«È anche cosa osservabile che dei maestri i quali non siano assolutamente insigni in una facoltà, spesso sono adattati a insegnarla, e riescono a darla bene ad intendere, purché [1376] abbiano le altre qualità necessarie o proprie del bene insegnare, e indipendenti dalla cognizione della materia. Ma quegli uomini che si distinguono in questa cognizione, di rado assai troverannosi adattati a insegnarla, e gli scolari partiranno dalla scuola dell’uomo il più dotto, senz’aver nulla partecipato alla sua dottrina: eccetto il caso (raro) ch’egli abbia quella forza d’immaginazione, e quel giudizio che lo fa astrarre interamente dal suo proprio stato, per mettersi ne’ piedi de’ suoi discepoli, il che si chiama comunicativa. Ed è generalmente riconosciuto che la principal dote di un buon maestro e la più utile, non è l’eccellenza in quella tal dottrina, ma l’eccellenza nel saperla comunicare. […] E l’immaginazione necessaria alla comunicativa è sempre propria dei geni, anche filosofici, anche metafisici, anche matematici. V. altro mio pensiero sulla comunicativa degli scrittori, bisognosi di tenere a questo fine, alquanto di spirito poetico.» (G. Leopardi, Zibaldone 23 Luglio 1821)
Sono abbastanza d’accordo qui col mio Leopardi, geniale anche in questo caso – lui del tutto autodidatta e del tutto imperito di insegnamento, oltre che ignaro di ‘psicopedagogia’ – nel centrare il cuore del problema: per insegnare bene (comunicare efficacemente) ci vuole molta immaginazione, cioè empatia, capacità di sdoppiarsi, di calarsi nella persona del discente; direi a mio modo – se interpreto bene – la capacità e la pazienza di chiarire prima e semplificare poi a se stessi ciò che si vuole trasmettere, prevedendone (pre-valutandone) così l’impatto sia intellettuale che emotivo sulla personalità degli allievi. Questo è quello che chiameremmo noi oggi anche – e più banalmente – prepararsi bene la lezione. Chi non sa e non vuole affrontare questo lavoro preparatorio difficilmente potrà, per quanto colto e intelligente, essere un bravo insegnante.
Sono abbastanza d’accordo con Leopardi, ripeto, ma con un importante distinguo. La conoscenza profonda ed ampia della disciplina non è ininfluente – come sembrerebbe intendere L. – sull’efficacia didattica mediata da questa immaginazione. Tutt’altro. Perché più si conosce a fondo ed in ampiezza ciò che si insegna più si potenzia e si affina (se già esiste) quella nostra (di noi insegnanti) facoltà immaginativa. Perché avere molte ed articolate conoscenze ci permette più soluzioni, alternative e strategie didattiche (una maggiore fantasia ideativa e operativa, appunto), e soprattutto lascia margini molto minori all’errore, all’azzardo, al pressapochismo, al dilettantismo. Un conto è muoversi in mare con una zattera improvvisata di quattro metri quadri, un altro conto è navigare su di una grossa barca ben attrezzata… Voglio dire: essere ferratissimi in una materia può certamente non bastare ad insegnarla bene, se non si possiede la immaginazione di cui parla L. Ma a una conoscenza scarsa e vaga della disciplina nessuna genialità immaginativa e comunicativa riuscirà mai a sopperire del tutto.
Provate con tutto il solo vostro talento naturale da chef a cucinare ottimi piatti senza disporre di ingredienti e mezzi e conoscenze sufficienti e adatti allo scopo…
[Beninteso: L. ha ragione nel dire che l’immaginazione, che lui paragona allo spirito poetico negli scrittori, è più importante, e non solo nell’insegnamento, della dottrina. Ma esagera forse nel negare la rilevanza di quest’ultima: a questo proposito, per altro, è la parabola stessa della sua formazione intellettuale e letteraria a smentirlo o almeno a correggerlo, se è vero che la sua poesia maggiore si è prodotta soprattutto distillando nel tempo – alla luce del genio e della immaginazione, appunto – l’enorme e impoetica mole della sua erudizione giovanile e del suo studio onnivoro, matto e disperatissimo. Mi premeva commentare e discutere questo interessante pensiero leopardiano anche in relazione al diffuso disprezzo che il mainstream del pedagogismo nostrano ostenta per le conoscenze e i contenuti dell’insegnamento a esclusivo favore delle cosiddette, famigerate competenze. E mi premeva anche per prevenire una qualche ulteriore, astuta e strumentale appropriazione indebita di Leopardi (se essa non è già avvenuta) da parte – stavolta – degli attuali, fanatici crociati dei soft skills…]
‘COME’ E ‘CHE COSA’
Posted in de aesthetica, letteratura, tagged A Silvia, autocommento, che cosa, Come, concetti, filosofia, immagini, Leopardi, posia, postilla on 4 novembre 2019| Leave a Comment »
Poesia sta nel come qualcosa viene detto. Filosofia invece nel che cosa. Il come della poesia non può tuttavia fare a meno del che cosa della filosofia lato sensu intesa. Ma questo che cosa, senza il come, non può sublimarsi nella poesia, rimane gravemente ancorato al terreno solido e grezzo dei concetti. Il che cosa, insomma è necessario (ancora!) a mio avviso per fare poesia, ma non sufficiente. Nella poesia di Leopardi, così come di altri grandi poeti, «come» e «che cosa» sono un sinolo quasi sempre inscindibile. Il pensiero diventa quasi sempre poetante. Sottolineo quasi. E quando lo diventa perde completamente il suo peso. Vola sulle ali della parola poetica. Diventa percettibile prima ancora di essere comprensibile. Silvia rimembri ancora / il tempo di tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi ecc.: le prime strofe di A Silvia comprendono in sé e trasmettono alla nostra percezione, sensoriale ed intima, tutto quello che poi Leopardi cerca sempre più di razionalizzare e concettualizzare nelle strofe finali, specie nell’ultima. Rimango dell’opinione, nella fattispecie forse attardata su posizioni crociane o giù di lì, che Leopardi avrebbe potuto risparmiars(c)i la strofe conclusiva che rompe quasi quel miracoloso equilibrio tra poesia e pensiero che all’inizio risolve musicalmente i concetti in immagini per poi gradatamente, ma misuratamente, alternarli. In questo senso l’ultima strofe porta sì a compimento, sul piano retorico e compositivo, questo processo di progressiva espansione della componente riflessiva e raziocinante, ma è poeticamente scadente e soprattutto, mi pare, inutile. Suona quasi come un auto-commento, una coda esplicativa, una postilla tautologica in versi. Tutto era già stato detto e compreso, perché tutto era stato reso sensibile – prima – attraverso la poesia.
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