Feeds:
Articoli
Commenti

Posts Tagged ‘tragedia’

Ho maltrattato altrove Diego Fusaro giurando che lo avrei da quel momento ignorato, ma questa volta mi tocca riparlarne riconoscendogli, in tutta onestà, un merito: quello di aver tentato a suo modo, e tra pochissimi altri, di smascherare il mito e lo slogan, ormai onnipervasivi, della resilienza. Fusaro lo fa in un suo saggio, brillante ma insidioso (e piuttosto ridondante, come tutti i suoi) dal titolo inequivocabile, diretto come un treno: Odio la resilienza. Contro la mistica della sopportazione (Rizzoli, Milano 2022). Si sa: i nemici dei nostri nemici sono o diventano, per legge di natura, contro la nostra volontà e contro ogni nostra aspettativa, nostri amici, quantomeno occasionali. Il comune nemico mio e di Fusaro è, in questo caso, l’ottimismo obbligatorio di ‘regime’. Il regime è quello, tanto ampio da diventare impersonale e inafferrabile, aziendal-finanziario- mercantilistico che domina l’occidente globalizzato da decenni. L’ottimismo è quello, fasullo, che questo regime vuole imporre per persuadere masse sterminate di consumatori che essi continuano a vivere nel migliore dei mondi possibili e di conseguenza devono continuare, questo mondo, a sostenerlo in tutti i modi e senza riserve così come è, nonostante tutto e all’infinito. L’ottimismo obbligatorio della società consumistica, lo vado ripetendo da sempre, è merce del diavolo. Ben impacchettata, suadente, seducente, ma profondamente corruttiva e rivolta al bene e all’interesse primario di chi lo propaganda. E fin qui concordo col Fusaro. E tuttavia la strategia propagandistica dell’ottimismo obbligatorio è irresistibile perché fa leva su un aspetto incoercibile della natura umana. Tutti noi abbiamo bisogno di speranze e di illusioni per vivere. Tutti noi desideriamo e sogniamo naturalmente – e indefinitamente -, in primis, il benessere e il piacere. E l’ottimismo della propaganda di regime alimenta ogni giorno, ogni istante, fino all’overdose, attraverso i mille canali promozionali che possiede, proprio il desiderio e l’illusione di raggiungerli. Chi coltiva ciecamente desideri e illusioni di benessere e di piacere, infatti, alimenta a sua volta il sistema che le produce e che le vende: non lo mette in discussione e non percepisce i rischi mortali della sua espansione infinita e indiscussa.

La resilienza è l’ultima trovata della neolingua di questo sistema – ha ragione qui il Fusaro. Drammi e problemi gravissimi, figli diretti o indiretti (ma inequivocabili) della mondializzazione capitalistica (dalla pandemia, alle guerre, al disastro ecologico e allo sfruttamento indiscriminato e squilibrato delle risorse) mettono in pericolo imminente la sopravvivenza del genere umano, quindi il “sistema” stesso. E il “sistema” per parte sua quale soluzione propone? La resilienza. Sob! Sarebbe a dire che non dobbiamo attrezzarci, ribellarci, mobilitarci collettivamente in social catena per contrastare e combattere le cause di questi pericoli, bensì adeguarci, sopportarne, accettarne gli effetti, resistere individualmente con forza d’animo, pazienza e speranza infinite… Già, la speranza. Ovvio, dice giustamente il Fusaro, ribellarci e combattere in molti significherebbe muovere contro il sistema. Adattarsi e sopportare e sperare da soli invece non mette in discussione un bel nulla se non noi stessi. Molte volte in effetti su questo blog ho richiamato gli antichi greci per sbugiardare la falsa virtù della speranza. Che significa spesso, come ben sapevano loro, una proiezione illusoria del desiderio, ovvero una infondata autosuggestione: chiudere insomma gli occhi della ragione di fronte alla realtà. Oggi la speranza si chiama meglio “pensare comunque positivo”, cioè fiducia incondizionata nel futuro a prescindere da qualsiasi dato realistico o condizione oggettiva. Una virtù coltivata ingenuamente dagli individui per sopravvivere, ma utile soprattutto al sistema per imbonire le masse e perpetuare se stesso. La speranza così intesa è diventata insomma, nel vocabolario creativo del sistema “turbo-capitalistico”, sinonimo stretto o almeno alleato della resilienza.

Il Fusaro sostiene proprio questo, in buona sostanza. Dice di odiare la resilienza in quanto truffa lessicale, propaganda di un sistema che cerca con tutti i suoi potentissimi mezzi di spacciare per leggi di natura le leggi proprie, quelle cioè che garantiscono i propri interessi di dominio (finanziario, economico, ideologico ecc) ormai planetario. Dice di odiare la resilienza in quanto finto valore utile soprattutto a rovesciare sull’individuo/atomo la colpa di non sapere o volere accettare i crescenti ‘inconvenienti’ del sistema; se non ce la fai ad affrontarli è perché sei un disadattato o un debole o un immaturo; se soccombi è solo perché non sei abbastanza resiliente.

Ora fin qui, ripeto, io concorderei abbastanza col Fusaro. Ma intanto il potentissimo nemico che egli addita è reale, certamente, ma estremamente impersonale, vago, ubiquo, inafferrabile. Chi sono i signori del sistema da combattere: Amazon, le multinazionali, le banche, i mercati, i cinesi? O tutti questi e molti altri insieme? Quali volti concreti ha questo sistema mondiale “turbo-capitalista”? Contri chi e che cosa dovremmo o potremmo rivoltarci? Come e con quali mezzi potremmo farlo? E, soprattutto, coalizzandoci e organizzandoci tra chi? Chi fra noi, in questo momento, dovrebbe o potrebbe farsi promotore e attore di questa rivolta o rivoluzione globale? Appellandosi a quale nuovo manifesto condiviso da un neo-proletariato mondiale? Non trovo al momento, da perfetto profano di sociologia, economia, politologia ecc., una risposta possibile (concreta) a questa domanda. Anche perché questo neo-proletariato politicamente non esiste. I nuovi poveri vittime della macchina turbo-capitalistica mondiale sono certamente milioni, miliardi. Ma quale istanza comune, trasversale, internazionale potrebbe unirli e mobilitarli in una social catena contro il moloch che li minaccia? La realtà è che essi sono tragicamente ed infinitamente divisi, addirittura ostili in primis gli uni verso gli altri. E lasciamo stare l’impotenza sociale delle turbe immense di schiavi sfruttati nei vari terzi e quarti mondi. Ma anche nelle società meno povere come la nostra la polverizzazione categoriale del disagio e/o della vecchia e nuova povertà è evidente: partite iva contro statali, precari contro non precari, categorie protette contro categorie emergenti, italiani contro immigrati, giovani contro anziani ecc. È un bellum omnium (pauperum) erga omnes. Un facile trionfo per il turbocapitalismo internazionale. Un paradosso, direi: all’internazionale socialista del Novecento è subentrata l’internazionale capitalista del nuovo millennio e la vecchia, difficile lotta dei proletari uniti contro i singoli capitalisti si è rovesciata in facile vittoria del grande capitale mondiale unito contro sfruttati divisi, litigiosi, atomizzati, pressoché imbelli.

