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Posts Tagged ‘Euripide’

Ho maltrattato altrove Diego Fusaro giurando che lo avrei da quel momento ignorato, ma questa volta mi tocca riparlarne riconoscendogli, in tutta onestà, un merito: quello di aver tentato a suo modo, e tra pochissimi altri, di smascherare il mito e lo slogan, ormai onnipervasivi, della resilienza. Fusaro lo fa in un suo saggio, brillante ma insidioso (e piuttosto ridondante, come tutti i suoi) dal titolo inequivocabile, diretto come un treno: Odio la resilienza. Contro la mistica della sopportazione (Rizzoli, Milano 2022). Si sa: i nemici dei nostri nemici sono o diventano, per legge di natura, contro la nostra volontà e contro ogni nostra aspettativa, nostri amici, quantomeno occasionali. Il comune nemico mio e di Fusaro è, in questo caso, l’ottimismo obbligatorio di ‘regime’. Il regime è quello, tanto ampio da diventare impersonale e inafferrabile, aziendal-finanziario- mercantilistico che domina l’occidente globalizzato da decenni. L’ottimismo è quello, fasullo, che questo regime vuole imporre per persuadere masse sterminate di consumatori che essi continuano a vivere nel migliore dei mondi possibili e di conseguenza devono continuare, questo mondo, a sostenerlo in tutti i modi e senza riserve così come è, nonostante tutto e all’infinito. L’ottimismo obbligatorio della società consumistica, lo vado ripetendo da sempre, è merce del diavolo. Ben impacchettata, suadente, seducente, ma profondamente corruttiva e rivolta al bene e all’interesse primario di chi lo propaganda. E fin qui concordo col Fusaro. E tuttavia la strategia propagandistica dell’ottimismo obbligatorio è irresistibile perché fa leva su un aspetto incoercibile della natura umana. Tutti noi abbiamo bisogno di speranze e di illusioni per vivere. Tutti noi desideriamo e sogniamo naturalmente – e indefinitamente -, in primis, il benessere e il piacere. E l’ottimismo della propaganda di regime alimenta ogni giorno, ogni istante, fino all’overdose, attraverso i mille canali promozionali che possiede, proprio il desiderio e l’illusione di raggiungerli. Chi coltiva ciecamente desideri e illusioni di benessere e di piacere, infatti, alimenta a sua volta il sistema che le produce e che le vende: non lo mette in discussione e non percepisce i rischi mortali della sua espansione infinita e indiscussa.

La resilienza è l’ultima trovata della neolingua di questo sistema – ha ragione qui il Fusaro. Drammi e problemi gravissimi, figli diretti o indiretti (ma inequivocabili) della mondializzazione capitalistica (dalla pandemia, alle guerre, al disastro ecologico e allo sfruttamento indiscriminato e squilibrato delle risorse) mettono in pericolo imminente la sopravvivenza del genere umano, quindi il “sistema” stesso. E il “sistema” per parte sua quale soluzione propone? La resilienza. Sob! Sarebbe a dire che non dobbiamo attrezzarci, ribellarci, mobilitarci collettivamente in social catena per contrastare e combattere le cause di questi pericoli, bensì adeguarci, sopportarne, accettarne gli effetti, resistere individualmente con forza d’animo, pazienza e speranza infinite… Già, la speranza. Ovvio, dice giustamente il Fusaro, ribellarci e combattere in molti significherebbe muovere contro il sistema. Adattarsi e sopportare e sperare da soli invece non mette in discussione un bel nulla se non noi stessi. Molte volte in effetti su questo blog ho richiamato gli antichi greci per sbugiardare la falsa virtù della speranza. Che significa spesso, come ben sapevano loro, una proiezione illusoria del desiderio, ovvero una infondata autosuggestione: chiudere insomma gli occhi della ragione di fronte alla realtà. Oggi la speranza si chiama meglio “pensare comunque positivo”, cioè fiducia incondizionata nel futuro a prescindere da qualsiasi dato realistico o condizione oggettiva. Una virtù coltivata ingenuamente dagli individui per sopravvivere, ma utile soprattutto al sistema per imbonire le masse e perpetuare se stesso. La speranza così intesa è diventata insomma, nel vocabolario creativo del sistema “turbo-capitalistico”, sinonimo stretto o almeno alleato della resilienza.

