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Archive for novembre 2014

Diceva Montale che la poesia, se è inutile, quanto meno non fa male. In realtà non è proprio così, perché può anche fare un po’ male (a chi la scrive e a chi la legge) se – non sapendone decifrare il codice – il lettore la fraintende vistosamente.

Qualcosa del genere deve essere accaduto – appunto – ad alcuni miei amici/lettori di fronte a una mia poesia: Epifanie sgradite, compresa nella mia recente raccolta Zero termico.

Questo breve testo comincia con l’esternazione (tra l’affettuoso e il provocatorio) di un disagio: quello che qualche volta e inaspettatamente avverto incontrando miei vecchi compagni d’infanzia e di scuola perché essi di colpo mi appaiono – in confronto a come li ricordavo – tristemente invecchiati:  Cari amiche e amici, vecchi / compagni di scuola, come è sempre / sempre più triste, ogni tanto, / rivedervi. Scava indecenti solchi / nella vostra carne, come aratro / lucente le rughe sul volto / di un campo, l’acqua del tempo / e ridisegna – mi duole dirvelo, così, / francamente – scalene / geometrie, modella paesaggi / cespugliosi e tetri…

La poesia insiste poi per un po’ – esagerandoli volutamente in chiave scherzosa e grottesca – sui connotati fisici di questo invecchiamento. Salvo poi chiarire nel finale che quel disagio e quello sgomento in realtà sono il frutto di un totale rispecchiamento: le epifanie improvvise degli amici talora mi sgomentano un po’ in quanto identiche a quelle – di me stesso! – che talora mi sorprendono nello specchio dei bagni / all’autogrill.

Sono le mie epifanie che mi sono davvero sgradite, non le loro!

Quando la scrissi e la consegnai all’editore per la stampa ero convinto che questa poesia trasmettesse – attraverso la sua tonalità ironica e auto-ironica, ma anche profondamente malinconica –  un chiaro messaggio: la mia difficoltà ad accettare le ingiurie del tempo e della vecchiaia quando esse si manifestino riflesse in uno specchio reale o in quello – indiretto, ma altrettanto veritiero – dei volti di amici d’infanzia o di compagni di scuola. Questo era ed è – nella mia intenzione – il vero e più autentico significato di questi versi.

Ma poi è successo che qualcuno li abbia banalmente malintesi come uno sfogo gratuito e irrispettoso di fastidio e di misantropia senile verso vecchi amici e compagni di scuola….

La cosa mi è dispiaciuta non poco, ma – credetemi, cari amiche e amici e vecchi compagni di scuola – davvero non saprei bene come né di che cosa scusarmi con voi. Perché voi personalmente con l’ispirazione vera di questa poesia non c’entrate affatto: siete infatti niente più che un pretesto letterario, simboli speculari di me stesso facilmente intercambiabili – volendo – con altri (avrei potuto per esempio dire più genericamente: compagni di giochi di un tempo; niente sarebbe cambiato e nessuno – magari – si sarebbe offeso). Perché il senso di questa poesia, a chi lo legga scevro di pregiudizi permalosi e personalistici, è davvero tutt’ altro da come è stato frainteso da qualcuno di voi: dietro l’ironia un po’ tetra, scontrosa e provocatoria c’è infatti una notevole pietas, un senso amaro di impotenza di fronte al nostro comune (e naturale) destino.

Perciò non c’era e non c’è in questi versi alcuna intenzione offensiva. L’ errore vero che ho commesso è stata piuttosto l’ingenuità di non aver previsto – data la varia e imprevedibile sensibilità delle persone – un fraintendimento del genere.

Nemo poeta in patria, sarebbe il caso di dire a proposito di questo piccolo, spiacevole ma emblematico episodio. Succede infatti che tu scriva poesie (o racconti o aforismi) sulle donne, e alcune donne che conosci si risentano; che ne scriva sull’amicizia, e alcuni amici si risentano; sulla scuola, e alcuni colleghi si risentano.

Ora, la scrittura letteraria è sempre, a suo modo, un’operazione di sincerità e di verità, ma attenzione: la verità e la sincerità che una pagina di poesia o di narrativa ci possono schiudere non è quella che si muove sulla superficie del testo, ma in profondità; parole, immagini, situazioni di un testo letterario non rispecchiano parole, immagini, situazioni della realtà che circonda l’autore se non per diventare simboli fantastici di verità molto più ampie e universali, spesso ben altre rispetto al biografismo spicciolo che sembra averle ispirate.