Fusaro sottace abbastanza questa realtà. Non solo: con tutta la profusione di cultura filosofica con cui maschera la voragine di fondo della sua argomentazione, quando dovrebbe arrivare al nodo della questione, cioè a proporre marxianamente soluzioni “pratiche” (di prassi politica, cioè), non sa appellarsi ad altro che al ridicolo rifiuto della scienza, della fantomatica dittatura sanitaria, quella delle mascherine e dei green pass durante la pandemia, per intenderci: quello sarebbe secondo lui un esempio importante di rivolta contro il sistema! Parturiunt montes, nascitur ridiculus mus

Ma no, dottor Fusaro, abbia pazienza: credo che lei sia abbastanza intelligente per capire che correndo dietro a queste infeltrite bandierine dell’antiscienza, del sovranismo, della patria e della famiglia ecc. non si arriva proprio da nessuna parte…

Io la vedo molto diversa e parecchio più tragica (apocalittica), purtroppo. Vedo che il moloch contro cui si dovrebbe combattere è in realtà una immane macchina sfrenata, lanciata a tutta forza verso un imminente schianto, un blackout fatale che tutti rimuoviamo e che temo sia ormai impossibile evitare. È solo questione di tempo.

E noi? Noi siamo in tragico ritardo.

Perché noi, tutti quanti siamo – diceva il grande scrittore russo Gogol – dormiamo, e sogniamo

Continuiamo pervicacemente a sognare. Che cosa sogniamo? Semplice, ripeto: piacere e benessere. Semplice e naturale. Il sogno che il capitalismo occidentale ci ha educato da decenni a sognare. Il sogno più istintivo e dolce (ma virtualmente pericoloso, come ben sapeva il vecchio Epicuro) che potremmo accarezzare: il sogno edonistico. Perché hedùs in greco significa dolce, appunto, ed hedonè è la dolcezza del piacere. Se il capitalismo occidentale ha costruito nella storia un sistema più efficiente e vincente di tutti gli altri non è per caso: è perché ha prodotto nella società umana, (più male che bene, solo per alcuni e non per tutti, ma di sicuro più diffusamente che altri sistemi) piacere e benessere, certo, ma anche – con il suo formidabile apparato pubblicitario – il cieco e mai sazio desiderio di entrambi. Il turbocapitalismo consumistico ci ha intimamente corrotti, antropologicamente trasformati, snaturati, è vero: ma lo ha fatto a partire dalla sollecitazione sistematica dei nostri più basilari e naturali desideri. Chi poteva resistere a una sollecitazione del genere? Diciamocelo: nessuno può né vuole combattere davvero contro ciò che naturalmente desidera. Tantomeno ci riesce contro chi, in maniera artificiale ma scientifica, sa alimentare quei desideri all’infinito. Non riesco a vedere nel mondo attuale popoli, o gruppi o movimenti che non siano profondamente conquistati dal modello di vita occidentale: anche quelli che sembrano combatterlo con furia, o addirittura minacciano di distruggerlo, nel profondo desiderano eguagliarlo o sostituirlo. Il loro odio dichiarato è in realtà, ne sono convinto, inconfessabile o inconsapevole invidia.

Solo il sistema in realtà potrebbe salvarci da sé stesso. Ma non lo farà. Perché l’interesse immediato di quanti lo guidano è più forte e ingovernabile delle virtù che occorrerebbero loro per frenare la corsa e salvare il convoglio dallo schianto: lungimiranza, misura, sacrificio condiviso e giustizia distributiva sarebbero forse oggi le vere, uniche, ardue strategie di sopravvivenza.  Ma gli insaziabili happy few alla guida della locomotiva si limitano tutt’al più a elogiare a parole queste virtù. In realtà non vogliono e nemmeno possono rallentare la corsa del treno. Preferiscono perciò mantenere tutti gli altri passeggeri, fino all’ultimo poveraccio imbucato nella terza classe, immersi nel sonno e nel sogno…

La vulgata pubblicitaria del turbocapitalismo ha infatti rimosso (ne ho già scritto altrove) negli ultimi sessant’anni dalla cultura dell’uomo medio occidentale la concezione stessa della tragedia: il senso del limite, l’incombenza inevitabile della morte, della sconfitta e del nulla, il dovere drammatico della rinuncia e della scelta. Tutte queste componenti, oggettive e irremovibili della condizione umana, sono state lavate pericolosamente via dalla nostra coscienza collettiva. E ciò è accaduto perché esse sono irriducibili nemiche di un sistema che, per perpetuarsi ed espandersi, ha bisogno di nasconderle e di iniettare sempre e comunque negli individui-consumatori dosi di fideistica e bambinesca (pseudo-umanistica) speranza nel futuro.

Ma quel sistema, caro prof Fusaro, noi non riusciamo purtroppo più di tanto a combatterlo, né tantomeno a odiarlo del vecchio e proverbiale – e a lei ancora caro – odio di classe: perché esso promette a tutti noi, che lo ammettiamo o no – lo ribadisco -, il paradiso verso cui si protendono i nostri profondi e immediati desideri. E noi occidentali, per altro, di quel sistema abbiamo goduto per alcuni decenni vantaggi concreti in abbondanza, più (e a scapito) di ogni altra popolazione al mondo. Perciò, temo, dovremo essere noi a pagarne (e stiamo già iniziando a pagarlo) il prezzo più amaro, senza sconti.

Proprio la rimozione del tragico d’altronde (la poesia e il teatro greco ce lo insegnano) è la condizione più favorevole all’accendersi e al consumarsi, implacabile, della tragedia. Il presupposto della nemesi. Della catastrofe. Di quel doomsday di cui gli uomini di scienza più avveduti stanno aggiornando, ahinoi, proprio in questi giorni la data.

Non so perché ma scrivendo queste cose mi vengono in mente – per inquietante analogia – il Serse di Eschilo, l’Edipo di Sofocle, l’Eracle folle di Euripide e tanti altri grandi archetipi dimenticati (riposti/rimossi: remoti) negli scantinati del mito. Vicende tragiche segnate, tutte, dal sogno ostinato della potenza, dalla hybris del successo, dal naufragio sanguinoso dell’illusione. E dal tardivo riconoscimento della realtà.

Spero che stavolta i miei classici mi tradiscano.

PS: un breve ma penetrante e (molto) condivisibile articolo contro la resilienza (firmato da Maurizio Puppo) si legge altresì in: https://altritaliani.net/contro-la-resilienza-ora-e-sempre-resistenza/

Read Full Post »

Ricevo e volentieri segnalo a mia volta una lettera aperta (diffusa attraverso vari canali di informazione) di miei colleghi lombardi sulla guerra in Ucraina:

https://ilmanifesto.it/lettere/lettera-aperta-degli-insegnanti-sulla-guerra-e-sulla-pace

Condivido pienamente, almeno in linea teorica.

