d’arte.

Se questa assurda campagna moralistica di discriminazione letteraria si allargasse all’odio ecco che dall’epurazione non si salverebbe, tra i classici della letteratura, quasi nessuno: né l’Iliade dove gli Achei odiano i Troiani, né l’Odissea dove Ulisse odia (e stermina) i Proci, né Tacito che odia gli stranieri, né Dante che odia certi papi, né Leopardi o Verga che odiano il progresso ecc. ecc. (ma l’elenco potrebbe essere infinito). L’Orestea di Eschilo o l’Amleto di Shakespeare verrebbero radiati da scuole, librerie e biblioteche.

Sì perché l’autentica letteratura è lo specchio fedele (non certo il giudice morale) della natura umana. Perciò non esiste grande letteratura senza odio (e senza amore, certo: ma perché è il suo pendant complementare e naturale, l’altra faccia dell’odio stesso).

Prepariamoci dunque al peggio perpetrato, in nome del “bene” e dell’”amore”, ai danni della grande letteratura. A nuovi roghi dei capolavori del genio umano sull’altare dell’idiozia benpensante.

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Risultato immagini per Quinto fabio massimo    Risultato immagini per camus la peste

Siccome siamo fatti in proporzioni pressappoco pari di ´bene´ e di ´male´ (cioè di altruismo e di egoismo, apertura e chiusura, ragionevolezza ed istinto, testa e pancia, empatia ed apatia ecc.), ultimamente i politici nostrani hanno pensato bene di puntare al 51 per cento dei voti scommettendo chi sull’una chi sull’altra componente dell’essere umano. Il quadro mutevole dei consensi elettorali è dunque diventato lo specchio di questa eterna psico-machia che non vedrà mai, per altro, un definitivo vincitore, bensì sempre (e a seconda delle situazioni storiche e degli interessi di gruppo o di classe: Tucidide docet) una alterna, ondeggiante prevalenza dell’una parte sull’altra. Il guaio è che, speculando su questi impulsi elementari (specie sul male), la politica abdica ad un suo compito costitutivo fondamentale: che è quello di civilizzare gli uomini. Di governare cioè razionalmente questa lotta delle pulsioni mettendole al servizio dell’utile superiore della polis. Questo sottogenere di politica distrugge invece la compagine civile. Realizza di fatto il contrario di ciò per cui la politica sarebbe chiamata ad operare. Alimenta le tensioni. Proietta la psicomachia individuale sul grande schermo del tessuto sociale. Fomenta così la guerra interna, il polemos e la stasis, anziché costruire la pace. Lèggi, per capire tutto e meglio, l’Orestea di Eschilo, specialmente le Eumenidi, o anche le grandi elegie politiche di Solone. In questo dualismo esasperato, tuttavia, anche quei politici che puntano sul ‘bene’ lo fanno anzitutto per demonizzare l’avversario, dividere la società in buoni e cattivi e raggranellare così il consenso di quanti riconoscono ancora (nella propria interiore psico-machia) la supremazia del ‘bene’. Rinunciano cioè a capire (o fingono, per calcoli elettorali piuttosto miopi, di non capire) che per contrastare nel maggior numero di persone possibile il sopravanzare del deprecato ‘male’ bisogna prima riconoscere e contrastare efficacemente le cause concrete (economiche anzitutto) per le quali questo ‘male’ sta prendendo il sopravvento. Altrimenti si fa solo stucchevole retorica buonista portando fieno alla cascina del demonio… Sentivo proprio oggi in tv un noto scrittore di questa area politica affermare con pathos che i cattivi sono cattivi, senza giustificazione, e devono andare all’inferno. Anni fa lo stesso personaggio avrebbe forse detto, in termini più brutali e meno cattolici, che dovevano tornare nelle fogne. Ma quando i topi di camusiana memoria escono dal sottosuolo (ammesso che oggi stia succedendo davvero qualcosa del genere) bisogna bonificare a regola d’arte la rete fognaria, non certo bandire una crociata contro i roditori. Quando Milano appestata finisce nelle mani dei monatti bisogna prendere tutte le misure concretamente utili per rimuovere le cause della pestilenza, non dichiarare guerra ai monatti.