Se noi leggessimo il sonetto celeberrimo di Cecco Angiolieri S’io fossi foco come l’espressione diretta e autobiografica di un odio mortale contro i genitori, le donne poco avvenenti, il papa, i cristiani, l’imperatore ecc., traviseremmo gravemente quel testo: sia perché non capiremmo la specificità del suo linguaggio (volutamente iperbolico, comico, ispirato al genere del vituperium), sia perché non percepiremmo che quelle parole così forti non vogliono esprimere altro che un baldanzoso e liberatorio anticonformismo rispetto alle convenzioni, alle istituzioni e alle gerarchie sociali del tempo, non uno sfogo personale diretto contro qualcuno.

Il fraintendimento di un testo letterario discende spesso da una sua interpretazione piattamente ‘letterale’ e ‘realistica’ (resa ancor più grave se il lettore – a ragione o a torto – crede di essere toccato personalmente da quello che legge): si travisa un testo letterario quando si pensa che l’autore scriva poesie e/o racconti per rispecchiare fedelmente la piccola, contingente, (spesso) provinciale realtà umana e sociale che lo circonda; come se si trattasse di pagine di diario, di confessioni, di resoconti, di ‘temi’ o ‘poesiole’ scolastiche dove si mette a nudo, senza diaframmi, se stessi. Come se si avesse a che fare con post lasciati, per sfogarsi, in un network.

Ma la scrittura letteraria non è affatto questo.

La scrittura letteraria interpone un diaframma molto consistente tra la realtà vissuta e la dimensione fittizia (fiction, appunto) dell’opera che la rappresenta.

La scrittura letteraria (specie quella poetica) è molto più difficile e ambigua di ogni altra perché moltiplica la distanza tra significante e significato, perché riempie le parole (i significanti) di significati più ricchi e inconsueti, molto meno im-mediati ed univoci della lingua della comunicazione.

La scrittura letteraria utilizza pezzi della vita e della realtà un po’ come le usa (se vogliamo credere a Freud) il nostro inconscio per comporre la sintassi dei sogni. E quello che i sogni sembrano dire in superficie – lo sappiamo – è abbastanza diverso da quello che significano in profondità. La scrittura letteraria, come la grammatica onirica, è etimologicamente allegorica, cioè – mentre sembra parlare di qualcosa a noi vicino– parla in realtà di qualcosa d’altro e di più profondo e di più universale.

Perciò il lettore dovrebbe accostarsi preparato al linguaggio poetico, sapendo bene di che cosa si tratta.

Altrimenti si rischia di scambiare lucciole per lanterne.

PS del 03.05.2016:

De me fabula narrabatur

Cari amiche e amici, vecchi compagni

d’infanzia e di scuola, chiedo sinceramente

venia: forse la penna ha tradito coi ghiribizzi

suoi la lingua, e il cuore. Non Voi schernivo

quando per celia Vi eleggevo a allegorie

viventi di dissesti e franamenti che il Tempo

nostro signore a noi tutti e del tutto

equamente ha dispensato. Era di me

solo che parlavo, della viltà soltanto

mia di misurarmi colla faccia sua

di Gorgone. Così, come il Perseo

del mito, vigliaccamente

accorto, ho abusato di Voi

del Vostro specchio: unica

sciocca, inutile astuzia

per provare a guardarmi

negli occhi ormai

vecchio senza

impietrare.

[da: Chiasmo apparente, LietoColle 2016 ]

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Succede che a novembre rincasando

sere precoci ratte ci aggrediscano

alle spalle, pesino di colpo sul capo

come neve bagnata. E mentre tuffàti

nel fantasmatico acquario di uno schermo

tentiamo in compulsione i numeri

del telecomando ad evocare il genio

ligio a svelenire a buon mercato

il nero seppia della melanconia, ecco:

per la fessura malamente occlusa

dallo zerbino infilarsi uno stiletto

di luce primordiale e sul suo filo

ombre di piedi e voci di bambini

danzare d’una febbre che in noi

più non riarde, di colpo calpestare

il muso al roditore dell’accidia

tambureggiando i tirsi dei calcagni

sulla pelle screziata dell’anima, ai ritmi

sacri e scoscesi della fantasia.