Aggiungo solo, per non restare attaccato alla atroce contingenza di questo e di altri drammatici eventi di attualità, che mi è personalmente difficile pensarli senza il filtro di certi paradigmi culturali (tragici ma illuminanti) della cultura antica. Paradigmi, ahimè, che la cultura contemporanea sembra aver completamente dimenticato.

Personalmente guardo con sgomento e orrore istintivo alla prospettiva apocalittica della fine violenta della storia umana che questa lettera realisticamente paventa. All’inconcepibile che rischia di diventare possibile.

Ma al tempo stesso non posso non essere razionalmente pessimista circa la nostra capacità di scongiurare la catastrofe. Anzitutto perché essa, purtroppo, presenta tutti i caratteri di una Nemesi storica.

Una Nemesi è la conseguenza necessaria, la pena inevitabile, di una Hybris. E la Hybris è la cecità e la tracotanza che travolgono la persona vincente e fortunata quando si lascia inebriare dalla propria vittoria e dalla propria fortuna.

Alcuni decenni fa l’Occidente, il nostro Occidente, si è ubriacato di questa Hybris. Ha creduto di poter impunemente trionfare da vincitore (come i guerrieri dell’Iliade) sul cadavere del proprio nemico morto di morte naturale, di danzare allegramente sulle macerie del suo impero spontaneamente crollato, imploso su se stesso. Ma nell’Iliade questa esultanza smodata avveniva sul cadavere di un nemico sconfitto con valore e lealtà in duello. Ed era comunque, nonostante questo, foriera di sventura. Preludeva alla morte dello stesso vincitore, per la legge alterna ed implacabile della guerra. Così succede regolarmente a Ettore prima (quando esulta sul corpo di Patroclo) e ad Achille poi (quando infierisce sul cadavere di Ettore).

La cronaca di questi giorni, se la si guarda dall’osservatorio sopraelevato della storia, ha tutte le sembianze di una Nemesi che si abbatte sulla cecità dell’Occidente. Di una resa dei conti, insomma.

Non sono affatto, sia ben chiaro, un fustigatore dell’Occidente. Sono anzi convinto che il nostro sia, tra i mondi possibili finora realizzatisi sulla terra, il meno peggiore. Credo altresì che la nostra civiltà abbia maturato ed espresso valori che sono attualmente patrimonio (come si dice adesso) dell’intera umanità. Certo: le bandiere di questi valori sventolano issate sopra enormi montagne di crimini e di sopraffazioni perpetrate nei secoli. Nonostante tutto ciò credo che l’Occidente, il nostro Occidente, soprattutto quello europeo, abbia alla fin fine generosamente dato al genere umano qualcosa di più del moltissimo che pure, con avidità, gli ha sottratto. Non sono molte le civiltà umane che possono vantare questo merito.

E tuttavia una trentina di anni fa l’Occidente si è macchiato, ripeto, di una fatale Hybris. Ha creduto di poter stravincere senza nemmeno aver combattuto. Ha umiliato e strapazzato il cadavere, da tempo mummificato e poi spontaneamente stramazzato al suolo, dell’Oriente europeo.

Ma non si è reso conto di umiliare e di strapazzare così anche i suoi superstiti eredi, confusi e smarriti in quei momenti, quindi apparentemente succubi e remissivi di fronte al vincitore. Ma quegli eredi erano tutt’altro che inermi. Anzi erano ancora armati fino ai denti di armi potentissime, catastrofiche, pari alle nostre. Strana vittoria questa su un nemico cui non si è chiesta (né si poteva farlo) la resa delle armi. Strana pretesa del presunto vincitore di togliere all’avversario potere, influenza e centralità solo perché quello era morto di morte naturale e i suoi eredi non sapevano al momento come gestirne l’eredità. Strana cecità e pericolosissima illusione nutrite, entrambe, dalla vittoria. Pura Hybris, appunto.

Nella tragedia greca sono frequenti le vicende di personaggi che, come il nostro Occidente, si ubriacano del successo presente e non sanno leggerne le disastrose conseguenze future. Poi quando la catastrofe sopraggiunge, improvvisa, inattesa – aprono gli occhi, finalmente: ma con grande fatica e a proprio danno. E, soprattutto, quando è troppo tardi. Perché la saggezza tragica, si sa, è sempre tardiva. Perciò inutile a chi finalmente la consegue. Utile solo, forse, ad ammonire gli spettatori, finché si tratta di uno spettacolo teatrale.

Ma qui, di fronte alla catastrofe che si annuncia all’orizzonte, noi non siamo semplici, ammaestrabili spettatori di una tragedia. Ne siamo corresponsabili, partecipi e potenziali vittime. Come Edipo, come Serse, come Eteocle. Eteocle più di tutti è quello che ci assomiglia di più. Ma non completamente.

L’Occidente, negli ultimi decenni avrebbe dovuto (più che potuto) fare molte cose: una politica estera di equilibrata collaborazione economica e di integrazione politica nei confronti del vecchio nemico; una seria e profonda strategia di disarmo atomico bilaterale; una Östpolitik illuminata, inclusiva, lungimirante, di ampio respiro. Ubriaco della caduta del muro, l’Occidente non fatto nulla di tutto questo. Ha lasciato che i semi dormienti della rivalsa e della frustrazione covassero sotto le macerie dell’Oriente sconfitto e impoverito, convinto che non avrebbero mai più fruttificato. L’occidente non ha capito che il terreno desolato che abbandonava ad est dei suoi dilatati confini poteva essere il più adatto a nutrire, alla lunga, un dispotismo barbarico e revanscista.

L’Europa ha mancato un’occasione storica per dare fondamenta stabili a una pace vera e duratura. Adesso temo che sia troppo tardi. Il nuovo duello che si profila potrebbe essere l’ultimo e fatale, vale a dire – nella logica vecchia ed assurda ma ineluttabile della guerra – inevitabile. Quello dell’apocalisse. Quello tra Eteocle e Polinice. Quello attraverso cui Nemesi trionfa sopra i cadaveri dei due fratelli-nemici che si sono uccisi l’uno per mano dell’altro. E il prezzo della vittoria di Nemesi potrebbe essere l’annientamento stesso della nostra stirpe, o di una buona parte di essa.

Non esiste un al di là di una terza guerra mondiale, di una guerra nucleare generalizzata”: hanno ragione da vendere i miei colleghi firmatari della lettera che ho linkato sopra. Ascoltare giornalisti che in un salotto televisivo discettano su di una imminente guerra nucleare come se si trattasse di una opzione militare tra le altre fa rabbrividire. È il segno che quella Hybris continua a chiuderci gli occhi (e ad aizzare la Nemesi) persino in faccia alla rovina.