Il Fusaro sostiene proprio questo, in buona sostanza. Dice di odiare la resilienza in quanto truffa lessicale, propaganda di un sistema che cerca con tutti i suoi potentissimi mezzi di spacciare per leggi di natura le leggi proprie, quelle cioè che garantiscono i propri interessi di dominio (finanziario, economico, ideologico ecc) ormai planetario. Dice di odiare la resilienza in quanto finto valore utile soprattutto a rovesciare sull’individuo/atomo la colpa di non sapere o volere accettare i crescenti ‘inconvenienti’ del sistema; se non ce la fai ad affrontarli è perché sei un disadattato o un debole o un immaturo; se soccombi è solo perché non sei abbastanza resiliente.

Ora fin qui, ripeto, io concorderei abbastanza col Fusaro. Ma intanto il potentissimo nemico che egli addita è reale, certamente, ma estremamente impersonale, vago, ubiquo, inafferrabile. Chi sono i signori del sistema da combattere: Amazon, le multinazionali, le banche, i mercati, i cinesi? O tutti questi e molti altri insieme? Quali volti concreti ha questo sistema mondiale “turbo-capitalista”? Contri chi e che cosa dovremmo o potremmo rivoltarci? Come e con quali mezzi potremmo farlo? E, soprattutto, coalizzandoci e organizzandoci tra chi? Chi fra noi, in questo momento, dovrebbe o potrebbe farsi promotore e attore di questa rivolta o rivoluzione globale? Appellandosi a quale nuovo manifesto condiviso da un neo-proletariato mondiale? Non trovo al momento, da perfetto profano di sociologia, economia, politologia ecc., una risposta possibile (concreta) a questa domanda. Anche perché questo neo-proletariato politicamente non esiste. I nuovi poveri vittime della macchina turbo-capitalistica mondiale sono certamente milioni, miliardi. Ma quale istanza comune, trasversale, internazionale potrebbe unirli e mobilitarli in una social catena contro il moloch che li minaccia? La realtà è che essi sono tragicamente ed infinitamente divisi, addirittura ostili in primis gli uni verso gli altri. E lasciamo stare l’impotenza sociale delle turbe immense di schiavi sfruttati nei vari terzi e quarti mondi. Ma anche nelle società meno povere come la nostra la polverizzazione categoriale del disagio e/o della vecchia e nuova povertà è evidente: partite iva contro statali, precari contro non precari, categorie protette contro categorie emergenti, italiani contro immigrati, giovani contro anziani ecc. È un bellum omnium (pauperum) erga omnes. Un facile trionfo per il turbocapitalismo internazionale. Un paradosso, direi: all’internazionale socialista del Novecento è subentrata l’internazionale capitalista del nuovo millennio e la vecchia, difficile lotta dei proletari uniti contro i singoli capitalisti si è rovesciata in facile vittoria del grande capitale mondiale unito contro sfruttati divisi, litigiosi, atomizzati, pressoché imbelli.

Fusaro sottace abbastanza questa realtà. Non solo: con tutta la profusione di cultura filosofica con cui maschera la voragine di fondo della sua argomentazione, quando dovrebbe arrivare al nodo della questione, cioè a proporre marxianamente soluzioni “pratiche” (di prassi politica, cioè), non sa appellarsi ad altro che al ridicolo rifiuto della scienza, della fantomatica dittatura sanitaria, quella delle mascherine e dei green pass durante la pandemia, per intenderci: quello sarebbe secondo lui un esempio importante di rivolta contro il sistema! Parturiunt montes, nascitur ridiculus mus

Ma no, dottor Fusaro, abbia pazienza: credo che lei sia abbastanza intelligente per capire che correndo dietro a queste infeltrite bandierine dell’antiscienza, del sovranismo, della patria e della famiglia ecc. non si arriva proprio da nessuna parte…

Io la vedo molto diversa e parecchio più tragica (apocalittica), purtroppo. Vedo che il moloch contro cui si dovrebbe combattere è in realtà una immane macchina sfrenata, lanciata a tutta forza verso un imminente schianto, un blackout fatale che tutti rimuoviamo e che temo sia ormai impossibile evitare. È solo questione di tempo.

E noi? Noi siamo in tragico ritardo.

