Gli antichi greci erano sì assatanati di vittoria in ogni campo, ma riflettevano spesso (anche se malvolentieri) sulle rischiose conseguenze di questa loro ossessione. Sapevano bene che il gioco della competizione agonistica era a somma zero: che la vittoria di qualcuno, cioè, era contemporaneamente la sconfitta di qualcun altro. Sapevano inoltre (poiché non si può vincere sempre) che un’esistenza votata all’ambizione del primato e del successo era esposta più che mai a una drammatica alternanza della sorte. Perciò avevano impresso sul frontone del tempio del dio della saggezza iscrizioni come conosci te stesso (cioè: abbi consapevolezza dei tuoi limiti, della tua fallibilità, della tua ‘vincibilità’) o nulla di troppo (cioè: non avere ambizioni che superino le tue effettive potenzialità). Perciò, all’indomani della vittoria esaltante di Salamina, Eschilo nel dramma I Persiani propose al pubblico ateniese quell’evento in un totale, geniale rovesciamento di prospettiva: immaginandolo cioè come vissuto e patito da parte dei Persiani, dal punto di vista dei vinti, non dei vincitori.
Perché sapeva che la meditazione sulla sconfitta altrui aveva molto più da insegnare ai suoi concittadini che la celebrazione della loro propria vittoria.
La moderna società del piacere e della facile gratificazione rivive in pieno quell’ossessione del successo e del primato, ma senza la necessaria coscienza del suo contrario.
La nostra è una corsa ambiziosa e sfrenata al successo senza saggezza. Senza antidoti.
Un atteggiamento immaturo e infantile.
La via più dritta e sicura verso la frustrazione, la depressione, la sciocca recriminazione.