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I nuovi futuristi, i nemici della storia e della memoria sono sempre in agguato. Possono alzare diverse bandiere, calare sul volto maschere più e meno rassicuranti. Ma hanno sulle loro labbra sporche di ipocrisia e di spudoratezza le solite inconfondibili parole d’ordine: gioventù, futuro, efficienza, rapidità, novità, sviluppo, cambiamento. Considerano il passato un fardello anziché un tesoro. Nel loro intimo nutrono tutti, altresì, un disegno preciso: ottundere l’intelligenza per favorire e conservare i privilegi e il potere di pochi; corrodere le basi di un autentico progresso, quello che non può rinunciare all’eredità e al ripensamento critico della storia; conculcare, neutralizzare la cultura per sostituirla con facili slogan tecnocratici e giovanilisti; propagandare un narcotizzante modello di diseducazione che punta a farci dimenticare quanto faticosamente e contraddittoriamente ci siamo e-voluti nel tempo; come non sia possibile ripartire impunemente da zero senza ripetere tragici errori, replicare enormi ingiustizie.

I nuovi futuristi sono sempre profeti di luminose speranze e di luccicanti palingenesi.

Di un ottimismo cieco e obbligatorio che disprezza la lentezza e la perplessità del pensiero.

Il loro modello segreto è il  grande fratello di Orwell.

PS: questo post mi è stato in primis ispirato dal recente “processo al liceo classico” che ha avuto una certa risonanza nei media. Ma è una riflessione che va molto al di là dell’occasione che l’ha suggerita…

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Scuola di follia

Scuola di follia: così si intitola un libro (edito da Armando) uscito pochi anni fa (2005) sulle patologie psichiatriche che affliggono il corpo insegnante. Ne è autore Vittorio Lodolo D’Oria, un medico – che per altro ebbi occasione di conoscere anni orsono in un convegno di insegnanti/scrittori. Ultimamente sono apparsi dello stesso autore altri due studi: La scuola paziente e Pazzi per la scuola (entrambi editi da Alpes, rispettivamente nel 2009 e nel 2010). Sono libri che sollevano il velo su una realtà volutamente (e vergognosamente) ignorata: quella del disagio psichico profondo che affligge una professione ad alta densità di relazioni umane e proprio perciò usurante e particolarmente esposta a questo genere di problemi

È curioso che mentre l’attuale governo strombazza in tutti i media il mega-spot sulla buona scuola, si continui a trascurare i risultati allarmanti di questi studi; e si persista – al contrario – a dipingere gli insegnanti come beati fannulloni beneficiari di un rilassante lavoro part-time e pertanto – secondo questa diffamante rappresentazione – meritevoli di sobbarcarsi ulteriori carichi di lavoro gratuito.

La realtà è ben diversa e avrebbe bisogno di cure e interventi mirati e efficaci, per il benessere psicologico non solo dei docenti ma anche (e conseguentemente) degli allievi.

Perché – va aggiunto – il malessere psichico degli insegnanti non è solo quello (più eclatante e allarmante) rilevato dagli studi di Lodolo D’Oria, ma anche quello più strisciante e subdolo, quotidiano, che corrode la normalità dei rapporti con studenti e famiglie. Quel malessere che cresce sui piccoli e ovvi difetti (in sé non patologici) dei docenti in quanto esseri umani, fino a trasformarli in fisse, manie e distorsioni relazionali che nel tempo possono nuocere alla serenità dei rapporti con i giovani tanto quanto le patologie maggiori.

Il rapporto docente – alunno infatti è drammaticamente asimmetrico, in precario e logorante equilibrio tra la ricerca utopistica dell’autorevolezza e la tentazione inutile dell’autoritarismo, sempre più minato (data l’alta età media dei docenti) dalla divaricazione culturale fra le generazioni.

Ma di tutte queste concrete problematiche nella Buona Scuola non c’è considerazione alcuna.

Soltanto fumosi progetti di un ambizioso edificio tecnocratico (Impresa, Internet, Inglese: toh… chi si rivede!) poggiato sulle spalle sempre più fragili, anziane e malandate. A costo zero, ovviamente.

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