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Posts Tagged ‘Leopardi’

«È anche cosa osservabile che dei maestri i quali non siano assolutamente insigni in una facoltà, spesso sono adattati a insegnarla, e riescono a darla bene ad intendere, purché [1376] abbiano le altre qualità necessarie o proprie del bene insegnare, e indipendenti dalla cognizione della materia. Ma quegli uomini che si distinguono in questa cognizione, di rado assai troverannosi adattati a insegnarla, e gli scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla partecipato alla sua dottrina: eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon maestro e la più utile, non è l’eccellenza in quella tal dottrina, ma l’eccellenza nel saperla comunicare.  […] E l’immaginazione necessaria alla comunicativa è sempre propria dei geni, anche filosofici, anche metafisici, anche matematici. V. altro mio pensiero sulla comunicativa degli scrittori, bisognosi di tenere a questo fine, alquanto di spirito poetico.» (G. Leopardi, Zibaldone 23 Luglio 1821)

Sono abbastanza d’accordo qui col mio Leopardi, geniale anche in questo caso – lui del tutto autodidatta e del tutto imperito di insegnamento, oltre che ignaro di ‘psicopedagogia’ – nel centrare il cuore del problema: per insegnare bene (comunicare efficacemente) ci vuole molta immaginazione, cioè empatia, capacità di sdoppiarsi, di calarsi nella persona del discente; direi a mio modo – se interpreto bene – la capacità e la pazienza di chiarire prima e semplificare poi a se stessi ciò che si vuole trasmettere, prevedendone (pre-valutandone) così l’impatto sia intellettuale che emotivo sulla personalità degli allievi. Questo è quello che chiameremmo noi oggi anche – e più banalmente – prepararsi bene la lezione. Chi non sa e non vuole affrontare questo lavoro preparatorio difficilmente potrà, per quanto colto e intelligente, essere un bravo insegnante.

Sono abbastanza d’accordo con Leopardi, ripeto, ma con un importante distinguo. La conoscenza profonda ed ampia della disciplina non è ininfluente – come sembrerebbe intendere L. – sull’efficacia didattica mediata da questa immaginazione. Tutt’altro. Perché più si conosce a fondo ed in ampiezza ciò che si insegna più si potenzia e si affina (se già esiste) quella nostra (di noi insegnanti) facoltà immaginativa. Perché avere molte ed articolate conoscenze ci permette più soluzioni, alternative e strategie didattiche (una maggiore fantasia ideativa e operativa, appunto), e soprattutto lascia margini molto minori all’errore, all’azzardo, al pressapochismo, al dilettantismo. Un conto è muoversi in mare con una zattera improvvisata di quattro metri quadri, un altro conto è navigare su di una grossa barca ben attrezzata… Voglio dire: essere ferratissimi in una materia può certamente non bastare ad insegnarla bene, se non si possiede la immaginazione di cui parla L. Ma a una conoscenza scarsa e vaga della disciplina nessuna genialità immaginativa e comunicativa riuscirà mai a sopperire del tutto.

Provate con tutto il solo vostro talento naturale da chef a cucinare ottimi piatti senza disporre di ingredienti e mezzi e conoscenze sufficienti e adatti allo scopo…

[Beninteso: L. ha ragione nel dire che l’immaginazione, che lui paragona allo spirito poetico negli scrittori, è più importante, e non solo nell’insegnamento, della dottrina. Ma esagera forse nel negare la rilevanza di quest’ultima: a questo proposito, per altro, è la parabola stessa della sua formazione intellettuale e letteraria a smentirlo o almeno a correggerlo, se è vero che la sua poesia maggiore si è prodotta soprattutto distillando nel tempo – alla luce del genio e della immaginazione, appunto – l’enorme e impoetica mole della sua erudizione giovanile e del suo studio onnivoro, matto e disperatissimo. Mi premeva commentare e discutere questo interessante pensiero leopardiano anche in relazione al diffuso disprezzo che il mainstream del pedagogismo nostrano ostenta per le conoscenze e i contenuti dell’insegnamento a esclusivo favore delle cosiddette, famigerate competenze. E mi premeva anche per prevenire una qualche ulteriore, astuta e strumentale appropriazione indebita di Leopardi (se essa non è già avvenuta) da parte – stavolta – degli attuali, fanatici crociati dei soft skills…]

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Il tutto è falso

Il falso è tutto

Un refrain. Brevissimo. Otto parole per definire il mondo che ci circonda, oggi. Meglio: la maschera, il fantasma, la fata morgana l’autorappresentazione mistificante, onnipervasiva del nostro mondo. I media, il marketing, la comunicazione digitale ecc ecc.

