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Archive for agosto 2022

Ho fatto una fatica immane ad avvicinarmi alla conclusione di Auto da fé (“Die Blendung”: [‘accecamento, abbaglio, illusione’], Adelphi, Milano 2013) di Elias Canetti, ma l’ho finalmente terminato. Antiromanzo tremendo. Mattone indigeribile. Favola disturbante e claustrofobica. Tortura della mente e dello stomaco. Ingrata fantasia espressionista (e i suoi personaggi – mostri umanoidi, più che esseri umani – assomigliano molto alle torve caricature, ai deformi fantasmi di certa pittura espressionistica del primo novecento). Ma ho finito di leggerlo – dopo più di un anno. Ho voluto farlo, perché ne valeva comunque la pena. Metteva conto attraversare fino in fondo questo incubo ad occhi aperti perché ogni tanto esso mi ha gratificato con rapinose visioni – folgorazioni di profondità abissale. Mette conto immergersi nella melma repellente di questo lentissimo fiume soltanto per potervi ogni tanto setacciare enormi pepite, andarvi a caccia di grandi e lucide perle disperse dentro la vischiosa opacità del flusso narrativo.

Non voglio dilungarmi qui a recensire il libro di Canetti. Mi limito, come spesso faccio in questo blog quando parlo di classici, a citarne a margine un paio di passaggi che, nell’ultima parte, mi hanno parecchio colpito. Capirete presto perché.

Il protagonista, lo studioso Peter Kien, sinologo e bibliofilo monomaniacale che vive solo dei suoi libri e per i suoi libri – si abbandona nel finale a uno sfogo surreale ma durissimo contro il genere femminile:

«Sta per essere emanato un decreto concernente l’abolizione del sesso femminile. La pubblica affissione è prevista per domani. Lo renderà noto il portiere. La sua voce verrà udita da tutta la città, da tutto il paese, da tutti i paesi del mondo, fin dove giunge l’atmosfera terrestre, gli altri pianeti si arrangino, noi siamo oberati, oberati di donne, ogni tentativo di abrogazione viene punito con la pena di morte, l’ignoranza della legge non giustifica. Tutti i nomi di battesimo avranno desinenze maschili, la storia verrà riveduta per la gioventù. La commissione storica non dovrà faticare, suo presidente è il professor Kien. Che hanno fatto le donne nella storia? Figli ed intrighi!» (p. 437-438)

E poco dopo, spiando dal buco della chiave i movimenti mattutini dei coinquilini del suo palazzo, Kien definisce le donne che osserva passare e intrattenersi con uomini sul pianerottolo di casa «tante piccole Cleopatre pronte a qualunque menzogna, insinuanti, scodinzolanti, implorando un briciolo d’attenzione, promettendo amore e fedeltà, graffiando spietatamente la bella giornata piena che gli uomini s’accingevano ad affrontare, forti e preparati a suddividerla onestamente nelle sue parti. Perché simili uomini sono degenerati, vivono alla scuola delle loro mogli; essi, naturalmente, odiano le loro mogli, ma anziché generalizzare il loro odio corrono dietro alla prima donna che capita. Una sorride e loro subito si fermano. E’tutto un umiliarsi, un rimandare progetti, un allargare le gambe, un perder tempo, un mercanteggiare minuscole gioie!» (p. 442)

E aggiunge: «Le donne sono insopportabili e sciocche analfabete, un’eterna fonte di fastidi. Come sarebbe ricco il mondo senza di loro, un immenso laboratorio, una biblioteca zeppa di libri, un paradiso di lavoro intenso e ininterrotto!» (p. 442)

A chi conosca un po’ il teatro greco queste invettive misogine ricordano abbastanza, quantomeno per i toni iperbolici, quella di Ippolito nell’omonima tragedia di Euripide:

« Oh Zeus, perché dunque hai messo fra gli uomini un ambiguo malanno, portando le donne alla luce del sole? Se proprio volevi seminare la stirpe dei mortali, non dalle donne dovevi produrla: ma che gli uomini comprassero il seme dei figli, depositando in cambio nei tuoi templi oro o ferro o peso di bronzo, ciascuno secondo il valore del prezzo, e viver senza donne in libere case. Ora invece, per portarci in casa questo malanno, distruggiamo le ricchezze della casa. E da questo è chiaro che la donna è un grosso guaio, se il padre, che l’ha generata e allevata, aggiunge una dote e la colloca in altra casa, per liberarsi da un guaio! Chi si è preso questa terribile genia in casa, gode – sciagurato! – a ricoprire questo idolo maligno con ornamenti e vestiti, consumando le ricchezze della casa! Ed egli si trova in questa necessità, che, se si è imparentato con parenti di alto rango, deve tenersi e godersi una moglie odiosa; e se ha sposato una brava donna, deve tenersi inutili parenti e, col bene, sopportare un malanno. La cosa migliore è l’aver in casa una donna da nulla, ma almeno inutile nella sua stupidità. La donna saputa, la odio! Non me ne capiti in casa una, che pensi cose più grandi che a donna conviene. È proprio in queste donne intelligenti che Cipride ingenera la scelleratezza: mentre la donna semplice si sottrae alla follia per il suo poco senno. Bisognerebbe inoltre che alla donna non si avvicinassero ancelle, ma le stessero accanto solo muti mostri di fiere, perché non possa rivolgere parola ad alcuno e nemmeno, a sua volta, ascoltare i discorsi delle altre. Ora invece, in casa, le scellerate meditano disegni scellerati e le ancelle li portano fuori. (Ippolito, vv. 616ss.).

In entrambi gli autori l’estremismo delle tirate misogine arriva in effetti ad immaginare e a desiderare l’annientamento stesso del genere femminile, a fantasticare un mondo senza donne. Credo, per altro, che accostare artisti così lontani nel tempo abbia nella fattispecie un concreto fondamento storico-filologico: nel lungo delirio misogino finale di Peter Kien davanti a suo fratello Georg, il protagonista avvalora infatti le sue tesi citando a lungo Omero e accanendosi contro le molteplici figure femminili del mito classico quali emblemi del ‘male assoluto’: Elena, Clitennestra, Afrodite, Circe, perfino la povera, innocente Nausicaa e la fedele Penelope… Canetti conosceva bene, insomma, la letteratura classica e aveva ben presente il misoginismo greco mentre scriveva Autodafé.

Ebbene: se questi passi di Euripide e di Canetti cadessero sotto gli occhi miopi dei sacerdoti iconoclasti della cancel culture questi due capolavori della letteratura mondiale verrebbero senza esitazioni messi all’indice della loro chiesa fondamentalista…

Eppure Euripide e Canetti non sono autori ‘ideologicamente’, semplicisticamente misogini. Non direi proprio. Euripide in particolare è stato il tragediografo greco più attento alla psicologia femminile, alla sua inesplorata profondità, alla sua contraddittoria ma autentica ricchezza. Povertà di spirito e meschinità appartengono nel suo teatro solo ai personaggi maschili. Perciò l’Atene del tempo, largamente e profondamente ‘maschilista’, lo osteggiò sempre fino a costringerlo alla fine a lasciare la sua città. Perciò rovesciò addirittura su di lui, fraintendendolo completamente, la taccia di misoginia. Anche rinfacciandogli passi come l’invettiva di Ippolito. Ma quell’invettiva non è condivisa da Euripide. In quelle parole l’autore e il personaggio non coincidono affatto. Anzi, sono molto distanti.  

Ippolito, il personaggio, è un giovane immaturo, spaventato dal sesso. Indotto da questo spavento a rifugiarsi nel surrogato della passione sportiva e venatoria.  Quando scopre che la propria matrigna si è follemente invaghita di lui, Ippolito si straccia le vesti inorridito. Maschera la sua immaturità e la sua sessuofobia con un intransigente moralismo, con una presunzione di purezza agamica che è, in realtà, rinuncia alla propria integrità umana. Scappa via da Eros che lo insegue. Inveisce, in apparenza, contro il genere femminile: in realtà, contro la parte di se stesso che ostinatamente rimuove.

