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Frasi sulla Politica (con immagini): le 45 più belle in inglese e italiano
Questa foto di una piazza sporca non c'entra con la manifestazione delle  “sardine” a Roma | Pagella Politica

Destra estrema: perversione della natura. Sinistra estrema: perversione della cultura.

Scienza: lume fioco e tremolante in un androne buio, debole faro appena visibile nella tempesta. Nient’altro può illuminarci il cammino o guidarci nella navigazione.

Tanta è la forza illusionistica della società del benessere e del consumo da indurre forse taluni a credere che i soldi li produca il bancomat e la verdura il supermercato.

Cattiveria è nativa e spontanea, infantile, fine a se stessa e perciò ingenua. Malignità invece è acquisita, adulta, indirizzata a un fine e dissimulata dalla ragione, perciò intelligente, o quanto meno astuta.

Non perdere il tuo tempo ad ascoltare persone che puntualmente dicono quello che ti aspettavi che puntualmente dicessero.

Peggio della retorica dei preti solo quella dei radical chic. Peggio della retorica dei radical chic solo la beceraggine di quelli che, per ordini di scuderia o per partito preso, li sbeffeggiano.

Diceva di avere il sonno così leggero che, dormendo, furtivamente si ascoltava russare.

I media di oggi (salvo rare eccezioni) si adoperano soprattutto a spalmare un velo di melassa sopra le vergogna denudate del mondo.

Politica sporca, si dice dalle mie parti. Sporca in tutti i sensi: perché è lurida in sé, ma anche perché sporca ogni cosa che tocca.

Condizione per il trionfo del vittimismo altrui è la nostra disponibilità a lasciarcene ricattare.

Quando i politici nostrani si dicono preoccupati per i giovani si stanno soltanto preparando a mazziare gli anziani.

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Costruire il futuro 2017/2018 | Cos'è la Scienza? Come progredisce? |  19.12.2017 | Fondazione per la Scuola

Scrivevo in un post di alcuni anni fa che negli ultimi decenni il senso della parola libertà è profondamente cambiato in peggio. Si è snaturato. Nel novecento infatti, dopo le esperienze tragiche dei totalitarismi, nel linguaggio politico e sociale libertà significava soprattutto la condizione di chi non è schiavo né assoggettato a qualsiasi dominio prevaricatore o dispotico. Già nell’Italia degli ultimi venticinque anni, tuttavia, lo stesso termine ha cominciato a campeggiare sui vessilli e nella propaganda di vari partiti politici nel più ambiguo significato di licenza, arbitrio, diritto di fare ciò che si vuole a dispetto del bene collettivo e del rispetto della legalità. Ora la pandemia ha fatto il resto. Come succede spesso nelle situazioni di grave emergenza, il covid ha portato inequivocabilmente in superficie (nei media e nelle piazze) il fondo semantico nuovo ed impuro che si nascondeva sotto la vecchia e nobile etichetta verbale.

Non è difficile capire, per altro, che cosa abbia provocato la mutazione semantica del termine. La nuova libertà è figlia della società dei consumi e dell’individualismo edonistico sfrenato generato prima dal boom economico degli anni sessanta e nutrito poi dal liberismo ideologico trionfante degli anni ottanta e novanta: quello – per capirci – che ha trascinato il pianeta verso tutte le catastrofi (economica, ecologica, sanitaria) che incombono oggi sul nostro immediato futuro.

Colpisce tuttavia (ma non stupisce) che i crociati di questa nuova libertà rappresentino ancora, sopra i loro scudi e sui loro stendardi, il nuovo idolo secondo la vecchia e più rispettabile immagine originaria. Dichiarano infatti per lo più che la libertà che idolatrano è un valore prezioso minacciato da un qualche oscuro disegno totalitario: una sorta di complotto (?!) politico-plutocratico insomma che, con la scusa di difendere la gente dal virus, vorrebbe imporre a tutti il guinzaglio di regole e di divieti liberticidi.

Ora è chiaro come il sole che questa difesa a spada tratta della libertà (intesa come licenza di continuare a vivere beatamente spaparazzati dentro l’occhio del ciclone di una tragedia immane) riposa sopra una gigantesca rimozione dei limiti insuperabili della condizione umana. Limiti che la corruzione edonistico-consumistica degli ultimi decenni hanno reso ormai impercettibili e perciò inaccettabili alla coscienza di molti individui.

È chiaro altresì come questi strenui fautori della libertà/licenza abbiano razionalizzato, rimuovendola e nobilitandola in ideologia antiscientifica inscalfibile, la propria difficoltà psicologica di accettare il principio di realtà e di affrontare e di elaborare da persone adulte la paura della privazione, della sofferenza e della morte.