Quando si dice con-genialità: Gaber per me (insieme con Leopardi) non è un autore qualsiasi. Lui e Giacomo sono miei Genii: numi tutelari, spiriti protettori, garanti e interpreti inconsapevoli del mio proprio (e non so di quanti altri: pochi, credo – e temo) modo di sentire, di pensare e di giudicare. Un modo identico, spiccicato al loro. Genii con i quali mi è impossibile dis-cordare perché – ne ignoro il motivo, ma sento che è così – essi mi sono in tutto naturalmente con-cordi. Cuori e spiriti e destini miei padri e miei gemelli insieme: hanno soltanto detto prima di me e molto meglio di me quello che io, dopo di loro ma insieme a loro, ho pensato, penso e andrò fino alla fine pensando, pure se non riuscirò mai a dirlo con la stessa genialità. Miei pro-feti, dunque. E Genii forsanche nel senso antico di spiriti capaci di trasmigrare ed incarnarsi in altrui, in chissà quanti altri, nel tempo e nello spazio. Questo sono i grandi autori. Maestri inconsapevoli di allievi devoti. I grandi autori/maestri non consolano, né persuadono, né edificano. Rivelano. Tolgono il velo. Sono brutali come le verità che ci squadernano davanti. Brutalmente generosi e misericordiosi.

Stranamente quei due versicoli di Gaber non li conoscevo ancora. Mi hanno folgorato, per caso, quando ho acceso l’altra mattina l’autoradio. Mi erano – incredibile! – sfuggiti. Non si riesce a conoscere tutto, nemmeno degli autori a noi più cari, vicini e congeniali. Ma stai tranquillo che pure quello che ancora ignori di loro essi lo hanno intanto pensato e sentito in un modo concorde e congeniale col tuo. Automatico. Restava solo da scoprirlo.

Il tutto è falso

Il falso è tutto

Questo distico è una forma chiusa (un chiasmo, lo chiamiamo a scuola): lapidaria, conclusiva, inespugnabile. Oracolo. Rivelazione. Quello che il grande Anonimo del sublime definiva il fulmine che illumina a giorno un orizzonte immerso nel buio. Una sentenza che non ha bisogno di commenti né di motivazioni. Che non teme obiezioni. Parole che pretendono il rispetto del silenzio. E ci consegnano, nella fattispecie, a una quieta disperazione. Perché questa infinita falsità del tutto (forse non è per caso che mi viene di parafrasare Gaber proprio con Leopardi…) siamo noi, noi più che mai oggi, il nostro mondo alla vigilia, temo, della sua definitiva catastrofe. Della sua nichilistica autorivelazione. Della sua Apocalissi.

Il rimanente testo della canzone è un sobrio commento, una coroncina di asteroidi condensati a margine del buco nero:

Non a caso la nostra coscienza
ci sembra inadeguata
quest’assalto di tecnologia
ci ha sconvolto la vita.

[…]

Com’è bello occuparsi dei dolori
di tanta, tanta gente
dal momento che in fondo
non ce ne frega niente.

[…]

Cerco
di afferrare un po’ il presente
ma se tolgo ciò che è falso
non resta più niente.

[]

il falso è un’illusione che ci piace
il falso è quello che credono tutti
è il racconto mascherato dei fatti
il falso è misterioso
e assai più oscuro
se è mescolato
insieme a un po’ di vero
il falso è un trucco
un trucco stupendo
per non farci capire
questo nostro mondo.

Scritto e cantato vent’anni fa (Io non mi sento italiano, 2003). Ma quell’epoca era già la nostra. E l’amarezza di queste profezie sta nel fatto che non cambiano né cambieranno mai la realtà. Cassandra è l’alter ego mitico di Gaber e di Leopardi. Sappiamo come è andata a finire. L’arte e le sue verità e le sue profezie non servono a nulla. Si guadagnano tutt’al più un’ammirazione postuma di pochi dopo aver scontato nella contemporaneità il disprezzo e la sordità di moltissimi. D’altra parte la cultura (quella vera) non si mangia. Aveva ragione un nostro politicante anni fa: è con gli affari che si mangia. È con il marketing e con la speculazione e con la manipolazione delle menti e con la corruzione delle coscienze che si domina il mondo.  Si divora. Si ingrassa. Ci si espande.

