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Archive for febbraio 2021

ruminazioni: tre poesie di orazio

Orazio, Odi, I 38

Non fa per me lo sfarzo dei Persiani

e non sopporto le corone di tiglio:

ragazzo mio, smettila di cercare

posti dove si attardino

rose autunnali.

Non sprecare fatica a procurarti

più che il semplice mirto: il mirto

sta bene a te che mi riempi il bicchiere

e a me che bevo rannicchiato

sotto una pergola ombrosa.

Il sigillo, minuto e prezioso, del primo libro delle Odi di Orazio. Un piccolo scrigno che custodisce intero il tesoro della sua visione della vita: lontano dai lussi, dallo scialo e dalle raffinatezze delle classi elevate della sua epoca, Orazio ambisce a una felicità fatta di semplicità e di misura. L’unica felicità possibile, perché basta a se stessa. Non soffre il bisogno insaziabile di più né di altro. È la ricetta dell’aurea mediocritas, e i suoi pochi e classici ingredienti sono tutti qui chiamati a raccolta: il vino, un sobrio ambiente simposiale in un angolo ombroso ed ameno, una gradita compagnia. Ma anche l’amore: di una qualche etèra o dello stesso puer? Non viene esplicitato, ma chiaramente alluso dalla prediletta presenza del mirto, la pianta di Venere. Si conclude qui, con la fine del primo libro, una prima fase del mio lavoro di traduzione antologica dalle Odi.

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Risultato immagini per scuola di sinistra o destra

A – La scuola pubblica italiana di oggi è di sinistra. Non fa altro, infatti, che sbandierare nobilmente (in teoria) e applicare malamente (in pratica) principi di uguaglianza, di inclusione, di attenzione ai più deboli, di cura dei ragazzi svantaggiati. Combatte inoltre ogni discriminazione e lotta accanitamente contro la dispersione ecc. E poi, forse non per caso, l’offerta formativa degli istituti è, anch’essa, sinistramente scandita per legge da ‘piani triennali’…

B – La scuola pubblica italiana di oggi è di destra. Non fa altro infatti che autodefinirsi un’azienda, professare principi imprenditoriali, trattare gli studenti alla stregua di clienti (o utenti) che hanno sempre ragione. Proclama inoltre il credo assoluto nella meritocrazia e conforma tutto il suo linguaggio e le sue innumerevoli sigle sul modello della più vieta vulgata liberista.  Non per caso essa tende, con l’autonomia, ad assumere sempre più una fisionomia privatistica, e le sue stelle polari sono diventate (più che i programmi e la didattica) i progetti e l’alternanza scuola-lavoro…

A – Per la scuola pubblica italiana la destra al governo significa: demolizioni, riduzioni, tagli, semplificazioni selvagge.  Lo scopo immediato è dequalificarla e risparmiare soldi da destinare alla scuola privata. Lo scopo ultimo è liquidarla o quantomeno declassarla ad appendice del sistema di istruzione privato, vale a dire a scadente parcheggio per le classi meno abbienti, o luogo di addestramento di forza-lavoro usa e getta, come avviene da sempre in certi paesi anglosassoni.

B – Per la scuola pubblica italiana la sinistra al governo significa: riduzioni e tagli in misura (non molto) minore della destra, ma con un enorme sovraccarico (sulle spalle dei prof) di cervellotica ingegneria scolastica, burocratica e didattica. La sinistra ama da sempre introdurre nella scuola le più astruse, inutili e bizantine innovazioni: intende così compensare la minore riduzione delle spese con una maschera di pretenzioso efficientismo. Al cruento massacro perpetrato dalla destra la sinistra preferisce, per la nostra scuola, lo stillicidio o la lenta intossicazione.

[Queste due antitesi sono una anteprima di un mio nuovo libello sulla scuola di cui sto concludendo la stesura. Si intitolerà The dark side of the school: si tratta di una autobiografia professionale molto atipica, conclusa da una raccolta di antitesi simili a queste. Mi auguro di trovare un editore…]

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Risultato immagini per vittorini

«Non l’hai fatto fuori?» «Era troppo triste». Finisce così Uomini e no di Elio Vittorini, con uno scambio di battute tra due gappisti reduci da una azione armata contro una pattuglia tedesca. Finisce, per me, con una sorta di dejà lu letterario. Con tutta probabilità Vittorini aveva letto Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, e conosceva la scena in cui due soldati italiani, arrivati senza farsi accorgere a tu per tu con un nemico ignaro e isolato, rinunciano a sparare a colpo sicuro:

«Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo. Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s’erano formate due coscienze, due individualità, una ostile all’altra. Dicevo a me stesso: «Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, così!»   Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l’esame di quel processo psicologico. V’è un salto che io, oggi, non vedo più chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra: – Sai… così… un uomo solo… io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose: – Neppure io.».