Veritatem laborare nimis saepe aiunt, extingui numquam. Gloriam qui spreverit, veram habebit (Tito Livio. XXII, 39) [= Dicono che troppo spesso la verità versi in condizioni difficili, ma che non muoia mai. Chi disprezzerà la gloria, otterrà la gloria autentica,]. Parole attribuite da Livio a Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, incarnazione antica di un anti-populismo ante litteram. Parole che sottoscrivo senza riserve. Parole di bruciante attualità. Istruttive persino – se mai si degnassero di leggerle e meditarle – per tanti uomini pubblici dei nostri giorni. Pubblici in senso lato. Ci metto dentro anche intellettuali, letterati, giornalisti, artisti ecc. Gente che oggi cerca spesso visibilità e fama a buon mercato, blandendo con astuzia le mode del momento, impipandosene del rispetto della verità che pure presenterà prima o poi, a tutti loro, il suo conto.

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Il poeta deve nascondere il male, non metterlo in mostra, né insegnarlo. Ai bambini fa scuola il maestro, ai giovani la fanno i poeti. Dunque è nostro dovere non dire altro che cose oneste. (Aristofane, Rane, vv. 1053ss.).

Così il comico ateniese Aristofane fa dire ad Eschilo (che era il suo tragediografo preferito) per condannare Euripide e il suo (per i tempi – siamo nel V sec. A.C.) modernissimo realismo scenico. Aristofane scambia cioè la straordinaria capacità euripidea di rappresentare gli esseri umani così come sono per diseducativo incitamento alla trasgressione dei principi etici della tradizione. E la stigmatizza appellandosi a una concezione moralistica dell’arte tragica (che nella Grecia di allora era tradizionale e ancora diffusa) che pretendeva da essa il ruolo quasi scolastico di educatrice del popolo.

Sul piano estetico le posizioni di Aristofane sono da tempo superate. Ma sul piano pedagogico non direi che egli sollevi un problema per noi ormai del tutto inesistente. Anche oggi chi insegna ai giovani attraverso la letteratura può nutrire il dubbio se proporre o meno un grande autore che, come (o  peggio di) Euripide, rappresenti in maniera troppo cruda e diretta vizi, perversioni, meschinità, malvagità degli esseri umani, o esprima egli stesso (l’autore intendo) troppo apertamente nelle sue pagine sentimenti e pensieri poco consoni con l’elevato ideale etico ed antropologico maturato negli ultimi decenni dalla nostra civiltà. Si pone cioè, per dirla in sintesi con un termine alla moda, il dubbio del diritto di cittadinanza, nelle nostre scuole, per autori importanti ma oggi troppo politically uncorrect. Esiodo e molti altri greci antichi, per esempio, sono spudoratamente antifemminili. Tacito, Dante, Céline, Kerouac (per citarne solo alcuni in ordine sparso tra l’antico e il moderno) sono talora xenofobi e/o omofobi. Ovidio è spesso sessista. Machiavelli un immorale dichiarato. Quanto ai misoneisti reazionari e retrogradi, se ne trovano a iosa e a qualsiasi latitudine spazio-temporale.

Ma si tratta per lo più di un falso dilemma. Quando ci accostiamo alla letteratura o all’arte in generale, la presenza nell’opera di vere  o presunte pecche morali non può e non deve costituire motivo alcuno di censura estetica. L’arte vera – piaccia o no (e mi preoccupano molto quelli cui questo assioma non piace, come il vecchio Platone) – è al di sopra della morale, al di là del bene e del male proprio mentre (e perché) ne rappresenta, nella maniera più visibile e cruda e perciò, direi, paradossalmente e autenticamente educativa, lo scontro o l’intreccio.

Anche i più sacrosanti ed avanzati principi dell’etica dominante diventano invalicabili e ottusi pregiudizi – ideologici, bacchettoni o radical chic – quando giungano impropriamente a interferire col giudizio artistico. Perché impediscono l’accesso alla completa e profonda intelligenza delle grandi opere e ne possono favorire manomissioni ermeneutiche o appropriazioni ideologiche indebite o, peggio ancora, inaccettabili censure.

Certo: misura e gradualità in relazione all’età di chi ci sta davanti sono d’obbligo per chi propone pagine letterarie agli adolescenti. Ma bisogna sempre considerare che le verità che la grande letteratura ci squaderna sono sempre più educative di mille mediocri letture edificanti o conformiste, capaci soprattutto di alimentare l’ipocrisia. Che quello che si guadagna in maturità di visione, complessità di pensiero e profondità di sguardo leggendo certi autori è sempre, enormemente di più di quello che si rischia di perdere in (improbabile) purezza ed in (presunta) innocenza. E l’innocenza per parte sua va – prima o poi, con tutta la cautela e la misura che si deve – turbata e confusa, se si vuole aiutare una persona a diventare adulta.

