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Archive for ottobre 2019

Risultati immagini per solitudine centro commerciale

Mi messaggi per dirmi

che arrivi, tra poco. Una lacrima di pioggia

luccica sullo screen, nel suo specchio

sussulta a un colpo d’aria

un cespo d’erba nuova, tentenna

un fiore giallo sopra il grembo

illividito di un’aiuola. Chiuso

in un vuoto pneumatico

del cuore, siedo nella calotta di sole

che gentilezza passeggera di nuvole

concede a una panchina solitaria.

Nulla del nulla sento più nemico

nella frenesia di cicale che martella

la cupola del centro commerciale. Morte

questa che uccide e non fa male,

e civettando agita la falce,

allegra semina petardi

in una festa triste di automi.

Sullo screen leggo ancora

però i nostri due

nomi – Tu arriva, presto,

come dici. Salvami.

Portami a casa, prima

che sia troppo tardi.

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Risultati immagini per laurea in lettere

Studiare all’università lettere (o filosofia, o storia, o antropologia, o belle arti, o psicologia, o simili) è un lusso.

Un lusso che oggi si dovrebbero permettere solo quei pochi che hanno uno speciale talento per queste materie. Così questi pochi avrebbero accesso senza problemi o patemi al principalissimo, quasi unico sbocco professionale di questo tipo di studi: l’insegnamento medio e superiore. Tutte le altre possibili carriere (ricercatore o docente universitario, bibliotecario, collaboratore o imprenditore editoriale, giornalista e simili) costituiscono infatti lo zero virgola percentuale dei posti di lavoro disponibili per questo genere di laureati.

I pochissimi che hanno talento per attività creative (poesia, scrittura creativa, teatro, belle arti) non hanno necessariamente bisogno di laurearsi in lettere o diplomarsi nelle accademie. Potrebbero anche farlo e trarne giovamento, ma questo non assicurerebbe né la qualità né il successo alle loro intraprese. Ci sono stati nella storia molti grandi letterati ed artisti, persino premi Nobel, non laureati.

Sto dicendo, con probabile dispiacere e notevole sorpresa di qualche mio lettore che ama e ha fatto come me con passione questi studi, che sì, purtroppo è vero, bisogna arrendersi alla cruda realtà dei fatti: studia humanitatis non dant panem, hodie saltem. Almeno oggi è colpevolmente ingenuo sperare di campare bene specializzandosi negli studi umanistici. Siamo lontani anni luce da certa società ottocentesca come quella descritta, per es., da Stendhal ne Il rosso e il nero, dove un giovane talentuoso di umili origini trova credito ed impiego presso ambienti altolocati solo perché sa di latino. Viviamo, ci piaccia o no, in una società ipertecnologica e mercantilistica dove questi studi sono sempre più marginali, non rivestono più un ruolo riconosciuto e definito in sé, men che meno sono spendibili sul mercato del lavoro. Pretendere che qualcuno ci apprezzi o ci assuma perché sappiamo di greco, di latino, di filosofia è, al giorno d’oggi, come sperare di mettere sul mercato dominato dai computer vecchie e gloriose Olivetti.

Preferirei d’altro canto non vedere troppi giovani e meno giovani laureati di queste discipline che (non riuscendo a fare di meglio) si arrabattano nel web, nel mondo della piccola editoria o del giornalismo culturale free lance e dintorni per inventarsi eventi, pseudo-professioni od occasioni per la promozione della propria merce culturale (libri, conferenze, dibattiti, reading e simili). Tutte queste iniziative possono essere in sé interessanti ed apprezzabili, ma in un contesto in cui col massimo sforzo si conquista il minimo dell’attenzione (di amici e di parenti o poco più) tutto questo sottobosco ribollente di attività culturali è – perdonatemi – uno spettacolo piuttosto patetico.

L’unica strada aperta (non certo spalancata) per chi si laurea in lettere, filosofia ed affini è – ripeto – l’insegnamento medio. Non ho mai conosciuto nessuno tra vari ex alunni e conoscenti laureati con ottime credenziali in queste discipline che non sia riuscito, prima o poi, a diventare insegnante.