E allora, che fare? Ecco la domanda tragica per eccellenza. Quella che tormenta Eteocle quando sta per scendere alla settima porta di Tebe, la città di cui ha usurpato il potere esclusivo a spese del fratello, ma che adesso egli deve e vuole difendere eroicamente dall’aggressione di quello, che lo attende fuori da quella porta per ucciderlo ed esserne ucciso. Ma Eteocle non rinuncia a scendere, nonostante le donne di Tebe – consapevoli come lui di quello che sta per accadere – lo implorino di non farlo. Eteocle è prigioniero della logica distruttiva della Nemesi tragica. Che è la stessa medesima logica della guerra. Ma il suo gesto fratricida, insieme al suo onore militare, salva la sua città. Giova almeno alla sua comunità.

La guerra totale che ci minaccia adesso, dopo l’avvento delle armi atomiche, non rispecchia se non in parte quella del mito. Assomiglia e non assomiglia alle nostre guerre precedenti. La Nemesi che incombe su di noi rischia infatti – pur rimanendo incatenata alla legge del taglione e dell’onore militare – di distruggere la nostra specie e la nostra civiltà, non certo di salvarle, né di ristabilire un qualsiasi, fruibile ordine materiale e morale. Una Nemesi atomica sarebbe enormemente sproporzionata alla Hybris commessa. Sarebbe un’ecatombe definitiva, mostruosa – e inconcepibile nella sua mostruosità. La fine della nostra storia. Nient’altro.

Con la minaccia atomica l’inconcepibile rischia di diventare possibile.

Perciò anche l’impossibile (spezzare per tempo la logica arcaica, perversa e incatenante della guerra) diventa obbligatorio.

Hanno ragione quindi – una ragione pratica, solidamente realistica – i firmatari della lettera. Diventa moralmente obbligatorio arrestare al più presto e in ogni modo questa guerra, prima che diventi impossibile fermare il passo che ci trascinerà nel baratro.

Bisogna avere il coraggio rivoluzionario di rinunciare a scendere (come mai Eteocle avrebbe rinunciato a fare) alla settima porta. Già: ma come affrontare Polinice che ha aggredito Tebe con un imponente esercito? Come inchiodare anche lui, che non ha esitato a scatenare un conflitto fratricida contro la sua città, a questo obbligo morale? Mi auguro – voglio credere – che si trovi presto una risposta concreta a queste angosciose domande.

Read Full Post »

Pasolini, nasce la bibliografia delle opere friulane - Libri - Altre  Proposte - ANSA
Aforismario: Massime, sentenze e frammenti di Epicuro

Perché ce l’ho tanto con la pubblicità? Forse perché sono un disadattato, un passatista, un donchisciotte che combatte i mulini a vento della modernità. Non so: lascio ai lettori giudicare. Mi basta, per parte mia, fare alcune considerazioni sparse per circostanziare la mia strana idiosincrasia:

1) tra la fine degli anni sessanta e gli inizi dei settanta Pier Paolo Pasolini indicava nel modello di sviluppo consumistico il vero, nuovo fascismo. Non aveva torto: anche se formalmente questo sistema non ti impone nulla, nei fatti è talmente condizionante e totalizzante che non ti lascia alternative né scappatoie. E la pubblicità di questo sistema è l’anima, il cuore pulsante e la mano operativa.

2) Pasolini avrebbe confermato in pieno il suo giudizio (profetico) sul sistema consumistico se fosse arrivato a conoscere l’èra di Internet, l’epoca della proliferazione all’infinito di ogni forma di marketing dentro l’immondezzaio pubblicitario della rete. Si ha un bel dire che uno, volendo, può ignorare la pubblicità; in realtà vi siamo immersi, come lo siamo nella luce del sole o nell’aria che respiriamo. Prima c’erano carosello e i tabelloni pubblicitari, vale a dire che c’erano momenti e spazi regolati per la pubblicità. Adesso è diventato uno stalking, un pressing persecutorio, con la pervasività dell’acqua che invade ogni interstizio, s’infila in ogni pertugio libero della nostra esistenza. Quello che non riesce ad avere con la seduzione raffinata vuole perseguirlo con l’invadenza spudorata ed il tambureggiante lavaggio cerebrale. La pubblicità oggi percorre mille strade senza trovare più divieti di accesso: giornali, tv, radio, spazi fisici pubblici esterni ed interni, linee telefoniche fisse e mobili, e, soprattutto, il web con tutte le sue diaboliche virtualità. Tutto il resto che questi media dovrebbero fare perché sono costituzionalmente deputati a farlo (informazione, formazione, cultura, spettacolo) diventa secondario e ancillare rispetto alla pubblicità, nel senso che essi non potrebbero nemmeno esistere senza i finanziamenti che solo la pubblicità garantisce loro. Figuriamoci se possono esprimersi senza uniformarsi più e meno direttamente alla sua filosofia.

3) Siamo costretti da questo sistema non solo a subire continuamente la pubblicità ma anche a diventarne soggetti attivi e collaborativi. Oramai non esistono quasi più, per esempio, professioni o mestieri o occupazioni che non implichino strategie o attitudini promozionali, cioè ‘pubblicitarie’ in senso lato. Se fai il commerciante o l’artigiano o libro professionista una bella dose di autopromozione devi sobbarcartela. Ma anche se sei insegnante, per fare il mio esempio, non puoi oggi più esimerti dal contribuire (negli open days, nelle giornate dell’orientamento ecc.) alle iniziative propagandistiche del tuo istituto a caccia di iscritti; perciò non puoi più permetterti di fare il Socrate o il libero pensatore… Persino se fai a tempo perso lo scrittore puoi scordarti il buen retiro nel tuo eremo creativo, perché dovrai presentare e pubblicizzare i tuoi scritti, un’attività ingrata di cui quasi tutti gli editori ormai si infischiano altamente. Accanto a questo proliferare di attori e agenzie pubblicitarie scarseggia sempre più la presenza di filtri critici oggettivi e competenti: per mille vini in vendita ci sono mille osti a decantarcene la bontà, ma sempre meno enologi a garantircela.

4) Scopo primario ma non esplicito della pubblicità (al di là della vendita del prodotto) è inculcare negli individui una visione edonistico-consumistica del mondo, e sollecitare (o indurre) in loro sogni e desideri talmente primitivi e profondi che non c’è razionalità che possa (tanto meno voglia) resistervi. Prima che promuovere consumi la pubblicità mira a plasmare in chi la subisce la forma mentis del consumatore.

5) Il sistema edo-consumistico è giovanilista, non solo perché si rivolge ai giovani ma perché tende ad affermare un modello pan- giovanilistico: brillantezza, intraprendenza, energia, ottimismo, salute, eros, prestanza, vitalità. Ci induce a immaginarci e a desiderarci sempre giovani e belli come gli antichi dèi greci… Questo modello infatti, per quanto irrealizzabile, conquista facilmente l’immaginario collettivo e lo rende più sensibile alla corruzione indotta del sistema e il più utile alla sua perpetuazione. Tracce della terza età nei messaggi pubblicitari sono rare e patinate, mentre i cinquantenni che vi compaiono sono opportunamente vitaminizzati in vista di prestazioni giovanili. D’altro canto il sistema che produce pubblicità ha bisogno di un pubblico inesauribilmente desiderante, sempre proiettato al nuovo e al futuro: quindi, almeno psicologicamente, giovane.