Fino ad accorgersi troppo tardi che non c’è più altro da divorare e nessun oltre in cui espandersi.

[PS: post scritto a fine aprile 23 e pubblicato solo oggi per intercorsi impedimenti]

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Sostiene Andrea Gavosto (ne La scuola bloccata, Bari, Laterza 2022), tra molto altro, quanto segue:

  • La valutazione della qualità degli insegnanti e il loro reclutamento vanno effettuati in relazione ai bisogni organizzativi e didattici delle scuole’ A me pare piuttosto che le scuole (ovvero la loro dirigenza), se avessero mano libera in questo senso, non assumerebbero gli insegnanti migliori ma quelli più adatti alla gestione dell’antiscuola, cioè di tutte le attività e le iniziative progettuali e promozionali, para- ed extra- che oggi ingombrano e paralizzano l’attività didattica ostacolandola e snaturandola sempre più… Mi pare insomma che Gavosto parta da principi astratti e ideologici (leggi: aziendalisti e neoliberisti) senza conoscere nulla del terreno concreto su cui vorrebbe applicarli.
  • ‘Nella formazione degli insegnanti lo studio della didattica disciplinare è molto importante, più importante di quello della disciplina stessa’. E dire che io, quando ero un giovane aspirante prof, ho dovuto sprecar tempo a sorbettarmi vari sproloquianti saggi e manuali di didattica dell’italiano e delle lingue classiche: il massimo che sono riuscito a ricavarne, purtroppo, è stata una terminologia altisonante (una sorta di didacticorum) da spalmare sopra metodi e contenuti che già conoscevo per conto mio… sono stato davvero un pessimo insegnante! Addirittura sacrilego, quando, pochi anni dopo, ho consegnato quei pretenziosi volumi che ingombravano la mia biblioteca alla raccolta differenziata! (annales didacticologorum, c… charta!)
  • ‘La carriera dei docenti – sostiene ancora G. – andrebbe incentivata con premialità crescenti in relazione all’assunzione di sempre maggiori incombenze organizzative e direttive’. E dire che i docenti più appassionati del loro mestiere detestano per lo più incarichi di questo genere!!! Gavosto evidentemente lo ignora.
  • ‘I genitori – sostiene sempre G.- sono una forza in grado di orientare al meglio la riforma della scuola’ Qui siamo al patetico e al ridicolo (ihihihih…ahahahah!). Gavosto ignora che alla maggioranza dei genitori (non a tutti) interessa molto più una scuola facile e divertente che una scuola impegnativa e di qualità! (Anzi no, non lo ignora affatto, ma finge di ignorarlo, visto quello che dice poi e che richiamerò nella voce successiva…, mah!).
  • Professa G. una fiducia estrema nelle prove standardizzate e nei monitoraggi esterni tipo Invalsi’, come se questi in Italia non risultassero di validità scientifica molto dubbia e non fossero in mano di inutili baracconi autoconservativi del sottobosco burocratico ministeriale – ma poi G. riconosce che oggettivamente, se anche le prove Invalsi fossero credibili e venissero rese pubbliche per orientare le scelte delle famiglie, molti genitori non iscriverebbero i figli alle scuole con punteggio più alto per paura che siano bocciati: e allora? Di che cosa andiam parlando??  [aggiunge poi G. che i curricola dei prof dovrebbero essere accessibili a tutti sul web, e su questo una tantum siamo finalmente in sintonia…]
  • Sostiene G. che ‘bisogna assegnare alle scuole il nuovo fine della più alta qualità degli apprendimenti’. Già, ma che cosa si intende concretamente con ciò? Parliamo della scuola dei soft skills o di una scuola nella quale di leggono ancora Dante e Leopardi? Qui casca l’asino. E come si fa ad accrescere questa qualità in una scuola ormai aggredita e sopraffatta dall’antiscuola??
  • Sostiene G. ‘l’esigenza ormai improcrastinabile di una scuola meno nazionale, ma di indirizzo europeo comune’. Bella idea in sé, ma da chiarire concretamente, perché detta così nasconde delle implicazioni ambigue. Non vorrei ritrovarmi in una scuola dove la lingua italiana sia marginalizzata a favore dell’inglese e con lei venga sportivamente liquidata anche la gran parte delle materie storico-umanistiche…