Se invece non si vuole insegnare e non si è ricchi di famiglia meglio allora rinunciare agli studi letterari. Non si deve possedere la laurea in lettere per leggere con piacere e con profitto grandi romanzieri o poeti. Basta una buona sensibilità estetica e linguistica favorita da seri studi di scuola superiore e allenata dalla frequentazione assidua di questo genere di opere.

Ma anche se si vuole insegnare non è detto che questa semplice intenzione conduca ipso facto in cattedra. Bisogna avere talento, predisposizione e preparazione per arrivarci. E poi le cattedre di lettere e filosofia disponibili sono sempre meno numerose, sicuramente molto meno degli aspiranti.

Non c’è altra via di uscita dunque per ridurre in questo settore la disoccupazione intellettuale: o si istituisce il numero chiuso di accesso a lettere e filosofia sulla base delle cattedre di volta in volta stimate disponibili o si opera una selezione drastica all’inizio del percorso universitario. Tertium non datur. In molte facoltà di lettere e filosofia, lo sanno tutti, imperversa il trenta (e lode) quasi politico. Si danno questi voti per non perdere iscritti, questa è la squallida realtà. Così facendo però non solo si distribuiscono lauree squalificate, ma si impedisce ai migliori di emergere. Si rimpalla la responsabilità della selezione alle pratiche concorsuali, per altro sporadiche e di per sé non poco aleatorie. Così si accresce la disoccupazione dei laureati in lettere e filosofia, non solo dei meno bravi.

Inutile blaterare poi che con questo genere di lauree si può magari far carriera in altri campi diventando manager o consulenti d’azienda. Se anche uno tra mille riuscisse davvero a percorrere questa strada, lo farebbe con la coscienza eternamente infelice.

[Su questo problema si veda ultimamente il libro, provocatorio ma largamente condivisibile, di Claudio Giunta, E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica, Il Mulino, Bologna 2017]

P.S. (del 20.10.19): Un ruolo importante nel promuovere una scelta consapevole di queste facoltà dovrebbe essere svolto dalla scuola superiore presso gli studenti delle classi terminali. Gli insegnanti di scuola superiore dovrebbero non solo spiegare bene a chi desidera scegliere questo tipo di corsi universitari di quali studi effettivamente si tratta e quali possibilità di lavoro si prospettano, ma soprattutto incoraggiare chi ha autentica vocazione e dissuadere invece chi mostra verso le lettere e la filosofia soltanto un superficiale interesse o peggio una semplice curiosità ad excludendum (cioè chi vuole iscriversi a lettere solo per evitare facoltà considerate più difficili). Purtroppo questa consulenza, che sarebbe l’unico serio ed autentico orientamento in uscita, non si pratica affatto nei nostri licei, dove imperversano invece le campagne pubblicitarie delle varie università del territorio, puro fumo per gli occhi e favole per le orecchie degli sprovveduti maturandi…

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Risultati immagini per prima dell’alba malaguti

Difficile che mi metta a leggere d’impegno un romanzo appena uscito, men che meno un romanzo di quelli in cima alla classifica delle vendite. La vita non basta per leggersi bene tutti i grandi classici della letteratura che meriterebbero di essere letti, figurarsi se può bastare per leggersi tutte le (vere e presunte) grandi novità letterarie che ogni giorno l’industria editoriale lancia sul mercato con il megafono di recensori di grido più e meno compiacenti. Beninteso: tra queste novità ci può ben essere il capolavoro; sicuramente diverse tra queste sono letterariamente più che dignitose e magari anche degne di lettura. Ma tant’è: ars longa vita brevis. Il rischio di sprecare tempo, se non si va sul sicuro, è molto alto. Confesso: non ho letto una riga dei libri di Saviano (solo qualche articolo di giornale); poco o nulla di Baricco (e mi sono pentito del poco); zero della misteriosa Elena Ferrante, di Scurati, persino di Camilleri (che pure ho apprezzato attraverso le sceneggiature delle fiction televisive). Sono decisamente fuori passo con i tempi della letteratura trionfante e militante dei giorni nostri. Perdermi un best-seller, anche in odore di alta qualità, mi dà una goduria pazzesca. Per incuriosirmi di un’opera non mi basta il giudizio allettante di un settimanale di informazione libraria. Ho bisogno del giudizio della storia. Sissignori. Perciò sono fermo a Calvino e Fenoglio o giù di lì.