6) L’ottimismo della pubblicità è – per i miei gusti – quanto di più artefatto, irritante e disgustoso si possa immaginare, ma – dal punto di vista di chi produce la pubblicità – irrinunciabile, obbligatorio. Come creare un pubblico di consumatori se soltanto si ammette la sfiducia o lo scetticismo nella positività del reale, nella realizzabilità dei desideri, nella felicità sostanziale di un mondo votato e destinato al piacere?

Di conseguenza di fronte a vari problemi la pubblicità offre soluzioni pronte e miracolistiche, di fronte alle tragedie invece tace, rimuove, glissa, al massimo allude.

Esempio eclatante di questa rimozione e/o di questo ricorso alla allusività obliqua e sfumata si è avuto nel periodo iniziale e più drammatico della pandemia. Mentre la gente viveva impaurita e chiusa in casa alle prese con una tragedia collettiva, la pubblicità continuava a correre come sempre nei palinsesti televisivi: in parte riproponendosi uguale a prima, come se nulla stesse accadendo, in parte invece alludendo in maniera vaga o metaforica o indiretta al dramma del momento, evitando accuratamente di chiamarlo per nome, e lusingando o incoraggiando quotidianamente lo spirito di ‘resilienza’ del consumatore. Come tutte le ideologie (o fedi) forzosamente ottimistiche, infatti, la pubblicità non può ammettere l’esistenza tragica e insuperabile del male, deve rimuoverla o declassarla a variabile dipendente della nostra capacità di resistenza e di reazione. Nell’insieme il gusto di questi spot nel colmo della pandemia risultava caramelloso, paternalistico, consolatorio. Ma il messaggio di fondo che veniva sempre e comunque – scontatamente – trasmesso era l’invito martellante a tenere lo sguardo alto, proiettato al di là dell’innominabile presente, verso il futuro di una possibile, vicina liberazione. Quella liberazione dal pericolo mortale che tutti ovviamente desideravano per sé ma che il sistema edo-consumistico desiderava ancora di più per rilanciare la locomotiva, per poter ricominciare a correre a pieno ritmo, come prima.

7) Domanda ultima: perché opporsi alle sirene della pubblicità se esse ci offrono quello che ci piace o che comunque può piacerci? Perché opporci al sistema edo-consumistico se promette di realizzare, come il genio della lampada, i nostri desideri? Se con un clic posso avere a casa mia in poche ore e a prezzi stracciati un prodotto che desidero, perché preoccuparmi se chi lo produce è uno schiavo e se chi me lo recapita è un rider h24 e se l’impresa che me lo fornisce è un megalodonte planetario che sta sbranando tutte le concorrenze locali? Sperare in una autoregolamentazione etica generalizzata degli individui/consumatori è forse una pia illusione. E un individuo che si opponga al sistema edo-consumistico rischia di apparire a se stesso, prima che agli altri, uno sciocco e anacronistico piagnone. Eppure, se ragionassimo in termini di convenienza e non di giustizia, ci accorgeremmo che l’illusione più catastrofica è oramai proprio la fiducia, cieca e illimitata, che il genio della lampada possa esaudire all’infinito i nostri desideri. Presto infatti, così continuando, non riuscirà ad accontentarci più neanche nei nostri bisogni primari. E la catastrofe non riguarda i nostri discendenti in un futuro lontano. Incombe su di noi e sui nostri figli. Disastro ambientale e climatico, esaurimento delle materie prime, sovrappopolazione, miseria e immiserimento crescenti, diseguaglianze abissali. Senza porre dei limiti alla espansione di questo sistema si finisce presto – domani o dopodomani – nel baratro.

8) Eppure il vecchio Epicuro, senza sapere nulla di noi né del neocapitalismo edonistico moderno, aveva già capito tutto. Aveva capito sì che il piacere, proprio lui, è la mèta e che il desiderio di esso è il motore della nostra esistenza. Ma proprio perciò aveva stabilito limiti rigorosi e regole selettive alla fruizione del piacere stesso, perché sapeva bene che, assecondandoli e titillandoli all’infinito, piacere e desiderio producono solo infelicità e conducono alla catastrofe. Aveva già abbozzato a suo modo la teoria di una “non-crescita felice”. L’edonista Epicuro sarebbe oggi il più fiero antagonista del sistema edo-consumistico e della sua deriva pubblicitaria. Non avevano capito male di lui, nell’antichità, quei moralisti cristiani che lo consideravano un loro fratello spirituale. Per essere un vero edonista, per godersi davvero la vita, bisogna saper rinunciare a molto. Anche Orazio, che era un edonista laico ed epicureo, la pensava allo stesso modo. Ma questa della rinuncia è una virtù che le ultime generazioni – successive a quella uscita dall’ultima guerra – hanno completamente smarrito. Sulle loro coscienze il nuovo fascismo di cui parla Pasolini ha funzionato alla perfezione.

Read Full Post »

Costruire il futuro 2017/2018 | Cos'è la Scienza? Come progredisce? |  19.12.2017 | Fondazione per la Scuola

Scrivevo in un post di alcuni anni fa che negli ultimi decenni il senso della parola libertà è profondamente cambiato in peggio. Si è snaturato. Nel novecento infatti, dopo le esperienze tragiche dei totalitarismi, nel linguaggio politico e sociale libertà significava soprattutto la condizione di chi non è schiavo né assoggettato a qualsiasi dominio prevaricatore o dispotico. Già nell’Italia degli ultimi venticinque anni, tuttavia, lo stesso termine ha cominciato a campeggiare sui vessilli e nella propaganda di vari partiti politici nel più ambiguo significato di licenza, arbitrio, diritto di fare ciò che si vuole a dispetto del bene collettivo e del rispetto della legalità. Ora la pandemia ha fatto il resto. Come succede spesso nelle situazioni di grave emergenza, il covid ha portato inequivocabilmente in superficie (nei media e nelle piazze) il fondo semantico nuovo ed impuro che si nascondeva sotto la vecchia e nobile etichetta verbale.

Non è difficile capire, per altro, che cosa abbia provocato la mutazione semantica del termine. La nuova libertà è figlia della società dei consumi e dell’individualismo edonistico sfrenato generato prima dal boom economico degli anni sessanta e nutrito poi dal liberismo ideologico trionfante degli anni ottanta e novanta: quello – per capirci – che ha trascinato il pianeta verso tutte le catastrofi (economica, ecologica, sanitaria) che incombono oggi sul nostro immediato futuro.

