Non sono solo la letteratura o l’arte ad offrire una visione straniante (perciò nuova, acuta, profonda, etimologicamente intelligente) delle cose. Anche la scienza lo può. Quella che in particolare si occupa dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo. L’astrofisica come la fisica atomistica. Leggo nell’articolo L’ordine del caos di Guido Tonelli (ne La lettura del Corriere del 21.10.18):
«Se si osserva da molto vicino la più lucida e levigata delle superfici, ci si imbatte subito nella danza caotica dei componenti elementari della materia che fluttuano, oscillano, interagiscono e cambiano natura a un ritmo frenetico. Quark e gluoni che compongono protoni e neutroni cambiano stato continuamente, incessantemente, interagendo fra loro e con miriadi di particelle virtuali che li circondano. La materia sul piano microscopico segue implacabilmente le leggi della meccanica quantistica, dominate dal caso e dal principio di indeterminazione. Nulla sta fermo, tutto ribolle in una fantasmagoria cangiante di stati e possibilità. Ma quando il meccanismo coinvolge grandi numeri, quando le strutture diventano macroscopiche, i meccanismi che ne regolano la dinamica acquistano, quasi magicamente, caratteristiche di regolarità, persistenza, ordine ed equilibrio.»
Caos e ordine sono la stessa cosa: la loro antitesi è solo un effetto dello sguardo, vicino o lontano. Lo sguardo lontano dell’esperienza comune, quello acuminato della mente scientifica. A questo doppio punto di osservazione risultano opposte facce della stessa identica realtà.
Si legga adesso Lucrezio, De rerum natura II [passim, nella trad. di Giancotti], prima a proposito del moto impercettibile ma incessante degli atomi sotto la superficie delle cose:
Poiché questo è certo, certamente nessuna requie è data
ai corpi primi attraverso il vuoto profondo,
ma piuttosto, travagliati da un movimento continuo e vario,
parte, dopo essersi scontrati, rimbalzano per lunghi intervalli,
parte anche per brevi tratti son travagliati dal colpo.
[…]
Di questo fatto, come lo descrivo, un simulacro e un’immagine
innanzi ai nostri occhi sempre si aggira e incalza.
Osserva infatti, ogni volta che raggi penetrati
infondono la luce del sole nell’ombra delle case:
molti minuti corpi in molti modi, attraverso il vuoto
vedrai mescolarsi nella luce stessa dei raggi,
e come in eterna contesa attaccar battaglie e zuffe,
a torme contendendo, e non far sosta,
da aggregazioni e disgregazioni frequenti travagliati;
sì che da ciò puoi figurarti quale sia l’eterno agitarsi
dei primi principi delle cose nel vuoto immenso;
almeno per quanto una piccola cosa può dare un modello
di cose grandi e vestigi di loro conoscenza.
E per questa ragione più conviene che tu ponga mente
a questi corpi che vediamo agitarsi nei raggi del sole:
perché tali agitazioni rivelano che ci sono movimenti
di materia anche al di sotto, segreti ed invisibili.
Molte particelle infatti ivi vedrai stimolate da urti ciechi
cambiar cammino e indietro respinte ritornare,
or qui or lì, da ogni punto verso qualunque parte.
Certo questo errante movimento ha per tutti origine dagli atomi.
Primi infatti si muovono da sé i primi principi delle cose;
quindi quei corpi che constano d’una piccola aggregazione
e son quasi prossimi alle forze dei primi principi,
spinti dai ciechi colpi di quelli, si mettono in movimento,
ed essi stessi a loro volta stimolano i corpi un poco più grandi.
Così dai primi principi ascende il movimento e a poco a poco
emerge ai nostri sensi, sì che si muovono anche quelle cose
che possiamo discernere alla luce del sole.
(II 95ss. )
Poi proprio a proposito del duplice aspetto di una stessa realtà in rapporto alla distanza dello sguardo:
Di questo non c’è, a tale proposito, da stupire: che, mentre
tutti i primi principi delle cose sono in movimento,
la loro somma tuttavia sembra starsene in somma quiete,
salvoché qualcosa si muova col proprio corpo.
Infatti la natura dei corpi primi sta tutta molto lontano
dai nostri sensi, al di sotto della loro portata: perciò poiché essi
non si posson discernere, anche i loro movimenti devon sottrarci;
tanto più che le cose che possiamo discernere, tuttavia spesso,
separate da noi per distanza di luoghi, celano i loro movimenti.
E certo spesso su un colle, brucando i pascoli in rigoglio,
lente si muovono le lanute pecore, ognuna dove la chiama
l’invito delle erbe ingemmate di fresca rugiada,
e sazi gli agnelli giocano e gaiamente cozzano;
ma tutto ciò a noi di lontano appare confuso
e come un biancore poggiato sul verde colle.
Inoltre, quando possenti legioni in corsa riempiono
le distese dei campi suscitando simulacri di guerra,
quando un fulgore s’innalza al cielo, e tutta, dintorno,
risplende di bronzo la terra, e di sotto solleva col calpestìo
un rimbombo la forza degli uomini, e i monti percossi
dal clamore rimandano le voci agli astri del cielo,
e dintorno volteggiano i cavalieri e d’improvviso attraversano
il centro dei campi scotendoli con impeto poderoso –
pure c’è un luogo sugli alti monti di dove sembrano
star fermi e sui campi star poggiati come un fulgore.
(II 308ss.)
Colpisce intanto, al di là della modernità (risaputa, ma sempre stupefacente) del poema lucreziano, l’analogia di argomenti, di considerazioni e di immagini che accomuna due testi così lontani nel tempo. E poi lo spontaneo (forse non cercato, ma oggettivo) color poeticus lucreziano delle parole di Tonelli (evidenziate nel testo citato) a fronte della scientifica esattezza (avvalorata da paragoni e da esempi esperienziali) così delle immersioni poetiche di Lucrezio nella realtà impercettibile degli atomi come del suo innalzarsi alla vertigine di visioni cosmiche. I due linguaggi comunque convergono. Sbalordisce questa convergenza, soprattutto se (come credo) non è influenzata da una intenzionale emulazione diretta, da parte di Tonelli, del De rerum natura. Vorrebbe dire che intorno all’infinitesimo e all’infinito della materia il linguaggio della scienza e quello della poesia si toccano naturalmente. Che non si può fare scienza dell’infinitamente piccolo/grande senza fare poesia e viceversa. Si tratta nella fattispecie di un paradosso necessario, che smentisce clamorosamente l’antitesi fasulla tra le due culture e spiega come mai (Galileo ce lo insegna) scienziati che si mettano a divulgare la scienza assurgano spesso, più di tanti letterati, ad una autentica, talora notevole, qualità di scrittura.
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