[PS: Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, propone nel suo libro analisi e riforme della scuola pubblica da una posizione legittima, certo, ma tutt’altro che neutra e disinteressata. Inoltre, per quanto cerchi di dare al suo saggio una immagine di scientificità fondata su decine e decine di studi sociologici, statistici e pedagogici sciorinati in nota, mostra – ahimè – ad ogni piè sospinto di ignorare del tutto la realtà effettuale e quotidiana della nostra istruzione. Ma anche di avere in mente, molto chiara e ideologicamente orientata, l’idea di scuola che vorrebbe realizzare. In questo senso il suo libro è l’esatto opposto delle testimonianze concrete, ormai discretamente numerose, che vari insegnanti (tra cui il sottoscritto) hanno pubblicato sul mondo della scuola. Ora io non nego che le testimonianze individuali possano cadere in un serio peccato di presunzione: cioè nella pretesa di interpretare la generalità di un fenomeno a partire da una esperienza particolare. Ma è vero altresì che l’esperienza sul campo non è sostituibile, in alcun modo, per la conoscenza esauriente di una realtà, da un approccio soltanto accademico e libresco, tantomeno da dati meramente statistici. L’ideale sarebbe che i due metodi si integrassero, come è vero che la diagnosi e la terapia più corrette possono essere formulate da un medico sulla base di esami oggettivi, certo, ma anche e soprattutto dell’osservazione clinica diretta e del costante ascolto del paziente. Leggendo questo libro, invece, ho provato una strana sensazione di freddezza: continuando la metafora medica, mi è parso di assistere, più che ad una valutazione clinica fatta sul corpo vivo della scuola, ad una sua distaccata diagnosi a distanza… Distaccata, ma non asettica – ripeto – e solo ingannevolmente obiettiva. Perché dietro quel linguaggio da notomista G. nasconde un modello e un progetto di scuola ben riconoscibile: la scuola del fare, la scuola delle competenze, la scuola dei risultati misurabili. La scuola azienda, per capirci. O, meglio, la scuola che sforna individui già formati alla mentalità aziendalistica lato sensu e ai suoi idoli: flessibilità, intraprendenza, economicità, spirito di innovazione e di impresa (gabellato per ‘spirito critico’) ecc. ecc. Tutto come da copione confindustriale. Spesso basta il titolo a farci intuire la tesi di un libro. Questa volta è sufficiente forse già il nome dell’autore.]

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È appena uscito nella rivista culturale online Limina un mio articolo leopardiano che prende tuttavia le mosse da un passo di Charlotte Brontë. I due autori, a breve distanza di tempo l’uno dall’altra, arrivano autonomamente alla medesima intuizione: la bellezza (intesa in senso prettamente materialistico/estetico) può salvare chi la possiede perché, per l’illusione che quel fascino esteriore corrisponda a grandi qualità interiori, essa ispira istintivamente in chi la osserva favore e benevolenza. Nonostante questo indubbio punto di tangenza tra i due autori, la riflessione di Leopardi sul tema appare, rispetto a quella della Brontë, più ampia e articolata, oltre che (per vari aspetti) di notevole attualità: http://www.liminarivista.it/comma-22/la-bellezza-che-si-salva-bronte-e-leopardi-tra-illusione-e-realta/

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Leggere per non dimenticare: presentazione del libro "Odiare l'odio" di  Walter Veltroni
Il neopuritanesimo non è la strada della sinistra | About…

Non leggo mai libri in classifica, meno che mai quelli scritti da nostri politici. E tuttavia il titolo di un recente libro di Walter Veltroni Odiare l’odio, mi sconcerta e mi fa riflettere. Sconcerta perché il gioco di parole contiene una contraddizione in termini: se si odia il sentimento stesso dell’odio, infatti, quel sentimento, paradossalmente (per quanto indirizzato all’odio stesso) si afferma (e si ammette) di provarlo comunque: si dichiara insomma di non esserne esenti. Questo è il punto critico imbarazzante. Inoltre se l’odio è, come sono convinto che sia, parte integrante della natura umana e non lo si può estirpare senza mutilarla, ne consegue che l’odio verso l’odio non può essere altro che una forma di avversione (distorta, e potenzialmente addirittura patologica) nei confronti della natura umana nella sua integrità. Chi odia l’odio odia la natura umana.