Euripide, l’autore, ha creato personaggi femminili indimenticabili, modernissimi, a partire proprio da Fedra, che non è la matrigna matura e libidinosa che concupisce il giovane e ingenuo figliastro, ma una giovanissima donna anche lei. Costretta contro natura a sposare un aristocratico attempato si innamora secondo natura del figliastro suo coetaneo. Da persona morigerata e educata al rispetto delle regole sociali quale è, combatte la propria passione e la reprime ferocemente, senza cedimenti. Ma nel frattempo una serva impicciona e cinica ha pensato bene di rivelare i sentimenti della ragazza a Ippolito. Fedra si uccide per la vergogna. Ippolito esplode nella invettiva che ho riportato sopra. I due non si incontrano mai sulla scena. Sono ciascuno la causa incolpevole della rovina dell’altro. La colpa vera, oggettiva sta altrove. Non tanto nella forza di Eros, ma nella violenza delle norme sociali della Grecia di allora. Di questa violenza Euripide era ben consapevole, a differenza dei suoi concittadini. E questo, con coraggio e spregiudicatezza, esibiva sulla scena teatrale, sotto il sottile e diafano velo del mito. Perciò era tanto vilipeso ed attaccato.

Il misoginismo di Canetti in Auto da fé sembra invece più aspro, viscerale, incondizionato. Tanto che è difficile capire, fino a un certo punto, se intercorra davvero una distanza (e quanta) tra autore e personaggio.

Peter Kien, il protagonista del romanzo, autorecluso nella sua passione esclusiva e solipsistica per gli studi eruditi e per i libri, sposa la sua governante – una persona orribile nella sua meschinità, avidità, cattiveria – soltanto perché ingenuamente persuaso che ella possa nutrire rispetto e premura per il patrimonio librario di lui. Lei invece è solo interessata a impadronirsi dei suoi beni, lo caccia addirittura di casa, costringendolo a una vita di miserevoli espedienti, in balia di volta in volta di loschi ed equivoci personaggi. È sulla base di questa catastrofica esperienza matrimoniale e della propria costituzionale incapacità di relazionarsi con il mondo e specialmente con l’altro sesso, che Peter Kien matura ed esprime a più riprese nel romanzo – e soprattutto nel monologo che ho riportato sopra – la sua insuperabile misoginia.

Neppure Peter Kien, tuttavia, è la perfetta controfigura del suo autore. Il quale autore, infatti – nello stupendo finale della storia -, si sdoppia visibilmente tra il protagonista e il fratello di lui, Georg: uno psichiatra che dedica la propria esistenza ai suoi malati offrendosi completamente a loro con empatia, umanità e benevolenza totali; un uomo che per altro ama riamato le donne, moltissime donne. E Georg arriva a casa del fratello Peter con l’intento (inutile) di riscattarlo dal suo disastro familiare e di curarlo dalla sua pazzia. La misoginia di Peter Kien, dunque, è condivisa da Canetti solo per metà: quantomeno è sottoposta ad uno sguardo molto critico, esterno, e risalta più che altro – nella sua radicalità – come componente della sua misantropia e come sintomo clamoroso della sua follia.

Dunque l’antifemminismo di questi personaggi (dell’Ippolito euripideo come del Peter Kien canettiano) è soprattutto la proiezione delle proprie autonome tare psichiatriche, della loro spaventosa in-completezza/in-compiutezza umana. Esso ha poco o nulla a che vedere con le idee (tantomeno con la realtà biografica) dei loro autori.

Ma forse tutto questo mio confrontare, ragionare e distinguere tra autore e personaggio parrebbe ai moderni (?), intransigenti guardiani del politically correct un tentativo sottile, pretestuoso, persino avvocatesco, di difendere l’indifendibile. Temo che essi condannerebbero comunque questi autori al ‘rogo’ insieme alle loro opere. Proprio come avveniva agli eretici e ai loro libri in tempi più oscuri del nostro con gli autodafé dell’inquisizione. E come effettivamente accade, coincidenza ironica del caso, proprio a Peter Kien – e alla sua immensa biblioteca – nel tragico finale del romanzo di Canetti…

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