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Posts Tagged ‘Apollo’

Carmi Simposiaci

Orazio, Odi, I 31

Nel nuovo tempio appena consacrato

che cosa chiede ad Apollo il poeta?

Che cosa implora mentre dalla coppa

offre vino novello? Non i grassi

raccolti della Sardegna ubertosa,

non le greggi pregiate della ardente

Calabria, nemmeno l’oro o l’avorio

dell’India, nemmeno i campi che il Liri

tacito morde con le sue acque chete.

Pótino pure con falci di Cales

quelli che ottennero in sorte le viti,

e così il ricco mercante tracanni

in calici d’oro i vini che ha avuto

scambiandoli con mercanzie di Siria:

lui ben caro agli dèi, visto che solca

incolume tre o quattro volte l’anno

l’Atlantico. Per quel che mi riguarda

io mi nutro di olive e di cicoria

e della malva – ‘na robbetta leggera –.

Tu, Apollo, fa’ ch’io di poco gioisca,

del poco che possiedo. E ti scongiuro:

sano di corpo e limpido di mente,

mi stia alla larga una vecchiaia trista

sempre vicina invece la mia cetra.

Olive, cicoria e malva. Una dieta consona ad un tenore di vita volutamente sobrio. A uno stile adeguato ai precetti epicurei, o a quella che oggi chiameremmo la decrescita felice. E poi una vecchiaia sana, lucida e attiva, allietata dalla compagnia inseparabile della poesia. Questo, solo questo chiede il poeta al dio. Tutte le ricchezze del mondo non lo interessano, anche perché – come si usa dire e come Orazio credeva fermamente – non fanno la felicità, anzi la minacciano. Chi legga per esteso l’opera di Orazio troverà questo motivo, della semplicità e della parsimonia, ripetuto fino alla noia: ma non è una fissa mentale. È piuttosto una mèta sfuggente che il poeta ripropone continuamente a se stesso (e al lettore) perché in realtà, per lui come per tutti, è la più ardua da conquistare e da mantenere. Non per caso, anche qui, quel modello di vita è oggetto di preghiera. Appare più un desiderio e un obiettivo che una realtà compiuta. La traduzione è ancora una volta in endecasillabi, con un registro formale appena più sostenuto finché si parla delle ambiziose incombenze dei ricchi, più dimesso invece (fino ad arrivare ad un inciso in dialetto romanesco – un mio ghiribizzo estemporaneo che mi è parso però intonato al contesto) nella parte finale.

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Nel primo libro dell’Iliade, nella prima grande pagina della letteratura occidentale composta quasi tremila anni fa, si annidano, a saperli scovare, un paio di motivi di intrigante modernità. Per esempio: quando si vuole scoprire la causa della peste e della morte che Apollo sta seminando nel campo acheo, Achille si rivolge a Calcante, l’indovino, la voce della divinità e della verità. E Calcante rivela che la colpa di quella calamità è nientemeno che di Agamennone, del comandante in capo della spedizione: lui si è impadronito empiamente di una schiava (Criseide) cara al dio Apollo perché figlia di un suo sacerdote; questa schiava va dunque quanto prima restituita al padre se si vuole placare l’ira del dio. La verità rivelata si contrappone qui frontalmente, smascherandola, alla prepotenza di chi comanda. Confronto tra profezia e potere, tra chi conosce la verità e può e deve proclamarla per il bene di tutti e chi invece la vuole, finché può, nascondere o negare per l’interesse proprio. Eterno scontro nella storia umana. Che finisce spesso con il martirio immediato del profeta e più di rado (e non sempre) con la tardiva sconfitta del potente. Oggi, laicizzando un po’ il discorso e un po’ forzando l’analogia, si potrebbe pensare a tante vicende di conflitto tra giornalisti o intellettuali coraggiosi da un lato e il potere (politico, economico o malavitoso) dall’altro.

Ma non c’è soltanto questo aspetto di modernità in questo antichissimo testo letterario. Quando Agamennone pretende, in cambio della restituzione di Criseide, di impadronirsi – minacciando di sottrarlo a un qualche altro guerriero, ad Achille in primis – di un altro dono (ghèras) equivalente che mantenga intatto il suo prestigio di fronte all’esercito, Achille ribatte con durezza:

Tu minacci che verrai a togliermi il dono

per il quale ho molto sudato, i figli degli Achei me l’han dato.

però un dono pari a te non ricevo, quando gli Achei

gettano a terra un borgo ben popolato di Teucri:

ma il più della guerra tumultuosa

le mani mie lo governano: se poi si venga alle parti

a te tocca il dono più grosso. Io un dono piccolo e caro

mi porto indietro alle navi, dopo che peno a combattere.

Ma ora andrò a Ftia, perché certo è molto meglio

Tornarsene in patria sopra le concave navi. Io non intendo per te,

restando qui umiliato, raccogliere beni e ricchezze.

(Il. I, 161ss., trad. di R. Calzecchi Onesti, con ritocchi )

Si tratta di argomenti in sé fondati – diremmo oggi – sui principi del merito e della giustizia distributiva. Dire che mentre un guerriero produce col sudore del proprio lavoro (qui: della guerra) beni che poi finiscono per concentrarsi iniquamente nelle mani di chi comanda senza combattere, significa in effetti non soltanto rivendicare criteri meritocratici contro privilegi di casta, ma formulare persino un primordiale abbozzo della teoria marxiana del plus valore.