Perché noi, tutti quanti siamo – diceva il grande scrittore russo Gogol – dormiamo, e sogniamo

Continuiamo pervicacemente a sognare. Che cosa sogniamo? Semplice, ripeto: piacere e benessere. Semplice e naturale. Il sogno che il capitalismo occidentale ci ha educato da decenni a sognare. Il sogno più istintivo e dolce (ma virtualmente pericoloso, come ben sapeva il vecchio Epicuro) che potremmo accarezzare: il sogno edonistico. Perché hedùs in greco significa dolce, appunto, ed hedonè è la dolcezza del piacere. Se il capitalismo occidentale ha costruito nella storia un sistema più efficiente e vincente di tutti gli altri non è per caso: è perché ha prodotto nella società umana, (più male che bene, solo per alcuni e non per tutti, ma di sicuro più diffusamente che altri sistemi) piacere e benessere, certo, ma anche – con il suo formidabile apparato pubblicitario – il cieco e mai sazio desiderio di entrambi. Il turbocapitalismo consumistico ci ha intimamente corrotti, antropologicamente trasformati, snaturati, è vero: ma lo ha fatto a partire dalla sollecitazione sistematica dei nostri più basilari e naturali desideri. Chi poteva resistere a una sollecitazione del genere? Diciamocelo: nessuno può né vuole combattere davvero contro ciò che naturalmente desidera. Tantomeno ci riesce contro chi, in maniera artificiale ma scientifica, sa alimentare quei desideri all’infinito. Non riesco a vedere nel mondo attuale popoli, o gruppi o movimenti che non siano profondamente conquistati dal modello di vita occidentale: anche quelli che sembrano combatterlo con furia, o addirittura minacciano di distruggerlo, nel profondo desiderano eguagliarlo o sostituirlo. Il loro odio dichiarato è in realtà, ne sono convinto, inconfessabile o inconsapevole invidia.

Solo il sistema in realtà potrebbe salvarci da sé stesso. Ma non lo farà. Perché l’interesse immediato di quanti lo guidano è più forte e ingovernabile delle virtù che occorrerebbero loro per frenare la corsa e salvare il convoglio dallo schianto: lungimiranza, misura, sacrificio condiviso e giustizia distributiva sarebbero forse oggi le vere, uniche, ardue strategie di sopravvivenza.  Ma gli insaziabili happy few alla guida della locomotiva si limitano tutt’al più a elogiare a parole queste virtù. In realtà non vogliono e nemmeno possono rallentare la corsa del treno. Preferiscono perciò mantenere tutti gli altri passeggeri, fino all’ultimo poveraccio imbucato nella terza classe, immersi nel sonno e nel sogno…

La vulgata pubblicitaria del turbocapitalismo ha infatti rimosso (ne ho già scritto altrove) negli ultimi sessant’anni dalla cultura dell’uomo medio occidentale la concezione stessa della tragedia: il senso del limite, l’incombenza inevitabile della morte, della sconfitta e del nulla, il dovere drammatico della rinuncia e della scelta. Tutte queste componenti, oggettive e irremovibili della condizione umana, sono state lavate pericolosamente via dalla nostra coscienza collettiva. E ciò è accaduto perché esse sono irriducibili nemiche di un sistema che, per perpetuarsi ed espandersi, ha bisogno di nasconderle e di iniettare sempre e comunque negli individui-consumatori dosi di fideistica e bambinesca (pseudo-umanistica) speranza nel futuro.

Ma quel sistema, caro prof Fusaro, noi non riusciamo purtroppo più di tanto a combatterlo, né tantomeno a odiarlo del vecchio e proverbiale – e a lei ancora caro – odio di classe: perché esso promette a tutti noi, che lo ammettiamo o no – lo ribadisco -, il paradiso verso cui si protendono i nostri profondi e immediati desideri. E noi occidentali, per altro, di quel sistema abbiamo goduto per alcuni decenni vantaggi concreti in abbondanza, più (e a scapito) di ogni altra popolazione al mondo. Perciò, temo, dovremo essere noi a pagarne (e stiamo già iniziando a pagarlo) il prezzo più amaro, senza sconti.

Proprio la rimozione del tragico d’altronde (la poesia e il teatro greco ce lo insegnano) è la condizione più favorevole all’accendersi e al consumarsi, implacabile, della tragedia. Il presupposto della nemesi. Della catastrofe. Di quel doomsday di cui gli uomini di scienza più avveduti stanno aggiornando, ahinoi, proprio in questi giorni la data.