Colpisce tuttavia (ma non stupisce) che i crociati di questa nuova libertà rappresentino ancora, sopra i loro scudi e sui loro stendardi, il nuovo idolo secondo la vecchia e più rispettabile immagine originaria. Dichiarano infatti per lo più che la libertà che idolatrano è un valore prezioso minacciato da un qualche oscuro disegno totalitario: una sorta di complotto (?!) politico-plutocratico insomma che, con la scusa di difendere la gente dal virus, vorrebbe imporre a tutti il guinzaglio di regole e di divieti liberticidi.

Ora è chiaro come il sole che questa difesa a spada tratta della libertà (intesa come licenza di continuare a vivere beatamente spaparazzati dentro l’occhio del ciclone di una tragedia immane) riposa sopra una gigantesca rimozione dei limiti insuperabili della condizione umana. Limiti che la corruzione edonistico-consumistica degli ultimi decenni hanno reso ormai impercettibili e perciò inaccettabili alla coscienza di molti individui.

È chiaro altresì come questi strenui fautori della libertà/licenza abbiano razionalizzato, rimuovendola e nobilitandola in ideologia antiscientifica inscalfibile, la propria difficoltà psicologica di accettare il principio di realtà e di affrontare e di elaborare da persone adulte la paura della privazione, della sofferenza e della morte.

È chiaro anche e più che comprensibile che a questi oltranzisti del principio del piacere guardino con interesse e simpatia, oltre che le solite forze politiche di cui sopra, anche numerose categorie sociali concretamente e talora duramente danneggiate dal virus sul piano economico

Non riesco invece, proprio per nulla, a comprendere come tra i simpatizzanti o addirittura tra i fiancheggiatori di questi irriducibili possano esserci insegnanti e dirigenti della scuola pubblica. Perché pare proprio, ahinoi, che ce ne sia qualcuno in giro. Pochissimi, per fortuna – almeno a quanto mi risulta. Ma pur sempre troppi, a mio avviso. Un insegnante e, ancora peggio (vista la sua posizione dirigenziale), un preside non possono infatti in nome di questa strana e malintesa libertà negare l’autorevolezza e il primato della scienza. Parlo della Scienza autentica (perciò ufficiale), quella galileiana, per intenderci a scanso di equivoci. Non possono negarli, perché chi insegna e chi dirige la scuola ha tra i suoi compiti deontologici primari quello di preparare i giovani a diventare uomini e cittadini adulti. Di emanciparli cioè in maniera critica da quella condizione di sudditanza agli istinti, al pressapochismo culturale, alla seduzione delle mode, della pubblicità e delle ideologie che la società attuale, attraverso mille canali, esercita su di loro. Chi insegna e chi dirige la scuola di questi tempi ha insomma il compito ingrato di immunizzare i giovani dai molti rischi della massificazione. E io non vedo (pur essendo un letterato) come oggi la scuola possa riuscire in questo compito senza affidarsi principalmente alla scienza e al suo  metodo.

La scienza galileiana svolge il ruolo principale in questa educazione, proprio perché insegna a distinguere la sfera dell’opinabile da quella dello scibile: quella sfera nella quale qualcosa si può affermare solo sulla base di una esperienza riproducibile e di una rigorosa dimostrazione. Un qualcosa cioè che non può essere confutato da nessuna idea opinabile ma soltanto da un’altra esperienza e dimostrazione contraria altrettanto riproducibile e rigorosa. Un metodo che vale per le varie scienze matematiche e naturali, ma che dovrebbe, per quanto possibile, essere applicato anche nelle varie discipline umanistiche, se non si vuole insegnarle in maniera dilettantesca.

Perché questo è il guaio della nostra epoca: il primato schiacciante, multiforme e pervasivo del marketing ha prodotto il trionfo totale di una nuova sofistica: il dominio cioè della persuasione, della chiacchiera e del vacuo debate a scapito della vera conoscenza.

Ma già gli antichi sapevano che tra opinione e verità scientifica c’è un abisso.

Dovrebbero saperlo ed accettarlo anche tutti quanti gli insegnanti e i dirigenti della nostra scuola pubblica se vogliono continuare a esercitare legittimamente il proprio mestiere.

[ NB: Qualche doverosa puntualizzazione aggiuntiva:

1) è chiaro che bisogna distinguere tra conoscenze scientifiche e le conseguenti applicazioni operative adottate da governi e amministrazioni varie: queste ultime sono ovviamente discutibili da molti punti di vista, soggette perciò al libero dibattito politico.

2) Se la scienza in sé è neutra e non opinabile non si può dire sempre la stessa cosa degli scienziati, purtroppo. Ma per distinguere gli scienziati affidabili da quelli disonesti non serve essere a propria volta scienziati, bensì essere solidamente formati – dalla scuola in primis – a una mentalità (cioè a un modo di ragionare e di valutare) altrettanto scientifica.

3) La scienza può diventare strumento di poteri dispotici solo quando le sue conoscenze restano nelle mani di pochi potenti che possono sfruttarle a loro elitario ed esclusivo vantaggio: quanto più numerosi sono i cittadini che acquisiscono una robusta formazione scientifica, tanto più facilmente le conoscenze della scienza possono ricadere positivamente, ispirando le scelte pubbliche, sulla collettività. Ma una robusta, seria e diffusa formazione scientifica può solo essere fornita dalla scuola, non certo da internet né dai media. ]

Read Full Post »

Risultato immagini per vittorini

«Non l’hai fatto fuori?» «Era troppo triste». Finisce così Uomini e no di Elio Vittorini, con uno scambio di battute tra due gappisti reduci da una azione armata contro una pattuglia tedesca. Finisce, per me, con una sorta di dejà lu letterario. Con tutta probabilità Vittorini aveva letto Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, e conosceva la scena in cui due soldati italiani, arrivati senza farsi accorgere a tu per tu con un nemico ignaro e isolato, rinunciano a sparare a colpo sicuro:

«Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo. Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s’erano formate due coscienze, due individualità, una ostile all’altra. Dicevo a me stesso: «Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, così!»   Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l’esame di quel processo psicologico. V’è un salto che io, oggi, non vedo più chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra: – Sai… così… un uomo solo… io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose: – Neppure io.».