Ci sono state per me poche eccezioni a questa regola. Lessi per esempio Il nome della rosa di Eco appena uscì, in pochi giorni e con molto coinvolgimento. Salvo poi, a pagine chiuse, giudicarlo mediocre a dispetto della consumatissima perizia artigianale con cui è costruito e della mostruosa cultura che trasuda da ogni riga. Quando ho derogato alla mia regola, l’ho fatto talora per ragioni non strettamente letterarie. Così mi è successo per Prima dell’alba di Paolo Malaguti, pubblicato pochi mesi fa da Neri Pozza.

Mi ha avvicinato a questo bel romanzo soprattutto una ragione familiare. Il libro è dedicato, infatti, ad uno sventurato artigliere della grande guerra fucilato dopo la rotta di Caporetto per il gravissimo reato di tenere in bocca un sigaro al cospetto di un suo superiore. Questo soldato era un avo di mia moglie. La sua fine tragica e assurda, tornata alla ribalta durante le celebrazioni del centenario della fine della prima guerra mondiale, è stata rievocata di recente da varie pubblicazioni storiche. La sua figura (prima caduta sotto la mannaia di una assurda damnatio memoriae) finalmente riabilitata.

Ma il libro di Malaguti non parla direttamente – cronachisticamente – di questa vicenda. Parla soprattutto, e per metà, della atroce condizione di vita nelle trincee. Ne parla riappropriandosi, con fedeltà onomastica scrupolosa, del gergo – ruvido, sarcastico, fantasioso perfino – adoperato dai soldati al fronte. Quella lingua speciale che ribattezza le cose non tanto per identificarle in sé, quanto per esprimere  – attraverso la forma straniante delle parole, il loro suono scabro, la loro sinistra potenza fantastica ed evocativa – il modo stesso di vivere, giudicare e patire la guerra di trincea. È su questa inedita operazione linguistica, su questa impronta marcata e tagliente dello stile che Malaguti costruisce la parte più efficace – a mio parere – del suo racconto. Quella nella quale l’autore ci scaraventa letteralmente tra il fetore, lo squallore, il sangue di quell’orrendo mattatoio che fu la grande guerra. Quella in cui risuscita l’incubo di una lontana generazione di giovani sventurati e ci avvolge in quella tremenda e quotidiana atmosfera di agonia collettiva.

Poi, certo, c’è anche un’altra metà della storia. Un racconto poliziesco nel quale Malaguti ricostruisce passo dopo passo, in un’alternanza netta e ritmica di piani temporali con l’altra metà, l’inchiesta intrapresa da un commissario di polizia molti anni dopo (nel 1931) per scoprire il responsabile di un misterioso delitto consumato su di un treno, tra Prato e Firenze. Un delitto che appare legato, man mano che l’inchiesta procede, proprio agli orrendi misfatti commessi dalle gerarchie militari della grande guerra. Forse una tardiva vendetta.

Ma non è, secondo me, questa parte la più significativa del libro di Malaguti, bensì soprattutto un irrinunciabile contrappunto all’altra parte, un suo complemento narrativo che ci racconta come, nella storia, ogni azione criminale, ogni orrenda ferita inferta all’uomo produca comunque una reazione. Come il male commesso reclami un risarcimento espiatorio, una nemesi necessaria anche se tardiva e – purtroppo – del tutto insufficiente a ripararlo. Così succede in ogni tragedia che si rispetti.

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