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Archive for novembre 2019

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È appena uscito nella rivista Tradurre un mio articolo intitolato «Chiudi fuori l’inverno». Stella Sacchini traduttrice dal greco:

https://rivistatradurre.it/2019/11/chiudi-fuori-linverno/

Si tratta di un’analisi ravvicinata, anche se non sistematica, delle prove di traduzione da Apollonio Rodio e dalla poesia simposiale greca di Stella Sacchini.

Questa traduttrice si è fatta finora conoscere di più curando la versione di classici della letteratura inglese e angloamericana presso importanti case editrici. Si è cimentata tuttavia ultimamente anche con autori greci e latini e con risultati, a mio giudizio, davvero notevoli e originali rispetto alle traduzioni più quotate finora in circolazione.

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[…] Così nella mia selva d’esilio a piene gote

un antico Ricordo suona il corno e s’accora:

penso ai naufraghi, a gente sparsa in isole ignote

ai prigionieri, ai vinti, e a molti altri ancora.

[Ainsi dans la forêt où mon esprit s’exile
Un vieux Souvenir sonne à plein souffle du cor !
Je pense aux matelots oubliés dans une île,
Aux captifs, aux vaincus !… à bien d’autres encor !]

Così Romano Palatroni (« chi era costui?») traduce più di sessanta anni fa l’ultima strofe del Cigno (Fleurs du mal, LXXXIX) di Baudelaire. Traduce conservando la struttura metrico-strofica originale (il verso alessandrino, le rime alterne, la quartina). Ma questa fedeltà alla fisionomia esterna del testo baudelairiano lo costringe paradossalmente – sul piano lessicale e sintattico – a una sua profonda e creativa rielaborazione. Palatroni deve procedere di volta in volta, per far tornare i conti del ritmo e delle rime, per contrazioni (dans la forêt où mon esprit s’exile > nella mia selva d’esilio) e per espansioni (aux matelots oubliés dans une île > ai naufraghi, a gente sparsa in isole ignote). Deve impegnarsi in uno strenuo lavorio formale, di scalpello, di lima e di stucco. Attiva, dove servono, le vecchie figure retoriche (un antico Ricordo suona il corno e s’accora: una sovrapposizione di assonanze e paronomasie che esalta – superando l’originale – la forza imitativa ed evocativa del verso). Deve insomma fare di necessità (prosodica e metrica) virtù (poetica). Ma è proprio questa la virtù che si richiede da sempre a un artista. E un traduttore di poesia può assolvere al suo improbo compito solo se è un artista. Non basta che sia un esperto accademico della materia o un provetto conoscitore della lingua di partenza. Poesia è sintesi di suono e di senso. Se si traduce il senso e si trascura il suono si possono combinare disastri. Creare mostri utili forse per una comprensione scolastica del dettato originale, non traduzioni poetiche degne di questo nome.

Vediamo per esempio come Luigi De Nardis, traduttore della edizione economica Feltrinelli, rendeva in italiano (pochi anni dopo Palatroni, nel 1964) gli stessi versi finali del Cigno:

Così nella foresta ove in esilio

si ritira il mio spirito, un antico

ricordo suona a perdifiato il corno.

E penso ai marinai dimenticati

sopra uno scoglio solitario, ai vinti

ai prigionieri, e a molti altri ancora.

De Nardis rinuncia a riprodurre l’impalcatura metrico- strofica dell’originale e limita il suo impegno formale alla sola adozione dell’endecasillabo (per altro molto dissimulato dagli enjambement). Di fatto però questa maggiore libertà da costrizioni strutturali produce una traduzione decorosa ma parafrastica (e perifrastica), tendenzialmente prosastica, nella quale il pathos e l’intensa malinconia dell’originale finiscono per affievolirsi.

Persino peggiore mi pare la prova (prudentemente scolastica e perciò quasi letterale) che ci fornisce diversi anni dopo (1980) la traduttrice della BUR Luciana Frezza:

Così nella foresta dove il mio spirito s’esilia

un vecchio ricordo suona il corno a pieni polmoni!

Penso ai marinai dimenticati in un’isola,

ai prigionieri, ai vinti! … a quanti altri ancora!

Questa analisi comparata è solo un esempio, secondo me, della (frequente e talora incantevole) grandezza di Palatroni traduttore di Baudelaire e di altri simbolisti francesi. Se ci riuscirò proverò ad affrontare più sistematicamente questa istruttiva comparazione tra Palatroni e i suoi più famosi colleghi traduttori, per rendergli giustizia.