L’episodio narrato da Lussu mi sembra in effetti il sottotesto ideale della laconica risposta del gappista di Vittorini: illumina cioè il tormentato sommovimento psicologico che vieta – eccezionalmente – a un soldato di uccidere, rivela la parte nascosta dell’iceberg di cui lo scambio secco di battute dei personaggi di Vittorini è la punta emersa. Homo sum, nihil humani a me alienum puto: per Vittorini sarebbe dunque la persistenza di questa fiammella di humanitas, non spenta dalla macchinale crudeltà della guerra, a tracciare la linea di demarcazione tra uomini e no. Come a dire: in guerra rimane uomo soltanto chi non dimentica di esserlo e sa ancora riconoscere nel nemico un proprio simile. Sarebbe: ho usato il condizionale, perché poi in realtà, in altri passaggi di Uomini e no, questo umanesimo di marca antica applicato alla nostra resistenza – questo modello antropologico per certi versi rassicurante perché facilmente condivisibile come oppositum della bestialità – è messo in discussione da Vittorini, o meglio superato da una riflessione più complessa e tragica. Dopo aver descritto la ferocia di Clemm, il capo delle SS che lascia sbranare dai suoi cani un partigiano prigioniero che ha obbligato a denudarsi, lo scrittore infatti commenta:

Appena vi sia l’offesa, subito noi siamo con chi è offeso, e diciamo che è l’uomo. Sangue? Ecco l’uomo. Lagrime? Ecco l’uomo. E chi ha offeso che cos’è? Mai pensiamo che anche lui sia l’uomo. Che cosa può essere d’altro? Davvero il lupo? Diciamo oggi: è il fascismo. Anzi: il nazifascismo. Ma che cosa significa che sia il fascismo? Vorrei vederlo fuori dell’uomo, il fascismo. Che cosa sarebbe? Che cosa farebbe? Potrebbe fare quello che fa se non fosse nell’uomo di poterlo fare? Vorrei vedere Hitler e i tedeschi suoi se quello che fanno non fosse nell’uomo di poterlo fare. Vorrei vederli a cercar di farlo. Togliere loro l’umana possibilità di farlo e poi dire loro: Avanti, fate. Che cosa farebbero? Un corno, dice mia nonna. Può darsi che Hitler scriverebbe lo stesso quello che ha scritto, e Rosenberg lui pure: o che scriverebbero cretinerie dieci volte peggio. Ma io vorrei vedere, se gli uomini non avessero la possibilità di fare quello che fa Clemm, prendere e spogliare un uomo, darlo in pasto ai cani, io vorrei vedere che cosa accadrebbe nel mondo con le cretinerie di loro.»

No, purtroppo uomo non è soltanto quello che sempre, prima o poi, si ricorda di esserlo: l’Uomo di Menandro e di Terenzio, il gappista che rinuncia a sparare a un nemico che gli somiglia troppo. Quella è purtroppo una edificante eccezione. Una mèta, un imperativo morale, se non un miraggio. L’uomo nella realtà è soprattutto quello di Tucidide: l’ateniese che allo stesso tempo costruisce la più ricca e tollerante e civile comunità del mondo antico e che – per preservarla e accrescerla – stermina con consapevolezza e con automatica ferocia tutti gli isolani della piccola Melos solo perché la sua neutralità ne potrebbe disturbare l’egemonia. L’uomo può essere tutto e il suo contrario, ‘volgersi al bene come al male’, come già un grande contemporaneo di Tucidide, un poeta (non per caso) tragico come Sofocle, aveva proclamato nel primo coro dell’Antigone.

Uomini e no, riletto alla luce della complessità dell’opera, mi pare insomma un titolo fintamente assertivo e potenzialmente equivoco. Parrebbe dividere con nettezza tra ‘uomini/buoni’ e ‘belve/cattivi’, tra partigiani e nazifascisti. In realtà le pagine del romanzo confondono non poco l’apparente (e confortante) certezza di quel dualismo: approfondiscono cioè via via un lacerante dubbio di fondo, scoprono che quel titolo dissimulava piuttosto un interrogativo basilare circa la bontà della natura umana. E che a quella domanda l’autore ha dato alla fine, con una onestà etica e intellettuale che gli fa onore, una sofferta risposta negativa.

Read Full Post »

DRAMMA, FARSA O TRAGEDIA? | Blog di giuli44
15 novembre 1960 : la prima storica trasmissione del maestro Alberto Manzi  “Non è mai troppo tardi” – San Paolino's Voice

Parlando in tv della situazione attuale Corrado Augias l’ha definita più di una volta una tragedia. E ha spiegato in perfetta sintesi, da intellettuale saggio, cólto e navigato quale è, anche il perché: è una tragedia perché continuamente si deve operare una scelta: tra la salute e l’economia, tra esigenze sanitarie ed esigenze sociali ecc. E questa scelta obbligata comporta comunque – qualunque strada si scelga -, insieme ad un possibile giovamento, anche una sicura perdita, un drammatico prezzo da pagare. Bravo il vecchio (e non per caso) Augias. Sì, perché modernamente la parola tragedia si è tanto inflazionata da smarrire il proprio significato autentico e più antico che invece Augias ben conosce. Tragedia non è infatti, genericamente, un qualsiasi evento luttuoso. Il cuore di una vicenda tragica è la fatale drammaticità della scelta. «Che fare?» si domandano spesso, di fronte a un bivio ineludibile, i personaggi del dramma greco antico: decidere, in una tragedia, è un obbligo e una condanna. Una sanguinosa necessità. Perché non si deve decidere tra il bene e il male, ma tra due alternative ugualmente/diversamente ‘buone’ e ‘cattive’, utili e nocive insieme. Se siamo invece ubriacati e rimbambiniti dall’ottimismo retorico pervasivo della pubblicità, dei media e delle fiction cine-televisive pop (dove contano solo il lieto fine e la distinzione netta e fittizia tra bene e male, o tra buoni e cattivi) allora non siamo più in grado di avvertire l’incombenza della tragedia, né di affrontarla fattivamente da adulti. Perché il ‘racconto pop’ di noi stessi che ci somministra ogni giorno il sistema edo-consumistico di massa è una droga che ottunde il senso del tragico e ci immerge in una sognante melassa moralistico-sentimentale: il brodo di cultura più adatto per l’individuo eterno adolescente di oggi. Anziché aiutarci ad affrontare con coraggio e responsabilità la scelta, questa ‘racconto’ ne rimuove la necessità: ci consola illudendoci che ne usciremo semplicemente ‘resistendo’. Continuando cioè, a nostro e altrui danno, a non scegliere.

Proteste, sit-in, accorati appelli per la scuola in presenza, invettive contro la Dad, requisitorie contro l’effetto spersonalizzante del computer, lo smarrimento dei contatti umani nella solitudine vissuta davanti a uno schermo… Protestano intellettuali, insegnanti, studenti. Penso lì per lì: critiche giuste, sacrosante. Non si possono tenere un anno i ragazzi tutti a casa solo perché nel frattempo non si sa o non si vuole migliorare il trasporto scolastico, organizzare una scuola più sicura con una frequenza parziale, che sia al 50 o 70%… Poi però leggo sui giornali che l’80% dei ragazzi delle superiori non vorrebbe tornare fisicamente a scuola perché lo ritiene ancora pericoloso. E poi apprendo da un serissimo programma di inchiesta televisiva che molti nostri adolescenti passano qualche ora del giorno davanti a uno schermo per seguire indiavolati influencer o streamer, loro coetanei o poco più grandi, che li rimbambiniscono con intrattenimenti futili, demenziali e/o compulsivo-ossessivi. E poi, ancora, penso a mio padre e ai suoi coetanei, giovanissimi durante l’ultima guerra, che hanno perso anni di scuola sotto i bombardamenti o al fronte o nei campi di prigionia, e si sono diplomati solo nel dopoguerra. E poi penso al maestro Manzi che nei primi anni sessanta ha istruito dal piccolo schermo migliaia di analfabeti ed appassionato anche me, bambino, che lo seguivo tutti i giorni in tv. E mi faccio delle domande: quanto sono giustificati (e non ideologici) gli appelli degli intellettuali contro la telescuola? Quanto sono sincere ( e rappresentative) le proteste degli studenti se poi in realtà a scuola non vogliono tornarci? O se soffrono tanto davanti a un computer quando si collegano col loro prof, ma non altrettanto quando si collegano con uno youtuber di successo? Mio padre (che era un operaio specializzato con licenza elementare) e quelli della sua generazione (che ha annoverato fior di intellettuali) hanno imparato dai tragici orrori della guerra di più o di meno di quanto avrebbero imparato frequentando regolarmente la scuola e l’università? Insomma mi viene qualche dubbio, non certo sulla indiscutibile limitatezza e imperfezione della Dad, ma sulla giustezza, la credibilità e la proporzione (dato il momento) delle recriminazioni e delle lamentazioni che si levano contro di essa.