Parlo di mutilazione e mi viene non per caso in mente Il visconte dimezzato di Italo Calvino. In quell’ apologo bizzarro e paradossale (per l’appunto) l’interezza dell’essere umano, il suo impasto irriducibile di bene e di male, viene scissa da un colpo di cannone e le due metà continuano a vivere separate: ma non sono più veri uomini, bensì un mostro di malvagità (ferina e immotivata) il primo e una caricatura di bontà (stucchevole e controproducente) il secondo. Sono insomma una dimostrazione per assurdo della insensatezza di ogni facile dualismo etico e, soprattutto, del rischio che comporta ogni tentativo, anche nobile, di sradicare il male dall’uomo riducendolo alla sua sola componente ‘buona’.

In altre parole chi odia l’odio è uno che vorrebbe riplasmare l’uomo ex novo. Retropensiero allettante ma pericoloso. Affermazione utopica, ovvero ultraideologica e potenzialmente totalitaria (non sto parlando a questo punto del pensiero di Veltroni, ma sto semplicemente deducendo conseguenze logiche generali dall’assunto espresso nel titolo del suo libro). L’uomo nuovo emendato dall’odio era l’obiettivo rivoluzionario del cristianesimo delle origini e sappiamo che in duemila anni di storia umana questo nobile progetto di rinnovamento spirituale e antropologico (almeno qui sulla terra…) ha dato scarsissimi frutti e ha prodotto anzi, in certe epoche, crociate e tribunali dell’inquisizione, oltre che un mare di ipocrisia. L’uomo nuovo – la palingenesi della natura umana – è stato altresì l’obiettivo principe dei totalitarismi e dei terrorismi vari del novecento. Sappiamo com’è finita.

Anche perciò chi – coram populo – dichiara guerra all’odio ed esalta l’amore va sempre guardato con legittimo sospetto.

Chi dichiara guerra all’odio e assolutizza il suo contrario potrebbe perseguire il secondo fine del dominio delle coscienze, cioè il più diabolico dei poteri (non per caso il Grande Fratello orwelliano aveva istituito il Ministero dell’Amore)

Chi dichiara guerra all’odio, inoltre, è uno che non vede (o non vuole vedere) le ingiustizie, le storture e le colpe che dell’odio costituiscono le radici profonde: di quelle radici l’odio è soltanto la chioma visibile. Se la si taglia lasciando intatte le radici l’albero ricrescerà.

Sì perché l’odio – semplificando senza voler rubare il mestiere a psicoanalisti e filosofi morali – è figlio di due genitori: l’uno è il disagio psichico soggettivo della persona (la frustrazione, l’insoddisfazione di sé, il difetto di autostima ecc) che si proietta all’esterno, l’altra è la ingiustizia oggettiva (nelle sue varie forme di oppressione, di conflitto, di sopruso e di violenza) nei rapporti umani, sociali ed economici.

Chi vuole sopprimere l’odio rinuncia, per ottusità o tornaconto, a capire e a curare il primo (il disagio psichico) e a sanare la seconda (l’ingiustizia). Si limita a condannarne o (peggio ancora) a perseguitarne e reprimerne l’effetto. A combattere la febbre anziché curare la malattia.

L’odio dell’odio insomma può nascondere la malafede di un disegno di potere (quando quel potere teme l’odio come reazione legittima alla sua ingiustizia), oppure un buonismo miope ed ottuso che può degenerare in un neo-puritanesimo aggressivo (ed essere pericolosamente strumentalizzato in chiave politica). 

E qui vengo al punto che mi preme personalmente di più.

Le nuove crociate contro l’odio potrebbero prendere di mira la grande letteratura. Sta già accadendo (è già accaduto) da varie parti qualcosa, ahimè, di molto simile e di profondamente inquietante.

Si stanno già condannando all’indice giganti della letteratura mondiale solo perché contengono personaggi, pensieri o situazioni non conformi ai nuovi totem (e tabù) del politically correct come il femminismo o l’ambientalismo o l’antirazzismo o l’anticolonialismo. Valori o ideali morali e civili – questi ultimi – nobili ed indiscutibili in sé, beninteso, ma che niente hanno a che vedere con la qualità o con l’essenza di un’opera d’arte.

