Ripropongo in occasione della recente riedizione riveduta dei miei racconti L’anello che non tiene (Aracne 20132), due autorevoli recensioni già apparse pochi anni fa ne Il Sottoscritto (sito letterario ora assorbito nel nuovo Stilos), rispettivamente della ricercatrice italianista Elena Frontaloni e del giornalista e critico Alfio Siracusano.
« Godibilmente livido e controllato, questo libretto d’esordio di Paolo Mazzocchini. Lui, l’autore, è docente e fine studioso di letteratura greca e latina. L’anello che non tiene, il libro, è una corona di racconti che invece di esibire o nascondere la vasta cultura di Mazzocchini, il suo mestiere prima di ricercatore universitario e poi di insegnante nei licei, li mette a tema. Si tratta di una scelta onesta, e alla fine vincente. Perché, ad esempio, per riconquistarsi il pensiero triste e terrestre di Lucrezio, Mazzocchini lo fa circolare dentro uno squallido giro universitario. Per riattivare le lezioni del poeta di Recanati, chiama Silvana e Giacomo, rispettivamente, una stregante ragazzina delle scuole superiori e il suo professore di filosofia, il quale muore ingrigito, illacrimato e suicida al contatto con uno spettro fuggevole di grazia e giovinezza, che per parte sua sopravvive. Mitemi comunque rovesciati, come si vede; e difatti il libretto è anche un continuo tradimento di allegorie, figure, situazioni e pagine relativamente note al lettore d’ogni livello. Così, in questo volume, si consumano coraggiosamente due scommesse. Intanto reggere il passo del narrare, deludere in nome del racconto la tentazione delle minuzie filologiche e degli ipertrofismi dotti. Poi mescolare all’oggi quegli amati libri classici e classici personaggi di libri senza piegarsi alla tiritera facile del contesto degradato (non si danno oggi epifanie di Venere, Minerva o Silvia; non si danno, oggi, cavalieri solitari senza l’aiuto della cocaina). Mazzocchini riesce in entrambi i proponimenti. Bella la lingua, se con incredibile candore (in verità percepibile labor limae) si mescolano sulla pagina secchezza e impuntature auree («sollevato da un refolo di tramontana, un nugolo di cenere millenaria s’invorticò nel cielo»). Bello l’assunto: la distanza tra ieri e oggi non sta in una perdita delle epifanie della grazia, ma nella tendenza a trasformare queste ultime in fattori incontrollabili, che innescano, in chi li vive, il principio dell’autodistruzione. Si sbaglierebbe, difatti, a leggere il libro come una tirata moralistica sulla scomparsa dei valori e della poesia. E semmai, l’unico valore che manca all’uomo d’oggi, per il Mazzocchini scrittore, sembra essere quello della gratuità, della resa a quest’ultima, dello «spiccare» il giorno (è una bella traduzione di Alessandro Fo al celeberrimo carpe diem di Orazio). Macerato dentro il senso della colpa e del dovere, tradito dalla morte e dalla vita, il protagonista di tutti questi racconti non riesce a venire a patti con se stesso: fugge e gioca, muore. Oppure grida. E per l’appunto straziante, bellissimo, è l’atto unico che chiude il volume: con Lazzaro, già resuscitato, in procinto di vivere la seconda morte, incredulo che non ci sia più un dio a salvarlo, incredulo che questo dio che l’ha salvato non sia più carne. Viene in mente, per la caratura dell’operazione, quel dimenticato e bellissimo volume di Berto, La gloria, dove si ridà la parola al più frainteso e dolente traditore della storia (Giuda). Che poi il tradito sia sempre, e più verosimilmente, traditore di se stesso è infine la smagliante lezione di tutti i racconti di Mazzocchini. Lezione e strazio moderni, dunque, che nascono dal non riconoscere, per tempo, quello che si è. Nel volersi fare altro e altrove da sé. «Conosci te stesso», direbbe un professore ai suoi studenti. Ma Mazzocchini non è, qui, né professore, né studioso di filosofia. In questo libro afferma coraggiosamente che lo splendore tragico del moderno sta nella sorprendente risposta a questo invito. Una risposta netta, non importa quanto sincera: non voglio e non posso.»
Elena Frontaloni, ricercatrice di letteratura italiana presso l’Università di Macerata
« Un filologo è un filologo, quasi sempre. Anche quando si cimenta nella scrittura inventiva e, come è della scrittura inventiva, costruisce la vita (dei suoi personaggi), invece di ricostruirla (quella degli autori dei testi) sui loro documenti. Paolo Mazzocchini non fa eccezione alla regola, specie nel primo e più importante dei racconti di questo libretto, che non a caso dà il titolo al libro. Protagonista ne è infatti un filologo esperto in papirologia che, appassionato studioso di Lucrezio, ritiene per un istante di avere scoperto la conferma del suicidio del grande scrittore latino a seguito di una forma di follia indottagli da un poculum amatorium, secondo la nota informazione di san Gerolamo. Tutto questo dentro una casuale vicenda d’amore che per un istante sembra illuminare la sua vita di ipocondriaco praticante della solitudine e invece gli dimostra per res la verità ineludibile della devastante concezione che lo stesso Lucrezio (e il papirologo, e l’autore del racconto) aveva dell’amore. Che è anche (ri)scoperta, e conferma, che nella vita degli uomini c’è sempre un momento rivelatorio, un anello che non tiene, che svela il sé a se stesso e smonta il giocattolo dell’ipocrita conformismo su cui si costruiscono le apparenze. Come avviene negli altri racconti: dove, nell’ordine, un giovane monaco lettore appassionato di Savonarola non riesce a tacere, nella sua prima predica, lo squallore morale di chi lo ascolta; un maturo professore rivive l’illusione a suo tempo perduta di un amore mai goduto, per riperderla nel delirio di un’altra sconfitta, ora definitiva; un professore gaudente rivela il vuoto del suo scintillante godere rovesciandolo, e finendoci dentro, nella maschera della morte e nella realtà del proprio umano fallimento; una donna innamorata e umiliata per tutta la vita conclude il suo rapporto col marito che l’ha crocifissa dandogli la morte, che era poi, per lei che così lo intende, un atto d’amore; il risuscitato, e ora di nuovo morente, Lazzaro denuncia l’ipocrisia di chi, resuscitandolo, lo aveva invece condannato a un supplemento di vita che di fatto gli ha negato la gioia della morte e della serena felicità che in essa aveva avuto appena il tempo di intravedere. Temi anche “alti”, come si vede, nient’affatto strani in chi pratica le cime alte del pensiero dei classici e trova naturale misurarci il senso eterno, e misterioso, della vita degli uomini. Che è “fatti” ma è anche maschera che insieme nasconde e rivela la verità tragica di chi i fatti li vive. In essi cogliendo la duplicità reale dell’essere: che è l’apparenza per gli altri e la verità sostanziale per sé. Che si bilanciano a lungo nell’instabile equilibrio del quotidiano, finché un anello cede, “non tiene” più e, come nelle tragedie antiche, esplode la catastrofe. Imprevedibile all’apparenza, in realtà prevedibilissima. Impreziosita anche, in questi brevi racconti, dalla garbata misura della scrittura, che sorregge una lieve ironia ma che appare ben acclimatata nel clima austero di chi professa, e pratica, la non banalità dei pensieri.»
Alfio Siracusano
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