A proposito di lamentazioni. Le più alte e sicuramente le più giustificate provengono, oltre che dal mondo della scuola, da quello delle arti, del teatro, del cinema. Sacrosante anche queste, se fossimo in una situazione normale. Comprensibilissime, visto che si tratta di professionisti che vivono di questo loro nobile mestiere. Non ho personalmente dubbi (e questo blog credo lo testimoni abbastanza) che la produzione e la fruizione della cultura umanisticamente intesa sia (o debba essere) lo scopo principale per cui stiamo al mondo. Che possiamo dirci esseri umani soprattutto per questo. Sono convinto insomma che la cultura sia la cosa più importante, del mondo e nel mondo degli uomini. Ma, ahinoi, non viene per prima. È l’ultimo gradino, il perfezionamento ultimo della nostra humanitas. Quando per necessità contingenti l’umanità regredisce a bisogni primari la cultura, purtroppo, non può che farsi (o essere messa) da parte. E deve attrezzarsi, come può, a sopravvivere, per continuare a far sentire la sua flebile ma importantissima voce. Not least but last.

Read Full Post »

Risultati immagini per prima dell’alba malaguti

Difficile che mi metta a leggere d’impegno un romanzo appena uscito, men che meno un romanzo di quelli in cima alla classifica delle vendite. La vita non basta per leggersi bene tutti i grandi classici della letteratura che meriterebbero di essere letti, figurarsi se può bastare per leggersi tutte le (vere e presunte) grandi novità letterarie che ogni giorno l’industria editoriale lancia sul mercato con il megafono di recensori di grido più e meno compiacenti. Beninteso: tra queste novità ci può ben essere il capolavoro; sicuramente diverse tra queste sono letterariamente più che dignitose e magari anche degne di lettura. Ma tant’è: ars longa vita brevis. Il rischio di sprecare tempo, se non si va sul sicuro, è molto alto. Confesso: non ho letto una riga dei libri di Saviano (solo qualche articolo di giornale); poco o nulla di Baricco (e mi sono pentito del poco); zero della misteriosa Elena Ferrante, di Scurati, persino di Camilleri (che pure ho apprezzato attraverso le sceneggiature delle fiction televisive). Sono decisamente fuori passo con i tempi della letteratura trionfante e militante dei giorni nostri. Perdermi un best-seller, anche in odore di alta qualità, mi dà una goduria pazzesca. Per incuriosirmi di un’opera non mi basta il giudizio allettante di un settimanale di informazione libraria. Ho bisogno del giudizio della storia. Sissignori. Perciò sono fermo a Calvino e Fenoglio o giù di lì.

Ci sono state per me poche eccezioni a questa regola. Lessi per esempio Il nome della rosa di Eco appena uscì, in pochi giorni e con molto coinvolgimento. Salvo poi, a pagine chiuse, giudicarlo mediocre a dispetto della consumatissima perizia artigianale con cui è costruito e della mostruosa cultura che trasuda da ogni riga. Quando ho derogato alla mia regola, l’ho fatto talora per ragioni non strettamente letterarie. Così mi è successo per Prima dell’alba di Paolo Malaguti, pubblicato pochi mesi fa da Neri Pozza.

Mi ha avvicinato a questo bel romanzo soprattutto una ragione familiare. Il libro è dedicato, infatti, ad uno sventurato artigliere della grande guerra fucilato dopo la rotta di Caporetto per il gravissimo reato di tenere in bocca un sigaro al cospetto di un suo superiore. Questo soldato era un avo di mia moglie. La sua fine tragica e assurda, tornata alla ribalta durante le celebrazioni del centenario della fine della prima guerra mondiale, è stata rievocata di recente da varie pubblicazioni storiche. La sua figura (prima caduta sotto la mannaia di una assurda damnatio memoriae) finalmente riabilitata.

Ma il libro di Malaguti non parla direttamente – cronachisticamente – di questa vicenda. Parla soprattutto, e per metà, della atroce condizione di vita nelle trincee. Ne parla riappropriandosi, con fedeltà onomastica scrupolosa, del gergo – ruvido, sarcastico, fantasioso perfino – adoperato dai soldati al fronte. Quella lingua speciale che ribattezza le cose non tanto per identificarle in sé, quanto per esprimere  – attraverso la forma straniante delle parole, il loro suono scabro, la loro sinistra potenza fantastica ed evocativa – il modo stesso di vivere, giudicare e patire la guerra di trincea. È su questa inedita operazione linguistica, su questa impronta marcata e tagliente dello stile che Malaguti costruisce la parte più efficace – a mio parere – del suo racconto. Quella nella quale l’autore ci scaraventa letteralmente tra il fetore, lo squallore, il sangue di quell’orrendo mattatoio che fu la grande guerra. Quella in cui risuscita l’incubo di una lontana generazione di giovani sventurati e ci avvolge in quella tremenda e quotidiana atmosfera di agonia collettiva.

Poi, certo, c’è anche un’altra metà della storia. Un racconto poliziesco nel quale Malaguti ricostruisce passo dopo passo, in un’alternanza netta e ritmica di piani temporali con l’altra metà, l’inchiesta intrapresa da un commissario di polizia molti anni dopo (nel 1931) per scoprire il responsabile di un misterioso delitto consumato su di un treno, tra Prato e Firenze. Un delitto che appare legato, man mano che l’inchiesta procede, proprio agli orrendi misfatti commessi dalle gerarchie militari della grande guerra. Forse una tardiva vendetta.

Ma non è, secondo me, questa parte la più significativa del libro di Malaguti, bensì soprattutto un irrinunciabile contrappunto all’altra parte, un suo complemento narrativo che ci racconta come, nella storia, ogni azione criminale, ogni orrenda ferita inferta all’uomo produca comunque una reazione. Come il male commesso reclami un risarcimento espiatorio, una nemesi necessaria anche se tardiva e – purtroppo – del tutto insufficiente a ripararlo. Così succede in ogni tragedia che si rispetti.

Read Full Post »