Studiare all’università lettere (o filosofia, o storia, o antropologia, o belle arti, o psicologia, o simili) è un lusso.
Un lusso che oggi si dovrebbero permettere solo quei pochi che hanno uno speciale talento per queste materie. Così questi pochi avrebbero accesso senza problemi o patemi al principalissimo, quasi unico sbocco professionale di questo tipo di studi: l’insegnamento medio e superiore. Tutte le altre possibili carriere (ricercatore o docente universitario, bibliotecario, collaboratore o imprenditore editoriale, giornalista e simili) costituiscono infatti lo zero virgola percentuale dei posti di lavoro disponibili per questo genere di laureati.
I pochissimi che hanno talento per attività creative (poesia, scrittura creativa, teatro, belle arti) non hanno necessariamente bisogno di laurearsi in lettere o diplomarsi nelle accademie. Potrebbero anche farlo e trarne giovamento, ma questo non assicurerebbe né la qualità né il successo alle loro intraprese. Ci sono stati nella storia molti grandi letterati ed artisti, persino premi Nobel, non laureati.
Sto dicendo, con probabile dispiacere e notevole sorpresa di qualche mio lettore che ama e ha fatto come me con passione questi studi, che sì, purtroppo è vero, bisogna arrendersi alla cruda realtà dei fatti: studia humanitatis non dant panem, hodie saltem. Almeno oggi è colpevolmente ingenuo sperare di campare bene specializzandosi negli studi umanistici. Siamo lontani anni luce da certa società ottocentesca come quella descritta, per es., da Stendhal ne Il rosso e il nero, dove un giovane talentuoso di umili origini trova credito ed impiego presso ambienti altolocati solo perché sa di latino. Viviamo, ci piaccia o no, in una società ipertecnologica e mercantilistica dove questi studi sono sempre più marginali, non rivestono più un ruolo riconosciuto e definito in sé, men che meno sono spendibili sul mercato del lavoro. Pretendere che qualcuno ci apprezzi o ci assuma perché sappiamo di greco, di latino, di filosofia è, al giorno d’oggi, come sperare di mettere sul mercato dominato dai computer vecchie e gloriose Olivetti.
Preferirei d’altro canto non vedere troppi giovani e meno giovani laureati di queste discipline che (non riuscendo a fare di meglio) si arrabattano nel web, nel mondo della piccola editoria o del giornalismo culturale free lance e dintorni per inventarsi eventi, pseudo-professioni od occasioni per la promozione della propria merce culturale (libri, conferenze, dibattiti, reading e simili). Tutte queste iniziative possono essere in sé interessanti ed apprezzabili, ma in un contesto in cui col massimo sforzo si conquista il minimo dell’attenzione (di amici e di parenti o poco più) tutto questo sottobosco ribollente di attività culturali è – perdonatemi – uno spettacolo piuttosto patetico.
L’unica strada aperta (non certo spalancata) per chi si laurea in lettere, filosofia ed affini è – ripeto – l’insegnamento medio. Non ho mai conosciuto nessuno tra vari ex alunni e conoscenti laureati con ottime credenziali in queste discipline che non sia riuscito, prima o poi, a diventare insegnante.
Se invece non si vuole insegnare e non si è ricchi di famiglia meglio allora rinunciare agli studi letterari. Non si deve possedere la laurea in lettere per leggere con piacere e con profitto grandi romanzieri o poeti. Basta una buona sensibilità estetica e linguistica favorita da seri studi di scuola superiore e allenata dalla frequentazione assidua di questo genere di opere.
Ma anche se si vuole insegnare non è detto che questa semplice intenzione conduca ipso facto in cattedra. Bisogna avere talento, predisposizione e preparazione per arrivarci. E poi le cattedre di lettere e filosofia disponibili sono sempre meno numerose, sicuramente molto meno degli aspiranti.
Non c’è altra via di uscita dunque per ridurre in questo settore la disoccupazione intellettuale: o si istituisce il numero chiuso di accesso a lettere e filosofia sulla base delle cattedre di volta in volta stimate disponibili o si opera una selezione drastica all’inizio del percorso universitario. Tertium non datur. In molte facoltà di lettere e filosofia, lo sanno tutti, imperversa il trenta (e lode) quasi politico. Si danno questi voti per non perdere iscritti, questa è la squallida realtà. Così facendo però non solo si distribuiscono lauree squalificate, ma si impedisce ai migliori di emergere. Si rimpalla la responsabilità della selezione alle pratiche concorsuali, per altro sporadiche e di per sé non poco aleatorie. Così si accresce la disoccupazione dei laureati in lettere e filosofia, non solo dei meno bravi.
Inutile blaterare poi che con questo genere di lauree si può magari far carriera in altri campi diventando manager o consulenti d’azienda. Se anche uno tra mille riuscisse davvero a percorrere questa strada, lo farebbe con la coscienza eternamente infelice.
[Su questo problema si veda ultimamente il libro, provocatorio ma largamente condivisibile, di Claudio Giunta, E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica, Il Mulino, Bologna 2017]
P.S. (del 20.10.19): Un ruolo importante nel promuovere una scelta consapevole di queste facoltà dovrebbe essere svolto dalla scuola superiore presso gli studenti delle classi terminali. Gli insegnanti di scuola superiore dovrebbero non solo spiegare bene a chi desidera scegliere questo tipo di corsi universitari di quali studi effettivamente si tratta e quali possibilità di lavoro si prospettano, ma soprattutto incoraggiare chi ha autentica vocazione e dissuadere invece chi mostra verso le lettere e la filosofia soltanto un superficiale interesse o peggio una semplice curiosità ad excludendum (cioè chi vuole iscriversi a lettere solo per evitare facoltà considerate più difficili). Purtroppo questa consulenza, che sarebbe l’unico serio ed autentico orientamento in uscita, non si pratica affatto nei nostri licei, dove imperversano invece le campagne pubblicitarie delle varie università del territorio, puro fumo per gli occhi e favole per le orecchie degli sprovveduti maturandi…
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