Se questa assurda campagna moralistica di discriminazione letteraria si allargasse all’odio ecco che dall’epurazione non si salverebbe, tra i classici della letteratura, quasi nessuno: né l’Iliade dove gli Achei odiano i Troiani, né l’Odissea dove Ulisse odia (e stermina) i Proci, né Tacito che odia gli stranieri, né Dante che odia certi papi, né Leopardi o Verga che odiano il progresso ecc. ecc. (ma l’elenco potrebbe essere infinito). L’Orestea di Eschilo o l’Amleto di Shakespeare verrebbero radiati da scuole, librerie e biblioteche.

Sì perché l’autentica letteratura è lo specchio fedele (non certo il giudice morale) della natura umana. Perciò non esiste grande letteratura senza odio (e senza amore, certo: ma perché è il suo pendant complementare e naturale, l’altra faccia dell’odio stesso).

Prepariamoci dunque al peggio perpetrato, in nome del “bene” e dell’”amore”, ai danni della grande letteratura. A nuovi roghi dei capolavori del genio umano sull’altare dell’idiozia benpensante.

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Presso la rivista online Letture.org è appena uscita una mia intervista intorno al mio volume miscellaneo di contributi di filologia e letteratura classica e leopardiana Noctes vigilare serenas, pubblicato alcuni anni fa presso l’editore Aracne:

L’intervista offre una riflessione sintetica, divulgativa e aggiornata su autori e tematiche affrontate nel libro. Vi si parla nella fattispecie di aspetti importanti della personalità e dell’opera di Esiodo, di Archiloco, di Tucidide, di Lucrezio e di Orazio, oltre che di Giacomo Leopardi. Credo perciò che possa risultare una lettura utile in sé (riguardando grandi scrittori del mondo antico e moderno) oltre che propedeutica, per chi volesse approfondire i singoli argomenti, alla conoscenza diretta del libro.

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È uscito di recente, a firma di John Foot, un articolo sulla rivista inglese London Review of Books (https://www.lrb.co.uk/the-paper/v43/n05/john-foot/on-the-barone) che prende di mira il baronato accademico italiano. Può darsi che questo articolo (ampiamente rimbalzato nei media di casa nostra) sia viziato dalla stereotipia fastidiosa che spesso accompagna i reportages giornalistici stranieri sulle realtà meno esaltanti di casa nostra. Può darsi anche che il barone e il baronato evocati da Foot siano un po’ demodées e rispecchino una fase del malcostume accademico non proprio aggiornata. Fatto sta che a questi difetti veri o presunti dell’articolo si sono subito attaccati tre cattedratici di casa nostra per controbattere (ovviamente ‘amareggiati e indignati’ contro il presunto qualunquismo di Foot e della stampa italiana) che la nostra università, negli ultimi anni, sarebbe cambiata parecchio (?) e in meglio (!), adeguandosi a standard di valutazione e a sistemi di reclutamento più oggettivi e trasparenti e migliorando la qualità e la quantità della ricerca. Ora, ammesso che alcune obiezioni di Favole, Ramella e Sciarrone (i tre coautori dell’articolo di replica a Foot apparso sulla rivista Il Mulino: https://www.rivistailmulino.it/a/in-difesa-dell-universit-italiana) siano fondate, esse ahimè guardano al dito molto più che alla luna. Gli ammodernamenti e gli adattamenti necessari del mondo accademico italiano non hanno infatti intaccato la struttura chiusa, feudale, sostanzialmente fuori e al di sopra della legge con cui la nostra università continua ad autogovernarsi. Non so se esistano ancora i grandi baroni del passato, quelli che con il loro solo potere individuale determinavano la vita di un istituto o di una facoltà. Ma di sicuro il sistema baronale, con tutti gli aggiornamenti inevitabili del caso, non è stato minimamente ancora scalfito. La parola chiave nella fattispecie è, appunto, sistema.