È chiaro anche e più che comprensibile che a questi oltranzisti del principio del piacere guardino con interesse e simpatia, oltre che le solite forze politiche di cui sopra, anche numerose categorie sociali concretamente e talora duramente danneggiate dal virus sul piano economico

Non riesco invece, proprio per nulla, a comprendere come tra i simpatizzanti o addirittura tra i fiancheggiatori di questi irriducibili possano esserci insegnanti e dirigenti della scuola pubblica. Perché pare proprio, ahinoi, che ce ne sia qualcuno in giro. Pochissimi, per fortuna – almeno a quanto mi risulta. Ma pur sempre troppi, a mio avviso. Un insegnante e, ancora peggio (vista la sua posizione dirigenziale), un preside non possono infatti in nome di questa strana e malintesa libertà negare l’autorevolezza e il primato della scienza. Parlo della Scienza autentica (perciò ufficiale), quella galileiana, per intenderci a scanso di equivoci. Non possono negarli, perché chi insegna e chi dirige la scuola ha tra i suoi compiti deontologici primari quello di preparare i giovani a diventare uomini e cittadini adulti. Di emanciparli cioè in maniera critica da quella condizione di sudditanza agli istinti, al pressapochismo culturale, alla seduzione delle mode, della pubblicità e delle ideologie che la società attuale, attraverso mille canali, esercita su di loro. Chi insegna e chi dirige la scuola di questi tempi ha insomma il compito ingrato di immunizzare i giovani dai molti rischi della massificazione. E io non vedo (pur essendo un letterato) come oggi la scuola possa riuscire in questo compito senza affidarsi principalmente alla scienza e al suo  metodo.

La scienza galileiana svolge il ruolo principale in questa educazione, proprio perché insegna a distinguere la sfera dell’opinabile da quella dello scibile: quella sfera nella quale qualcosa si può affermare solo sulla base di una esperienza riproducibile e di una rigorosa dimostrazione. Un qualcosa cioè che non può essere confutato da nessuna idea opinabile ma soltanto da un’altra esperienza e dimostrazione contraria altrettanto riproducibile e rigorosa. Un metodo che vale per le varie scienze matematiche e naturali, ma che dovrebbe, per quanto possibile, essere applicato anche nelle varie discipline umanistiche, se non si vuole insegnarle in maniera dilettantesca.

Perché questo è il guaio della nostra epoca: il primato schiacciante, multiforme e pervasivo del marketing ha prodotto il trionfo totale di una nuova sofistica: il dominio cioè della persuasione, della chiacchiera e del vacuo debate a scapito della vera conoscenza.

Ma già gli antichi sapevano che tra opinione e verità scientifica c’è un abisso.

Dovrebbero saperlo ed accettarlo anche tutti quanti gli insegnanti e i dirigenti della nostra scuola pubblica se vogliono continuare a esercitare legittimamente il proprio mestiere.

[ NB: Qualche doverosa puntualizzazione aggiuntiva:

1) è chiaro che bisogna distinguere tra conoscenze scientifiche e le conseguenti applicazioni operative adottate da governi e amministrazioni varie: queste ultime sono ovviamente discutibili da molti punti di vista, soggette perciò al libero dibattito politico.

2) Se la scienza in sé è neutra e non opinabile non si può dire sempre la stessa cosa degli scienziati, purtroppo. Ma per distinguere gli scienziati affidabili da quelli disonesti non serve essere a propria volta scienziati, bensì essere solidamente formati – dalla scuola in primis – a una mentalità (cioè a un modo di ragionare e di valutare) altrettanto scientifica.

3) La scienza può diventare strumento di poteri dispotici solo quando le sue conoscenze restano nelle mani di pochi potenti che possono sfruttarle a loro elitario ed esclusivo vantaggio: quanto più numerosi sono i cittadini che acquisiscono una robusta formazione scientifica, tanto più facilmente le conoscenze della scienza possono ricadere positivamente, ispirando le scelte pubbliche, sulla collettività. Ma una robusta, seria e diffusa formazione scientifica può solo essere fornita dalla scuola, non certo da internet né dai media. ]

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L'Orologio dell'Apocalisse fermo nel 2019, ma l'umanità è ancora qui -  Positanonews

