Si è umanamente spacciati quando non si riesce più a guardarsi dall’esterno.
E si riesce a guardarsi dall’esterno solo immedesimandoci nell’altro che ci interroga o ci sfida e avendo il coraggio di assumere, nei confronti di noi stessi, anche il suo punto di vista.
Dalla sclerotica presunzione che il nostro solo sguardo soggettivo corrisponda alla realtà oggettiva inizia la nostra vecchiaia spirituale, la distruzione della nostra umanità.
Non per caso i grandi commediografi ‘seri’ dell’antichità (Menandro, Terenzio) intendevano la humanitas essenzialmente come capacità di riconoscere e superare la nostra fallibilità rispecchiandoci comprensivamente in quella del nostro prossimo.
Perdere invece questa elasticità dell’anima, non affaticarsi più nell’esercizio di auto-osservarci attraverso lo sguardo altrui, diventare opachi a noi stessi significa consegnarci ad una rigidità mortale, ad una solitudine irrimediabile, ad una cieca (cioè folle) presunzione di verità, persino al delirio di onnipotenza.
Con esiti che oscillano, a seconda della nostra residua capacità di nuocere altrui (cioè del nostro residuo potere), tra gli estremi opposti del ridicolo e del tragico, passando attraverso una varia, tragicomica gamma intermedia.
Un emblema significativo del primo esito mi sembra, in letteratura, il Miles di Plauto, personaggio innocuo perciò comicissimo.
Del secondo esito, invece, si trovano purtroppo inverati nella vita quotidiana così come nella storia antica e recente (non solo puramente immaginati dalla letteratura) numerosissimi e inquietanti esempi.
Quanto al terzo esito intermedio, quello tragicomico, la ribalta pubblica italiana di questi anni ci offre personaggi antropologicamente miserevoli e (perché no), anche in questo caso, virtualmente strepitosi sul piano letterario, se mai trovassero un autore capace di trasfigurarli artisticamente.
Perché mai, poi, questa rigidità dis-umana tenda ad intrecciarsi così spesso con l’esercizio del potere (in ogni sua forma più e meno rilevante) e a presentarsi perciò nella sua versione più nociva, questo si può certo spiegare con la natura demonica/accecante del potere quale impulso irresistibile all’affermazione di sé attraverso e a scapito dell’altro; tale pertanto da attrarre o sedurre più facilmente proprio le persone più refrattarie alla humanitas, con effetti distruttivi ed autodistruttivi che la tragedia antica e moderna ha ripetutamente rappresentato (e la storia ha testimoniato).
Nel favorire l’abitudine al difficile e vitale esercizio di guardarsi dall'esterno (e mettersi perciò in discussione) la formazione e la cultura dell’individuo rivestono, credo, un ruolo importante se non decisivo e salvifico: non a caso gli antichi intendevano per humanitas proprio la paideia, cioè l’educazione.
Come dire insomma che, senza lo strenuo sforzo di insegnare la humanitas, di inculcare e propagare cioè con l’educazione quella abitudine al rispecchiamento virtuoso nell'altro, è molto difficile sia evitare la barbarie e la dis-umanizzazione dei singoli sia, di conseguenza, scongiurare il pericolo che l’esercizio o la sete dis-umani del potere riversino su una società ormai indifesa gli effetti devastanti di patologie psichiatriche individuali o di gruppo (vedi e.g. Nerone, Hitler, i dispotismi, i fondamentalismi e i terrorismi ideologico-religiosi di varie epoche e di vari colori ecc.).
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