Non so perché ma scrivendo queste cose mi vengono in mente – per inquietante analogia – il Serse di Eschilo, l’Edipo di Sofocle, l’Eracle folle di Euripide e tanti altri grandi archetipi dimenticati (riposti/rimossi: remoti) negli scantinati del mito. Vicende tragiche segnate, tutte, dal sogno ostinato della potenza, dalla hybris del successo, dal naufragio sanguinoso dell’illusione. E dal tardivo riconoscimento della realtà.

Spero che stavolta i miei classici mi tradiscano.

PS: un breve ma penetrante e (molto) condivisibile articolo contro la resilienza (firmato da Maurizio Puppo) si legge altresì in: https://altritaliani.net/contro-la-resilienza-ora-e-sempre-resistenza/

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Ho fatto una fatica immane ad avvicinarmi alla conclusione di Auto da fé (“Die Blendung”: [‘accecamento, abbaglio, illusione’], Adelphi, Milano 2013) di Elias Canetti, ma l’ho finalmente terminato. Antiromanzo tremendo. Mattone indigeribile. Favola disturbante e claustrofobica. Tortura della mente e dello stomaco. Ingrata fantasia espressionista (e i suoi personaggi – mostri umanoidi, più che esseri umani – assomigliano molto alle torve caricature, ai deformi fantasmi di certa pittura espressionistica del primo novecento). Ma ho finito di leggerlo – dopo più di un anno. Ho voluto farlo, perché ne valeva comunque la pena. Metteva conto attraversare fino in fondo questo incubo ad occhi aperti perché ogni tanto esso mi ha gratificato con rapinose visioni – folgorazioni di profondità abissale. Mette conto immergersi nella melma repellente di questo lentissimo fiume soltanto per potervi ogni tanto setacciare enormi pepite, andarvi a caccia di grandi e lucide perle disperse dentro la vischiosa opacità del flusso narrativo.

Non voglio dilungarmi qui a recensire il libro di Canetti. Mi limito, come spesso faccio in questo blog quando parlo di classici, a citarne a margine un paio di passaggi che, nell’ultima parte, mi hanno parecchio colpito. Capirete presto perché.

Il protagonista, lo studioso Peter Kien, sinologo e bibliofilo monomaniacale che vive solo dei suoi libri e per i suoi libri – si abbandona nel finale a uno sfogo surreale ma durissimo contro il genere femminile:

«Sta per essere emanato un decreto concernente l’abolizione del sesso femminile. La pubblica affissione è prevista per domani. Lo renderà noto il portiere. La sua voce verrà udita da tutta la città, da tutto il paese, da tutti i paesi del mondo, fin dove giunge l’atmosfera terrestre, gli altri pianeti si arrangino, noi siamo oberati, oberati di donne, ogni tentativo di abrogazione viene punito con la pena di morte, l’ignoranza della legge non giustifica. Tutti i nomi di battesimo avranno desinenze maschili, la storia verrà riveduta per la gioventù. La commissione storica non dovrà faticare, suo presidente è il professor Kien. Che hanno fatto le donne nella storia? Figli ed intrighi!» (p. 437-438)

E poco dopo, spiando dal buco della chiave i movimenti mattutini dei coinquilini del suo palazzo, Kien definisce le donne che osserva passare e intrattenersi con uomini sul pianerottolo di casa «tante piccole Cleopatre pronte a qualunque menzogna, insinuanti, scodinzolanti, implorando un briciolo d’attenzione, promettendo amore e fedeltà, graffiando spietatamente la bella giornata piena che gli uomini s’accingevano ad affrontare, forti e preparati a suddividerla onestamente nelle sue parti. Perché simili uomini sono degenerati, vivono alla scuola delle loro mogli; essi, naturalmente, odiano le loro mogli, ma anziché generalizzare il loro odio corrono dietro alla prima donna che capita. Una sorride e loro subito si fermano. E’tutto un umiliarsi, un rimandare progetti, un allargare le gambe, un perder tempo, un mercanteggiare minuscole gioie!» (p. 442)

E aggiunge: «Le donne sono insopportabili e sciocche analfabete, un’eterna fonte di fastidi. Come sarebbe ricco il mondo senza di loro, un immenso laboratorio, una biblioteca zeppa di libri, un paradiso di lavoro intenso e ininterrotto!» (p. 442)

A chi conosca un po’ il teatro greco queste invettive misogine ricordano abbastanza, quantomeno per i toni iperbolici, quella di Ippolito nell’omonima tragedia di Euripide:

« Oh Zeus, perché dunque hai messo fra gli uomini un ambiguo malanno, portando le donne alla luce del sole? Se proprio volevi seminare la stirpe dei mortali, non dalle donne dovevi produrla: ma che gli uomini comprassero il seme dei figli, depositando in cambio nei tuoi templi oro o ferro o peso di bronzo, ciascuno secondo il valore del prezzo, e viver senza donne in libere case. Ora invece, per portarci in casa questo malanno, distruggiamo le ricchezze della casa. E da questo è chiaro che la donna è un grosso guaio, se il padre, che l’ha generata e allevata, aggiunge una dote e la colloca in altra casa, per liberarsi da un guaio! Chi si è preso questa terribile genia in casa, gode – sciagurato! – a ricoprire questo idolo maligno con ornamenti e vestiti, consumando le ricchezze della casa! Ed egli si trova in questa necessità, che, se si è imparentato con parenti di alto rango, deve tenersi e godersi una moglie odiosa; e se ha sposato una brava donna, deve tenersi inutili parenti e, col bene, sopportare un malanno. La cosa migliore è l’aver in casa una donna da nulla, ma almeno inutile nella sua stupidità. La donna saputa, la odio! Non me ne capiti in casa una, che pensi cose più grandi che a donna conviene. È proprio in queste donne intelligenti che Cipride ingenera la scelleratezza: mentre la donna semplice si sottrae alla follia per il suo poco senno. Bisognerebbe inoltre che alla donna non si avvicinassero ancelle, ma le stessero accanto solo muti mostri di fiere, perché non possa rivolgere parola ad alcuno e nemmeno, a sua volta, ascoltare i discorsi delle altre. Ora invece, in casa, le scellerate meditano disegni scellerati e le ancelle li portano fuori. (Ippolito, vv. 616ss.).

In entrambi gli autori l’estremismo delle tirate misogine arriva in effetti ad immaginare e a desiderare l’annientamento stesso del genere femminile, a fantasticare un mondo senza donne. Credo, per altro, che accostare artisti così lontani nel tempo abbia nella fattispecie un concreto fondamento storico-filologico: nel lungo delirio misogino finale di Peter Kien davanti a suo fratello Georg, il protagonista avvalora infatti le sue tesi citando a lungo Omero e accanendosi contro le molteplici figure femminili del mito classico quali emblemi del ‘male assoluto’: Elena, Clitennestra, Afrodite, Circe, perfino la povera, innocente Nausicaa e la fedele Penelope… Canetti conosceva bene, insomma, la letteratura classica e aveva ben presente il misoginismo greco mentre scriveva Autodafé.

Ebbene: se questi passi di Euripide e di Canetti cadessero sotto gli occhi miopi dei sacerdoti iconoclasti della cancel culture questi due capolavori della letteratura mondiale verrebbero senza esitazioni messi all’indice della loro chiesa fondamentalista…

Eppure Euripide e Canetti non sono autori ‘ideologicamente’, semplicisticamente misogini. Non direi proprio. Euripide in particolare è stato il tragediografo greco più attento alla psicologia femminile, alla sua inesplorata profondità, alla sua contraddittoria ma autentica ricchezza. Povertà di spirito e meschinità appartengono nel suo teatro solo ai personaggi maschili. Perciò l’Atene del tempo, largamente e profondamente ‘maschilista’, lo osteggiò sempre fino a costringerlo alla fine a lasciare la sua città. Perciò rovesciò addirittura su di lui, fraintendendolo completamente, la taccia di misoginia. Anche rinfacciandogli passi come l’invettiva di Ippolito. Ma quell’invettiva non è condivisa da Euripide. In quelle parole l’autore e il personaggio non coincidono affatto. Anzi, sono molto distanti.  

Ippolito, il personaggio, è un giovane immaturo, spaventato dal sesso. Indotto da questo spavento a rifugiarsi nel surrogato della passione sportiva e venatoria.  Quando scopre che la propria matrigna si è follemente invaghita di lui, Ippolito si straccia le vesti inorridito. Maschera la sua immaturità e la sua sessuofobia con un intransigente moralismo, con una presunzione di purezza agamica che è, in realtà, rinuncia alla propria integrità umana. Scappa via da Eros che lo insegue. Inveisce, in apparenza, contro il genere femminile: in realtà, contro la parte di se stesso che ostinatamente rimuove.