L’economia attuale muove dal desiderio più che dal bisogno. O forse dal desiderio trasformato ad arte in bisogno. Insomma: dal principio del piacere. Compito della scienza è richiamare, nel modo più rigoroso e consapevole, al principio di realtà. Compito della scienza, perché la politica a questo compito ha ormai completamente abdicato. Tristo e sgradevole compito, ma necessario per un progresso e un benessere adulti e sopportabili. La sfida oggi è questa, più che mai. Oggi, che gli uomini sono mentalmente sempre più succubi del desiderio infantile gonfiato e titillato a (illimitata) dismisura dalle irriducibili illusioni dello sviluppo, mentre la realtà del mondo in cui vivono si avvia a diventare una sua arcigna, sempre più spietata, fustigatrice. Noi tutti si vive in una grottesca sfasatura. In una drammatica convergenza di processi opposti. Arriverà, temo, il punto di deflagrazione. Il corto circuito che innesca l’ecpyrosis universale. Forse ci siamo già arrivati, ma non riusciamo ancora a realizzarlo. La scienza deve avere il coraggio di svegliarci dal sortilegio prima che la scintilla fatale scocchi. Di richiamarci, come l’antico oracolo di Delfi, al senso smarrito del limite. Prima che quel limite ci si pari davanti come una muraglia invalicabile.  La scienza, proprio lei, con tutta la sua piccolezza e la sua urtante e grigia e fredda imperfezione. La scienza, con il suo compunto linguaggio da confraternita dei flagellanti. Cos’altro? Tutto il resto (quel che sopravviverà) verrà poi per un di più, se mai riusciremo – per mezzo suo – a salvarci.

Avremmo dovuto capirlo prima. Eppure già il vecchio Epicuro l’aveva capito: il principio del piacere (alias il desiderio) è il nostro dio e la nostra nemesi. Lo si può assecondare (e goderne) impunemente (cioè legittimamente) soltanto imparando a rinunciare. Semplice a dirsi. Ma complicatissimo a farsi, oggi più che mai, quando non bastano più gli anticorpi della saggezza individuale per difendersi dentro un sistema economico totale. Una locomotiva che, per perpetuare la sua corsa, deve tenere il motore del desiderio perennemente accesso, a pieni giri.

La scienza è neutrale, gli scienziati un po’ meno. Perché sono anch’essi fatti come noi di desiderio. Sono uomini. E gli uomini preferiscono, per istinto, la tenebra del desiderio al lumicino della scienza.

Attorno al rigagnolo vivo, ma esile e sussurrante della scienza gracidano i rospi della politica, squittiscono i ratti dell’informazione. Attingono a quell’acqua per farne, mescolandola alla loro liscivia spumeggiante, bolle di sapone. Bolle enormi, luminescenti, che deflagrano immantinente, aria nell’aria.

Solo l’arte e la poesia ci possono consolare delle verità della scienza. Solo la scienza ci può salvare dalle fate morgane del desiderio, e dagli incantatori che le eccitano dalle sabbie del deserto. Solo l’arte e la poesia possono fare di quelle fate morgane la materia di rivelazioni ingrate e, insieme, gratificanti ed utili. E perciò magicamente esorcizzarle. Smascherarle e riconoscerle rappresentandole. Trasformare le Erinni cieche del desiderio in docili, ragionevoli Eumenidi. E così agevolare il compito della scienza.

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Risultati immagini per galilei  Risultati immagini per atomi e nucleo

Non sono solo la letteratura o l’arte ad offrire una visione straniante (perciò nuova, acuta, profonda, etimologicamente intelligente) delle cose. Anche la scienza lo può. Quella che in particolare si occupa dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo. L’astrofisica come la fisica atomistica. Leggo nell’articolo L’ordine del caos di Guido Tonelli (ne La lettura del Corriere del 21.10.18): 

«Se si osserva da molto vicino la più lucida e levigata delle superfici, ci si imbatte subito nella danza caotica dei componenti elementari della materia che fluttuano, oscillano, interagiscono e cambiano natura a un ritmo frenetico. Quark e gluoni che compongono protoni e neutroni cambiano stato continuamente, incessantemente, interagendo fra loro e con miriadi di particelle virtuali che li circondano. La materia sul piano microscopico segue implacabilmente le leggi della meccanica quantistica, dominate dal caso e dal principio di indeterminazione. Nulla sta fermo, tutto ribolle in una fantasmagoria cangiante di stati e possibilità. Ma quando il meccanismo coinvolge grandi numeri, quando le strutture diventano macroscopiche, i meccanismi che ne regolano la dinamica acquistano, quasi magicamente, caratteristiche di regolarità, persistenza, ordine ed equilibrio 

Caos e ordine sono la stessa cosa: la loro antitesi è solo un effetto dello sguardo, vicino o lontano. Lo sguardo lontano dell’esperienza comune, quello acuminato della mente scientifica. A questo doppio punto di osservazione risultano opposte facce della stessa identica realtà.

Si legga adesso Lucrezio, De rerum natura II [passim, nella trad. di Giancotti], prima a proposito del moto impercettibile ma incessante degli atomi sotto la superficie delle cose:

 

Poiché questo è certo, certamente nessuna requie è data

ai corpi primi attraverso il vuoto profondo,

ma piuttosto, travagliati da un movimento continuo e vario,

parte, dopo essersi scontrati, rimbalzano per lunghi intervalli,

parte anche per brevi tratti son travagliati dal colpo.