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Fa dire Eschilo a Oreste, nell’imminenza del matricidio di cui si macchierà per vendicare il padre Agamennone, che il suo gesto gli è imposto dal volere ineludibile del dio Apollo che prevede per lui, in caso di disubbidienza all’oracolo, un’orribile morte per lebbra (Coefore, vv. 269ss.). E gli fa aggiungere: «Come dunque in tale parola del dio non aver fede? E anche se fede non avessi, è pur forza che io quest’opera compia. Ché tutto ciò che m’incita a questo unico punto converge: e gli ordini del dio e il cordoglio grande del padre; e anche povertà m’angustia; e lo sdegno per il fatto che dei cittadini – i più gloriosi fra gli uomini, quelli che con glorioso coraggio distrussero Troia -siano così sottomessi a due femmine; perché costui [Egisto, amante di Clitemnestra e succube della volontà di lei] ha un cuore di femmina!» (ibid. 296ss.)

La vendetta di Oreste è dunque frutto non di un solo movente, ma di una somma, di un ‘fascio’ convergente di motivazioni (religiose, etiche, sentimentali, sociali, materiali): ordine del dio, rabbia e dolore per la morte invendicata del padre, povertà di figlio abbandonato dalla madre e privo del potere che legittimamente gli spetta, responsabilità politica e morale verso i propri concittadini.

Dire insomma che la vendetta sia per Oreste la risultante semplice e diretta della sua volontà e del suo libero arbitrio significherebbe, di fronte al testo di Eschilo, ricorrere a categorie interpretative improprie e  fuorvianti.

Oreste sarà matricida non tanto per libera scelta, quanto in obbedienza a una serie di condizionamenti interni ed esterni che lo inchiodano a quella scelta stessa, tanto da farla apparire paradossalmente obbligata.

Ho pensato a questi versi di Eschilo, di sapore apparentemente così arcaico, così legati a una cultura magica e religiosa, quando ho letto l’altro giorno in un articolo di Mauro Bonazzi nell’inserto culturale del Corriere (Siamo liberi? Yes, Edipo, we can, in: La lettura del 03.07.2016) che le risultanze dei moderni studi di neuroscienze concludono per la stessa complessità di condizionamenti alla base del nostro agire. Cita Bonazzi in proposito una frase del premio Nobel per la medicina Francis Crick «Il tuo senso di identità personale e di libero arbitrio in realtà non sono niente più che il comportamento di un’ampia serie di cellule nervose e delle molecole loro associate». Versione aggiornata, mutatis mutandis, della pluralità convergente di motivazioni che Eschilo attribuisce a Oreste (identica problematica anche in Eteocle, quando si accinge ad affrontare il fratello ne I sette a Tebe). Conferme scientifiche attuali di intuizioni antiche, già consapevolmente tematizzate da quel fecondissimo crogiolo critico di mito ancestrale e razionalità indagatrice che è la tragedia greca.

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Gli antichi greci erano sì assatanati di vittoria  in ogni campo, ma riflettevano spesso (anche se malvolentieri) sulle rischiose conseguenze di questa loro ossessione. Sapevano bene che il gioco della competizione agonistica era a somma zero: che la vittoria di qualcuno, cioè, era contemporaneamente la sconfitta di qualcun altro. Sapevano inoltre (poiché non si può vincere sempre) che un’esistenza votata all’ambizione del primato e del successo era esposta più che mai a una drammatica alternanza della sorte. Perciò avevano impresso sul frontone del tempio del dio della saggezza iscrizioni come conosci te stesso (cioè: abbi consapevolezza dei tuoi limiti, della tua fallibilità, della tua ‘vincibilità’) o nulla di troppo (cioè: non avere ambizioni che superino le tue effettive potenzialità). Perciò, all’indomani della vittoria esaltante di Salamina, Eschilo nel dramma I Persiani propose al pubblico ateniese quell’evento in un totale, geniale rovesciamento di prospettiva: immaginandolo cioè come vissuto e patito da parte dei Persiani, dal punto di vista dei vinti, non dei vincitori.

Perché sapeva che la meditazione sulla sconfitta altrui aveva molto più da insegnare ai suoi concittadini che la celebrazione della loro propria vittoria.

La moderna società del piacere e della facile gratificazione rivive in pieno quell’ossessione del successo e del primato, ma senza la necessaria coscienza del suo contrario.

La nostra è una corsa ambiziosa e sfrenata al successo senza saggezza. Senza antidoti.

Un atteggiamento immaturo e infantile.

La via più dritta e sicura verso la frustrazione, la depressione, la sciocca recriminazione.

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