Ma poi, se guardiamo bene allo sfondo arcaico e aristocratico della vicenda, ci accorgiamo che questi motivi, così apparentemente attuali se estrapolati dal contesto e isolatamente considerati, lo sono sostanzialmente meno se ricondotti nella remota cornice storica di quel mondo.

Calcante, per esempio, rivela sì la verità e adempie così al suo compito di profeta che smaschera l’arroganza del potere. Ma lo fa non certo spontaneamente ed eroicamente, per il bene dei Greci e per amore incondizionato della verità, ma solo alla condizione inderogabile che il braccio di Achille lo protegga dalle conseguenze della sua rivelazione. L’affermazione disarmata della verità non è per lui un valore assoluto cui sacrificarsi comunque. Calcante non è, e non vuole essere, etimologicamente un martire. Né Achille, per parte sua, è un assertore disinteressato di quei principi di giustizia sociale e distributiva di cui parlavo sopra. Achille non è un astratto paladino della meritocrazia né, tanto meno, un agitatore ‘sindacale’. Egli si sente soprattutto ferito nel suo onore (che in quella società equivale al potere) individuale. È un rivale alla pari del capo di cui non sopporta personalmente le angherie. Non nutre nessun senso di solidarietà o di appartenenza ‘di classe’ nei confronti dei suoi commilitoni, anzi li disprezza in quanto succubi, per parte loro, e perciò complici e corresponsabili delle prepotenze di Agamennone:

Certo è molto più facile nel largo campo degli Achei

strappare i doni a chi a faccia a faccia ti parla,

re mangiatore del popolo, perché a buoni a nulla comandi.

(Il. I, 229ss., trad. cit.)

Alla fine, dopo aver rinunciato, dissuaso da Atena, ad uccidere il rivale (come avrebbe legittimamente potuto e dovuto) decide di punirlo ritirandosi dalla guerra con i suoi e soprattutto pregando la divina madre Teti di intercedere presso Zeus affinché il sommo dio danneggi d’ora in poi quanto più possibile i suoi ex alleati nella guerra contro Troia. E Zeus, debitore verso Teti di vari passati favori, non potrà non esaudirla in questa sua richiesta.

Come ben si percepisce, la risposta a situazioni di disordine e di conflitto create dalla prepotenza e dalla ingiustizia è, nel mondo iliadico, sicuramente di carattere pre-politico e pre-giuridico e in cospicua misura, oserei dire, mafioso-clientelare: le contese si risolvono individualmente con la forza e col sangue; oppure con la intimidazione, la rappresaglia ed il boicottaggio; oppure ancora appellandosi alla protezione e al soccorso di personaggi altolocati presso i quali, più e meno direttamente, ma sempre individualmente, si è accumulato un certo credito. Non è (ancora) un mondo, quello dell’Iliade, nel quale vigano principi e metodi propri di una società civile e ‘legalitaria’.

Sul piano ideale e culturale tale società appare dunque (al di là di quelle isolate analogie di cui si diceva all’inizio) complessivamente molto lontana dai nostri valori.

Sul piano fattuale dei nostri comportamenti concreti, invece, quella che ci separa dagli aspetti peggiori e più arcaici del mondo di Achille, vecchio oramai di tremila anni, non mi pare ancora una adeguata distanza di sicurezza… o sbaglio?

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Gli antichi greci erano sì assatanati di vittoria  in ogni campo, ma riflettevano spesso (anche se malvolentieri) sulle rischiose conseguenze di questa loro ossessione. Sapevano bene che il gioco della competizione agonistica era a somma zero: che la vittoria di qualcuno, cioè, era contemporaneamente la sconfitta di qualcun altro. Sapevano inoltre (poiché non si può vincere sempre) che un’esistenza votata all’ambizione del primato e del successo era esposta più che mai a una drammatica alternanza della sorte. Perciò avevano impresso sul frontone del tempio del dio della saggezza iscrizioni come conosci te stesso (cioè: abbi consapevolezza dei tuoi limiti, della tua fallibilità, della tua ‘vincibilità’) o nulla di troppo (cioè: non avere ambizioni che superino le tue effettive potenzialità). Perciò, all’indomani della vittoria esaltante di Salamina, Eschilo nel dramma I Persiani propose al pubblico ateniese quell’evento in un totale, geniale rovesciamento di prospettiva: immaginandolo cioè come vissuto e patito da parte dei Persiani, dal punto di vista dei vinti, non dei vincitori.

Perché sapeva che la meditazione sulla sconfitta altrui aveva molto più da insegnare ai suoi concittadini che la celebrazione della loro propria vittoria.

La moderna società del piacere e della facile gratificazione rivive in pieno quell’ossessione del successo e del primato, ma senza la necessaria coscienza del suo contrario.

La nostra è una corsa ambiziosa e sfrenata al successo senza saggezza. Senza antidoti.

Un atteggiamento immaturo e infantile.

La via più dritta e sicura verso la frustrazione, la depressione, la sciocca recriminazione.

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