[…]

Di questo fatto, come lo descrivo, un simulacro e un’immagine

innanzi ai nostri occhi sempre si aggira e incalza.

Osserva infatti, ogni volta che raggi penetrati

infondono la luce del sole nell’ombra delle case:

molti minuti corpi in molti modi, attraverso il vuoto

vedrai mescolarsi nella luce stessa dei raggi,

e come in eterna contesa attaccar battaglie e zuffe,

a torme contendendo, e non far sosta,

da aggregazioni e disgregazioni frequenti travagliati;

sì che da ciò puoi figurarti quale sia l’eterno agitarsi

dei primi principi delle cose nel vuoto immenso;

almeno per quanto una piccola cosa può dare un modello

di cose grandi e vestigi di loro conoscenza.

E per questa ragione più conviene che tu ponga mente

a questi corpi che vediamo agitarsi nei raggi del sole:

perché tali agitazioni rivelano che ci sono movimenti

di materia anche al di sotto, segreti ed invisibili.

Molte particelle infatti ivi vedrai stimolate da urti ciechi

cambiar cammino e indietro respinte ritornare,

or qui or lì, da ogni punto verso qualunque parte.

Certo questo errante movimento ha per tutti origine dagli atomi.

Primi infatti si muovono da sé i primi principi delle cose;

quindi quei corpi che constano d’una piccola aggregazione

e son quasi prossimi alle forze dei primi principi,

spinti dai ciechi colpi di quelli, si mettono in movimento,

ed essi stessi a loro volta stimolano i corpi un poco più grandi.

Così dai primi principi ascende il movimento e a poco a poco

emerge ai nostri sensi, sì che si muovono anche quelle cose

che possiamo discernere alla luce del sole.

(II 95ss. )

 

Poi proprio a proposito del duplice aspetto di una stessa realtà in rapporto alla distanza dello sguardo:

 

Di questo non c’è, a tale proposito, da stupire: che, mentre

tutti i primi principi delle cose sono in movimento,

la loro somma tuttavia sembra starsene in somma quiete,

salvoché qualcosa si muova col proprio corpo.

Infatti la natura dei corpi primi sta tutta molto lontano

dai nostri sensi, al di sotto della loro portata: perciò poiché essi

non si posson discernere, anche i loro movimenti devon sottrarci;

tanto più che le cose che possiamo discernere, tuttavia spesso,

separate da noi per distanza di luoghi, celano i loro movimenti.

E certo spesso su un colle, brucando i pascoli in rigoglio,

lente si muovono le lanute pecore, ognuna dove la chiama

l’invito delle erbe ingemmate di fresca rugiada,

e sazi gli agnelli giocano e gaiamente cozzano;

ma tutto ciò a noi di lontano appare confuso

e come un biancore poggiato sul verde colle.

Inoltre, quando possenti legioni in corsa riempiono

le distese dei campi suscitando simulacri di guerra,

quando un fulgore s’innalza al cielo, e tutta, dintorno,

risplende di bronzo la terra, e di sotto solleva col calpestìo

un rimbombo la forza degli uomini, e i monti percossi

dal clamore rimandano le voci agli astri del cielo,

e dintorno volteggiano i cavalieri e d’improvviso attraversano

il centro dei campi scotendoli con impeto poderoso –

pure c’è un luogo sugli alti monti di dove sembrano

star fermi e sui campi star poggiati come un fulgore.

(II 308ss.)

Colpisce intanto, al di là della modernità (risaputa, ma sempre stupefacente) del poema lucreziano, l’analogia di argomenti, di considerazioni e di immagini che accomuna due testi così lontani nel tempo. E poi lo spontaneo (forse non cercato, ma oggettivo) color poeticus lucreziano delle parole di Tonelli (evidenziate nel testo citato) a fronte della scientifica esattezza (avvalorata da paragoni e da esempi esperienziali) così delle immersioni poetiche di Lucrezio nella realtà impercettibile degli atomi come del suo innalzarsi alla vertigine di visioni cosmiche. I due linguaggi comunque convergono. Sbalordisce questa convergenza, soprattutto se (come credo) non è influenzata da una intenzionale emulazione diretta, da parte di Tonelli, del De rerum natura. Vorrebbe dire che intorno all’infinitesimo e all’infinito della materia il linguaggio della scienza e quello della poesia si toccano naturalmente. Che non si può fare scienza dell’infinitamente piccolo/grande senza fare poesia e viceversa. Si tratta nella fattispecie di un paradosso necessario, che smentisce clamorosamente l’antitesi fasulla tra le due culture e spiega come mai (Galileo ce lo insegna) scienziati che si mettano a divulgare la scienza assurgano spesso, più di tanti letterati, ad una autentica, talora notevole, qualità di scrittura.

 

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