E l’esperienza che ho avuto, diretta e indiretta, dell’università italiana (nel mio caso delle sue facoltà umanistiche) mi ha confermato sempre e immancabilmente che l’ostacolo a un suo profondo risanamento, al superamento di nepotismi, clientelismi, localismi, cordate ecc., non è costituito da singoli individui o da isolate mele marce, ma dal sistema. Il male dell’università è, per dirla con una geniale espressione leopardiana, un male nell’ordine. Vale a dire che tutto il sistema universitario è guasto, infetto, malavitoso. Volente o nolente, chiunque lavori stabilmente all’università, dal cattedratico più influente fino all’ultimo ricercatore, partecipa colpevolmente – seppure in misura diversa – di quell’ordine.  Da giovane ho provato, più per sfida che per convinzione, vari concorsi universitari a vari livelli e presso varie università del centro e del nord Italia. La percezione è stata sempre ed ovunque la stessa: non solo i vincitori erano già stabiliti in partenza dai docenti del posto e le commissioni erano tutte totalmente conniventi con la farsa cui si prestavano, ma poco ci mancava che i miei esaminatori non giocassero spudoratamente a carte scoperte nei miei confronti. Uno in effetti, una volta (un pezzo tuttora grosso e noto dell’antichistica nostrana), ebbe la faccia di dirmi papale a quattr’occhi che ero stato proprio un fesso a provarci sapendo come funzionava – dappertutto – la cosa. Del resto in questo blog la rubrica contra academicos conferma ad abundantiam, con dovizia di storie e di esperienze inequivocabili, quanto questo meccanismo di cooptazione ad excludendum sia oleato, infallibile, impermeabile, implacabile. Da meno giovane, cioè in anni recentissimi, ho avuto testimonianze di vari miei brillanti colleghi di liceo o ex alunni che hanno immancabilmente sperimentato (vivendo umilianti disavventure analoghe alla mia) quanto purtroppo – almeno nei dipartimenti umanistici – la realtà universitaria italiana sia rimasta nella sostanza immutabile. Insomma: affermare come fanno quei tre che le cose sono molto cambiate e che la baronia nella nostra accademia sopravvive solo come un fenomeno marginale o addirittura residuale, mi sembra davvero azzardato e fuorviante. Ma anche offensivo. Offensivo appunto verso tutti quei giovani di talento (ma senza appoggio baronale) che sistematicamente o scappano tuttora all’estero (se hanno studiato fisica o scienze) o debbono ripiegare sull’insegnamento medio (se hanno studiato lettere o filosofia). Offensivo pure verso quei meno giovani che hanno fatto carriera all’estero e non riescono in nessun modo, e a tutt’oggi, a rientrare (anche quando sono diventate autorità a livello internazionale) solo perché si sono messi fuori dal nostro sistema.

Per altro l’articolo di Foot inizia con il famigerato episodio dell’esame truccato di abilitazione linguistica di un noto calciatore, che non è certo notizia di trent’anni fa, ma dell’estate scorsa. E che, lungi dall’essere un aneddoto poco edificante, rispecchia (meglio: scoperchia) l’attitudine inveterata alla corruzione e al traffico illecito che è da sempre nel DNA del nostro ambiente accademico: quella che nessuna legge ha saputo (o voluto?) contrastare. Sia ben chiaro una volta per tutte: trattasi dei cromosomi del nostro ordine accademico. Non di singole persone che sbagliano. E se un male è nell’ordine, il rimedio passa solo attraverso il suo scardinamento. Il suo scompaginamento. La sua completa rifondazione ab imis. Chi tra i politici (che sono spessissimo universitari) avrà mai la forza di mettere mano a questa rivoluzione?

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Immagini Stock - Una Cerbiatta Whitetailed Si Trova Nella Foresta. Si Può  Vedere Il Suo Cerbiatto Dietro Di Lei. Image 65042477.
Orazio, Odi I.9 – LatinaHumanitas

[Orazio, Odi, I 21]

Cerbiatta che sei, Cloe che mi sfuggi,

cerbiatta che per una impervia altura

cerca la madre che trema per lei

e senza causa a ogni fiato di vento

a ogni stormire di fronda si spaura.

Sia quando entrante primavera

le accende intorno brividi di foglie

sia quando verdi ramarri tra cespugli

di rovi frusciano guizzando, tutta

– dentro e fuori – un tremito la afferra.

Dài, che non ti voglio mica sbranare

io, tigre feroce o leone di Getulia:

e allora smettila tu di star dietro

alle sottane di tua madre, frutto

maturo ormai per le braccia di un uomo!