Euripide, l’autore, ha creato personaggi femminili indimenticabili, modernissimi, a partire proprio da Fedra, che non è la matrigna matura e libidinosa che concupisce il giovane e ingenuo figliastro, ma una giovanissima donna anche lei. Costretta contro natura a sposare un aristocratico attempato si innamora secondo natura del figliastro suo coetaneo. Da persona morigerata e educata al rispetto delle regole sociali quale è, combatte la propria passione e la reprime ferocemente, senza cedimenti. Ma nel frattempo una serva impicciona e cinica ha pensato bene di rivelare i sentimenti della ragazza a Ippolito. Fedra si uccide per la vergogna. Ippolito esplode nella invettiva che ho riportato sopra. I due non si incontrano mai sulla scena. Sono ciascuno la causa incolpevole della rovina dell’altro. La colpa vera, oggettiva sta altrove. Non tanto nella forza di Eros, ma nella violenza delle norme sociali della Grecia di allora. Di questa violenza Euripide era ben consapevole, a differenza dei suoi concittadini. E questo, con coraggio e spregiudicatezza, esibiva sulla scena teatrale, sotto il sottile e diafano velo del mito. Perciò era tanto vilipeso ed attaccato.

Il misoginismo di Canetti in Auto da fé sembra invece più aspro, viscerale, incondizionato. Tanto che è difficile capire, fino a un certo punto, se intercorra davvero una distanza (e quanta) tra autore e personaggio.

Peter Kien, il protagonista del romanzo, autorecluso nella sua passione esclusiva e solipsistica per gli studi eruditi e per i libri, sposa la sua governante – una persona orribile nella sua meschinità, avidità, cattiveria – soltanto perché ingenuamente persuaso che ella possa nutrire rispetto e premura per il patrimonio librario di lui. Lei invece è solo interessata a impadronirsi dei suoi beni, lo caccia addirittura di casa, costringendolo a una vita di miserevoli espedienti, in balia di volta in volta di loschi ed equivoci personaggi. È sulla base di questa catastrofica esperienza matrimoniale e della propria costituzionale incapacità di relazionarsi con il mondo e specialmente con l’altro sesso, che Peter Kien matura ed esprime a più riprese nel romanzo – e soprattutto nel monologo che ho riportato sopra – la sua insuperabile misoginia.

Neppure Peter Kien, tuttavia, è la perfetta controfigura del suo autore. Il quale autore, infatti – nello stupendo finale della storia -, si sdoppia visibilmente tra il protagonista e il fratello di lui, Georg: uno psichiatra che dedica la propria esistenza ai suoi malati offrendosi completamente a loro con empatia, umanità e benevolenza totali; un uomo che per altro ama riamato le donne, moltissime donne. E Georg arriva a casa del fratello Peter con l’intento (inutile) di riscattarlo dal suo disastro familiare e di curarlo dalla sua pazzia. La misoginia di Peter Kien, dunque, è condivisa da Canetti solo per metà: quantomeno è sottoposta ad uno sguardo molto critico, esterno, e risalta più che altro – nella sua radicalità – come componente della sua misantropia e come sintomo clamoroso della sua follia.

Dunque l’antifemminismo di questi personaggi (dell’Ippolito euripideo come del Peter Kien canettiano) è soprattutto la proiezione delle proprie autonome tare psichiatriche, della loro spaventosa in-completezza/in-compiutezza umana. Esso ha poco o nulla a che vedere con le idee (tantomeno con la realtà biografica) dei loro autori.

Ma forse tutto questo mio confrontare, ragionare e distinguere tra autore e personaggio parrebbe ai moderni (?), intransigenti guardiani del politically correct un tentativo sottile, pretestuoso, persino avvocatesco, di difendere l’indifendibile. Temo che essi condannerebbero comunque questi autori al ‘rogo’ insieme alle loro opere. Proprio come avveniva agli eretici e ai loro libri in tempi più oscuri del nostro con gli autodafé dell’inquisizione. E come effettivamente accade, coincidenza ironica del caso, proprio a Peter Kien – e alla sua immensa biblioteca – nel tragico finale del romanzo di Canetti…

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Il poeta deve nascondere il male, non metterlo in mostra, né insegnarlo. Ai bambini fa scuola il maestro, ai giovani la fanno i poeti. Dunque è nostro dovere non dire altro che cose oneste. (Aristofane, Rane, vv. 1053ss.).

