Ci sono libri che non sono quello che vogliono sembrare. Un libro di narrativa – ad esempio – quando non riesce a riassorbire e rifondere nella verosimile concretezza dei caratteri e delle vicende il bagaglio di idee, anche stimolanti e originali, che trasmette (penso e.g. a Bouvard e Pecuchet di Flaubert), non è, a mio avviso, un libro artisticamente riuscito. Rischia di rimanere un ibrido irrisolto. Un saggio camuffato. È questo il caso de Il mercante di luce dello scrittore – cantautore – professore Roberto Vecchioni. Un operetta che vorrebbe proporsi come un racconto lungo incentrato sulla storia patetica di un ragazzo (Marco) gravemente malato di una rara patologia e destinato a morte prematura, e di un padre (il professor Quondam) che si dedica totalmente a consegnargli nel più breve tempo possibile – quel poco che resta al figlio – il tesoro della sua eredità spirituale. Terza figura – più defilata – quella della madre di Marco (Miranda) e moglie separata del protagonista, ancora legata a lui da un rapporto di odio-amore per averla prima sedotta con la sua cultura e il suo talento intellettuale e poi schiacciata e soffocata, sotto il peso stesso di quel fascino, in un ruolo subordinato, non mai autonomo né paritario. Sullo sfondo, il mondo accademico con i suoi giochi di potere, i suoi walzer di cattedre più e meno squallidi, da cui Quondam rimane regolarmente escluso. I temi e i personaggi di questa vicenda ambientata nell’attualità si delineano tuttavia a strappi, sgranandosi in episodi intermittenti di una cornice narrativa che incorpora il nocciolo ispiratore del racconto: la preziosa eredità che il prof. Quondam (evidente alter ego dell’autore) cerca di trasmettere al figlio, vale a dire i tesori letterari della cultura classica che egli ha amato e coltivato da sempre. Così le pagine anche quantitativamente più corpose e coinvolgenti del libro sono proprio quelle nelle quali il professore declina nel ruolo di padre amoroso la sua educazione di antichista – che per lui coincide, interamente, con il senso stesso della sua vita.
In queste pagine sentiamo il protagonista parlare con ispirata passione della tragedia classica e dei lirici greci, di Sofocle e di Saffo, di Fedra e di Medea: ma quello che filtra nei discorsi di Quondam- Vecchioni non è (per fortuna) l’imprinting scolastico o cattedratico di quella formazione, bensì soltanto la sua residua quintessenza intellettuale ed esistenziale. Come dire: quello che della disciplina sopravvive in un insegnante quando egli ha ormai smesso di insegnarla.
Il meglio. Il distillato. Il sapere fatto ormai carne e sangue di colui che lo ha assorbito.
Quello che dovrebbe rimanere della scuola in chi vi lavora (oltre che in chi la frequenta).
È innegabile che queste pagine sui grandi della letteratura classica risultino, proprio per l’autenticità e il pathos con cui essi sono ri-vissuti, emotivamente coinvolgenti e originali, specie per quei lettori che abbiano (come chi scrive) condiviso con l’autore la stessa esperienza culturale e professionale.
Ma ci si chiede – a lettura conclusa – quale reale relazione esse abbiano con la cornice narrativa, non proprio originale nella trama e ostentatamente modernizzante nel linguaggio. Perché in ultima analisi quella cornice appare – rispetto al quadro – piuttosto eterogenea, inessenziale, persino pretestuosa.
Quasi sia stata inventata soprattutto per non lasciarlo senza.
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