Il fascino della femminilità adolescente nello sguardo di un maturo e raffinato viveur. Una giovanissima etèra, ritrosa e timida come una cerbiatta, sfugge alle attenzioni del poeta. Orazio riprende un paragone topico della lirica greca sviluppando con finezza di tratto naturalistico (e notevole autonomia poetica) la psicologia della giovane cerbiatta spaventata. Salvo poi tornare con ironia maliziosa e bonaria al termine reale del paragone. Ho differenziato un po’, traducendo, i registri dei due estremi della similitudine. All’immagine della cerbiatta tremante e spaurita ho riservato, con aderenza all’originale, un certo grado di ricercatezza espressiva (con tracce leopardiane evidenti, quasi centonarie, anche se inizialmente – devo dire – inconsapevoli: vento… stormire di fronda… spaura ), ma poi nel finale, quando si riparla direttamente della (e alla) ragazza, mi sono preso la libertà di un tono moderatamente più colloquiale.

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[…] L’edizione delle mie Opere è sospesa, e più probabilmente abolita, dal secondo volume in qua, il quale ancora non si è potuto vendere a Napoli pubblicamente, non avendo ottenuto il pubblicetur. La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui ed in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto. […] 

[G. Leopardi, Epistolario, Lettera a L. De Sinner, 22 Dicembre 1836]

Questo giudizio inequivocabile di Leopardi sul potere terreno delle gerarchie ecclesiastiche di ogni religione appare tanto più considerevole quanto più esso dilata ben oltre la contingenza, fino alla generalità dei casi e all’infinità dello spazio e del tempo, oltre il trasmutare delle forme storiche, la portata di quello stesso potere. Ciononostante circola negli ambienti cattolici nostrani, da diversi decenni, una pubblicistica che dipinge Leopardi come uno dei loro. Cioè come un fervido credente, ancorché inconsapevole o irrealizzato. Religiosi più e meno noti di casa nostra sono così convinti di averlo honoris causa tra le loro file da dichiarare addirittura nei suoi confronti un amore sviscerato. Eppure le parole citate sopra, che Leopardi scrisse al De Sinner pochi mesi prima di morire, dimostrano che egli non ha (non avrebbe) mai gradito né ricambiato questo amoroso trasporto.

Questa diffusa e disinvolta appropriazione del recanatese non mi pare altro che un modo più aggiornato e sofisticato di esercitare ancora quell’enorme potere: non riuscendo più a censurare la sua opera, come facevano allora, e non avendo convenienza a combatterla, vista la popolarità postuma di Leopardi, i preti di oggi pensano bene di spacciarlo trionfalmente per un cripto-cristiano. E così facendo confermano e inverano – mi sembra -, a quasi due secoli di distanza, quella sua desolante profezia. Desolazione intellettuale, adesso come allora: ma adesso decisamente più disonesta di allora, direi.

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Risultati immagini per a silvia leopardi

Poesia sta nel come qualcosa viene detto. Filosofia invece nel che cosa. Il come della poesia non può tuttavia fare a meno del che cosa della filosofia lato sensu intesa. Ma questo che cosa, senza il come, non può sublimarsi nella poesia, rimane gravemente ancorato al terreno solido e grezzo dei concetti. Il che cosa, insomma è necessario (ancora!) a mio avviso per fare poesia, ma non sufficiente. Nella poesia di Leopardi, così come di altri grandi poeti, «come» e «che cosa» sono un sinolo quasi sempre inscindibile. Il pensiero diventa quasi sempre poetante. Sottolineo quasi. E quando lo diventa perde completamente il suo peso. Vola sulle ali della parola poetica. Diventa percettibile prima ancora di essere comprensibile. Silvia rimembri ancora / il tempo di tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi ecc.: le prime strofe di A Silvia comprendono in sé e trasmettono alla nostra percezione, sensoriale ed intima, tutto quello che poi Leopardi cerca sempre più di razionalizzare e concettualizzare nelle strofe finali, specie nell’ultima.  Rimango dell’opinione, nella fattispecie forse attardata su posizioni crociane o giù di lì, che Leopardi avrebbe potuto risparmiars(c)i la strofe conclusiva che rompe quasi quel miracoloso equilibrio tra poesia e pensiero che all’inizio risolve musicalmente i concetti in immagini per poi gradatamente, ma misuratamente, alternarli. In questo senso l’ultima strofe porta sì a compimento, sul piano retorico e compositivo, questo processo di progressiva espansione della componente riflessiva e raziocinante, ma è poeticamente scadente e soprattutto, mi pare, inutile. Suona quasi come un auto-commento, una coda esplicativa, una postilla tautologica in versi. Tutto era già stato detto e compreso, perché tutto era stato reso sensibile – prima – attraverso la poesia.

 

 

 

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