L’episodio narrato da Lussu mi sembra in effetti il sottotesto ideale della laconica risposta del gappista di Vittorini: illumina cioè il tormentato sommovimento psicologico che vieta – eccezionalmente – a un soldato di uccidere, rivela la parte nascosta dell’iceberg di cui lo scambio secco di battute dei personaggi di Vittorini è la punta emersa. Homo sum, nihil humani a me alienum puto: per Vittorini sarebbe dunque la persistenza di questa fiammella di humanitas, non spenta dalla macchinale crudeltà della guerra, a tracciare la linea di demarcazione tra uomini e no. Come a dire: in guerra rimane uomo soltanto chi non dimentica di esserlo e sa ancora riconoscere nel nemico un proprio simile. Sarebbe: ho usato il condizionale, perché poi in realtà, in altri passaggi di Uomini e no, questo umanesimo di marca antica applicato alla nostra resistenza – questo modello antropologico per certi versi rassicurante perché facilmente condivisibile come oppositum della bestialità – è messo in discussione da Vittorini, o meglio superato da una riflessione più complessa e tragica. Dopo aver descritto la ferocia di Clemm, il capo delle SS che lascia sbranare dai suoi cani un partigiano prigioniero che ha obbligato a denudarsi, lo scrittore infatti commenta:

Appena vi sia l’offesa, subito noi siamo con chi è offeso, e diciamo che è l’uomo. Sangue? Ecco l’uomo. Lagrime? Ecco l’uomo. E chi ha offeso che cos’è? Mai pensiamo che anche lui sia l’uomo. Che cosa può essere d’altro? Davvero il lupo? Diciamo oggi: è il fascismo. Anzi: il nazifascismo. Ma che cosa significa che sia il fascismo? Vorrei vederlo fuori dell’uomo, il fascismo. Che cosa sarebbe? Che cosa farebbe? Potrebbe fare quello che fa se non fosse nell’uomo di poterlo fare? Vorrei vedere Hitler e i tedeschi suoi se quello che fanno non fosse nell’uomo di poterlo fare. Vorrei vederli a cercar di farlo. Togliere loro l’umana possibilità di farlo e poi dire loro: Avanti, fate. Che cosa farebbero? Un corno, dice mia nonna. Può darsi che Hitler scriverebbe lo stesso quello che ha scritto, e Rosenberg lui pure: o che scriverebbero cretinerie dieci volte peggio. Ma io vorrei vedere, se gli uomini non avessero la possibilità di fare quello che fa Clemm, prendere e spogliare un uomo, darlo in pasto ai cani, io vorrei vedere che cosa accadrebbe nel mondo con le cretinerie di loro.»

No, purtroppo uomo non è soltanto quello che sempre, prima o poi, si ricorda di esserlo: l’Uomo di Menandro e di Terenzio, il gappista che rinuncia a sparare a un nemico che gli somiglia troppo. Quella è purtroppo una edificante eccezione. Una mèta, un imperativo morale, se non un miraggio. L’uomo nella realtà è soprattutto quello di Tucidide: l’ateniese che allo stesso tempo costruisce la più ricca e tollerante e civile comunità del mondo antico e che – per preservarla e accrescerla – stermina con consapevolezza e con automatica ferocia tutti gli isolani della piccola Melos solo perché la sua neutralità ne potrebbe disturbare l’egemonia. L’uomo può essere tutto e il suo contrario, ‘volgersi al bene come al male’, come già un grande contemporaneo di Tucidide, un poeta (non per caso) tragico come Sofocle, aveva proclamato nel primo coro dell’Antigone.

Uomini e no, riletto alla luce della complessità dell’opera, mi pare insomma un titolo fintamente assertivo e potenzialmente equivoco. Parrebbe dividere con nettezza tra ‘uomini/buoni’ e ‘belve/cattivi’, tra partigiani e nazifascisti. In realtà le pagine del romanzo confondono non poco l’apparente (e confortante) certezza di quel dualismo: approfondiscono cioè via via un lacerante dubbio di fondo, scoprono che quel titolo dissimulava piuttosto un interrogativo basilare circa la bontà della natura umana. E che a quella domanda l’autore ha dato alla fine, con una onestà etica e intellettuale che gli fa onore, una sofferta risposta negativa.

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