Intanto ha già cominciato a rendergliela lo zelo appassionato di Antonio Prenna, letterato e giornalista, curatore della recente e meritoria riedizione (presso Dakota Press) di ben tre libri di traduzioni palatroniane dei maudits : I fiori del male di Charles Baudelaire (2015); Feste galanti e altre poesie di Paul Verlaine (2018); Il corvo – Il battello ebbro di Edgar Allan Poe e Arthur Rimbaud (2019).

Queste traduzioni di Palatroni erano da decenni sparite dal circuito editoriale, perché le edizioni originarie (uscite tra gli anni cinquanta e i primi anni sessanta) finirono molto presto fuori stampa. E Palatroni rimase a lungo, dopo la sua morte avvenuta nel 1957, un illustre sconosciuto tra i traduttori italiani della poesia simbolista francese. Sconosciuto per molti, ma non per tutti: una eccezione privilegiata furono gli allievi di un piccolo liceo di provincia dove insegnò proprio in quei decenni (dagli anni cinquanta fino ai primi anni ottanta) un intellettuale già amico e sodale letterario di Palatroni: Marino Marini, coltissimo e sensibile maestro. Tra  i tanti meriti di Marino Marini verso i suoi studenti ci fu anche quello di distribuire loro in ciclostile,  per poi leggerle insieme in classe, quelle splendide versioni poetiche. E tra gli allievi di Marino Marini c’ero anch’io.

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Più idioti dei commenti idioti sul web sono coloro che sprecano il tempo prezioso della loro vita a commentarli.

Si è diventati adulti quando si è imparato a distinguere bene i sogni dalle illusioni.

Non bisogna più sorprendersi, tanto meno indignarsi, che l’ignoranza (la più crassa) trovi tanta ospitalità e apprezzamento nei media. Bisogna invece capacitarsi del fatto che oggi essa vi trova ospitalità e apprezzamento proprio in quanto tale.

Peggio che mancare il bersaglio è oltrepassarlo dopo averlo centrato.

Quando tutti vogliono scioccamente apparire, è condannato ad apparire e a confondersi con gli sciocchi anche chi vorrebbe saggiamente restare dietro le quinte. Altrimenti quella saggezza resterebbe sconosciuta.

Oggigiorno l’edonista Epicuro, se intervenisse nei talk show, farebbe la figura del più greve dei moralisti.

Qualche volta penso (sbagliando) che approcciarsi alla vita soprattutto attraverso la letteratura sia come entrare in una ottima rosticceria all’ora di pranzo ed accontentarsi di annusarne  gli odori.

Campa cavallo, che l’erba – sintetica – cresce.

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È uscita da poco nella rivista on line di informazione libraria Mangialibri una lusinghiera recensione di Antonella Lucchini al mio libro di poesie Pietra e farfalla edito da Ladolfi. Invito a leggerla:

http://www.mangialibri.com/poesia/pietra-e-farfalla

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Poesia sta nel come qualcosa viene detto. Filosofia invece nel che cosa. Il come della poesia non può tuttavia fare a meno del che cosa della filosofia lato sensu intesa. Ma questo che cosa, senza il come, non può sublimarsi nella poesia, rimane gravemente ancorato al terreno solido e grezzo dei concetti. Il che cosa, insomma è necessario (ancora!) a mio avviso per fare poesia, ma non sufficiente. Nella poesia di Leopardi, così come di altri grandi poeti, «come» e «che cosa» sono un sinolo quasi sempre inscindibile. Il pensiero diventa quasi sempre poetante. Sottolineo quasi. E quando lo diventa perde completamente il suo peso. Vola sulle ali della parola poetica. Diventa percettibile prima ancora di essere comprensibile. Silvia rimembri ancora / il tempo di tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi ecc.: le prime strofe di A Silvia comprendono in sé e trasmettono alla nostra percezione, sensoriale ed intima, tutto quello che poi Leopardi cerca sempre più di razionalizzare e concettualizzare nelle strofe finali, specie nell’ultima.  Rimango dell’opinione, nella fattispecie forse attardata su posizioni crociane o giù di lì, che Leopardi avrebbe potuto risparmiars(c)i la strofe conclusiva che rompe quasi quel miracoloso equilibrio tra poesia e pensiero che all’inizio risolve musicalmente i concetti in immagini per poi gradatamente, ma misuratamente, alternarli. In questo senso l’ultima strofe porta sì a compimento, sul piano retorico e compositivo, questo processo di progressiva espansione della componente riflessiva e raziocinante, ma è poeticamente scadente e soprattutto, mi pare, inutile. Suona quasi come un auto-commento, una coda esplicativa, una postilla tautologica in versi. Tutto era già stato detto e compreso, perché tutto era stato reso sensibile – prima – attraverso la poesia.

 

 

 

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