Così il comico ateniese Aristofane fa dire ad Eschilo (che era il suo tragediografo preferito) per condannare Euripide e il suo (per i tempi – siamo nel V sec. A.C.) modernissimo realismo scenico. Aristofane scambia cioè la straordinaria capacità euripidea di rappresentare gli esseri umani così come sono per diseducativo incitamento alla trasgressione dei principi etici della tradizione. E la stigmatizza appellandosi a una concezione moralistica dell’arte tragica (che nella Grecia di allora era tradizionale e ancora diffusa) che pretendeva da essa il ruolo quasi scolastico di educatrice del popolo.

Sul piano estetico le posizioni di Aristofane sono da tempo superate. Ma sul piano pedagogico non direi che egli sollevi un problema per noi ormai del tutto inesistente. Anche oggi chi insegna ai giovani attraverso la letteratura può nutrire il dubbio se proporre o meno un grande autore che, come (o  peggio di) Euripide, rappresenti in maniera troppo cruda e diretta vizi, perversioni, meschinità, malvagità degli esseri umani, o esprima egli stesso (l’autore intendo) troppo apertamente nelle sue pagine sentimenti e pensieri poco consoni con l’elevato ideale etico ed antropologico maturato negli ultimi decenni dalla nostra civiltà. Si pone cioè, per dirla in sintesi con un termine alla moda, il dubbio del diritto di cittadinanza, nelle nostre scuole, per autori importanti ma oggi troppo politically uncorrect. Esiodo e molti altri greci antichi, per esempio, sono spudoratamente antifemminili. Tacito, Dante, Céline, Kerouac (per citarne solo alcuni in ordine sparso tra l’antico e il moderno) sono talora xenofobi e/o omofobi. Ovidio è spesso sessista. Machiavelli un immorale dichiarato. Quanto ai misoneisti reazionari e retrogradi, se ne trovano a iosa e a qualsiasi latitudine spazio-temporale.

Ma si tratta per lo più di un falso dilemma. Quando ci accostiamo alla letteratura o all’arte in generale, la presenza nell’opera di vere  o presunte pecche morali non può e non deve costituire motivo alcuno di censura estetica. L’arte vera – piaccia o no (e mi preoccupano molto quelli cui questo assioma non piace, come il vecchio Platone) – è al di sopra della morale, al di là del bene e del male proprio mentre (e perché) ne rappresenta, nella maniera più visibile e cruda e perciò, direi, paradossalmente e autenticamente educativa, lo scontro o l’intreccio.

Anche i più sacrosanti ed avanzati principi dell’etica dominante diventano invalicabili e ottusi pregiudizi – ideologici, bacchettoni o radical chic – quando giungano impropriamente a interferire col giudizio artistico. Perché impediscono l’accesso alla completa e profonda intelligenza delle grandi opere e ne possono favorire manomissioni ermeneutiche o appropriazioni ideologiche indebite o, peggio ancora, inaccettabili censure.

Certo: misura e gradualità in relazione all’età di chi ci sta davanti sono d’obbligo per chi propone pagine letterarie agli adolescenti. Ma bisogna sempre considerare che le verità che la grande letteratura ci squaderna sono sempre più educative di mille mediocri letture edificanti o conformiste, capaci soprattutto di alimentare l’ipocrisia. Che quello che si guadagna in maturità di visione, complessità di pensiero e profondità di sguardo leggendo certi autori è sempre, enormemente di più di quello che si rischia di perdere in (improbabile) purezza ed in (presunta) innocenza. E l’innocenza per parte sua va – prima o poi, con tutta la cautela e la misura che si deve – turbata e confusa, se si vuole aiutare una persona a diventare adulta.

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Dice Euripide per bocca di Fedra (nell’Ippolito): «sembra che gli uomini agiscano per il peggio non per difetto naturale della loro ragione: molti infatti sono bensì forniti di senno, ma bisogna considerare che noi conosciamo e comprendiamo il bene, ma non ci sforziamo di attuarlo, gli uni per inerzia, altri perché prepongono al bene una qualche altro piacevole vizio.»       Quanto ciò sia vero lo si osserva talvolta particolarmente in certe persone che, pur dotate di una intelligenza brillante o persino geniale, sperperano questo loro patrimonio – lo sottraggono cioè al possibile beneficio degli altri – asservendolo a una loro manìa o tara o debolezza (ideologica, sentimentale, caratteriale): una patologica libido che cattura, assorbe, distorce quello speciale talento come uno specchio deformante risucchia la bellezza di un volto nel vortice della sua caricatura.

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