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Archive for novembre 2023

Tutti abbiamo ragione. Ciascuno ha le proprie ragioni. Tutti perciò abbiamo torto.

Oggigiorno spesso quelli (avidissimi) che dovrebbero sapere e saper fare non sanno o fanno male o fanno con scellerata negligenza. Quelli invece (avarissimi) che non sanno spesso pretendono di sapere e di saper fare. Due metà destinate o a non incontrarsi o a scontrarsi, nonostante (o forse proprio per) il comune denominatore dell’ignoranza…

Tragico che ognuno di noi si aspetti da tutti gli altri ciò che ciascuno di questi altri si aspetta a sua volta da lui e da tutti gli altri, specularmente. Ma uno specchio riceve e restituisce soltanto immagini. Fantasmi. Illusioni. Perciò gli illusionisti hanno oggidì tanto successo.

Ciascuno per sé, nessuno per tutti. Monadi senza sistema. Isole senza arcipelago. Atomi senza universo. Soli stantes in multitudine vasta.

Ciò che ci aspettiamo dagli altri è un diritto, ciò che gli altri si aspettano da noi è un attentato ai nostri diritti. Una pretesa, un privilegio o una rottura di scatole. Bellum uniuscuiusque erga unumquemque.

Giusto con i soldi oggi ti puoi comprare un favore o un aiuto – non dico un diritto. Ma spesso nemmeno con quelli.

Quando la politica non sa più cambiare in meglio la cosa pubblica allora inizia a blaterare in vano di cose private.

Le ideologie sono soprattutto maschere di bellezza per fessi, folli e filibustieri.

Il vittimismo è tra le più potenti ed abusate armi di ricatto e di prevaricazione. Una copertura nobile e sempreverde delle sopraffazioni e dei crimini più ignobili. Historia docet.

Dal vittimismo tutti abbiamo da (o cerchiamo di) guadagnare. Tutti, tranne le vere vittime.

La vittima (se è ancora viva) soffre in silenzio e protesta o combatte con dignità. I vittimisti urlano in piazza e straparlano sui media.

Il vittimismo è un formidabile lasciapassare a scadenza illimitata per aspiranti carnefici.

L’Italia è la patria elettiva del vittimismo. Pensate che annovera la percentuale più alta in Europa di campioni del chiagne e fotte. Quelli che si lamentano di essere derubati dallo stato mentre lo saccheggiano a man bassa. Quelli che piangono ingiustizia mentre prosperano anche o soprattutto a danno degli altri. Nessun governo li persegue, anzi volentieri li ‘condona’. Perché sa che unicamente con il loro consenso, da circa ottant’anni, in Italia si vincono le elezioni. Con qualsiasi bandiera ci si presenti.

PS di ‘autocommento’: Qualcuno penserà che traggo questi pensieri dall’attualità senza avere il coraggio di nominarla. È vero e non è vero. Mi ispiro anche all’attualità, ma non la inseguo. Se non la nomino non è per prudenza, diplomazia o vigliaccheria. È che non voglio fare affatto l’editorialista, non voglio aggiungere inutilmente la mia opinione sui fatti del giorno alle migliaia che ormai infestano quotidianamente i media e il web per sparire il giorno dopo. Trasformando l’attualità in considerazioni e in massime generali provo ad andare più all’essenza dei problemi della società e della natura umane, più in alto della contingenza. Così forse riesco a lasciare una traccia meno superficiale in chi legge, a stimolargli riflessioni meno scontate e meno spicciole, sottratte alla faziosità, o alla falsità o ai disperanti conformismi del nostro dibattito mediatico. Non nutro la presunzione di Seneca di scrivere per i posteri, ma di sicuro quella di trascendere il confine angusto dell’oggi. Così mi sento più libero e forse servo a qualcosa.

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“…  didattica breve, didattica interdisciplinare, didattica delle competenze… Vediamo: che cosa possiamo inventarci adesso per giustificare gli extra che stanno per arrivarci in tasca… il capo dice che bisogna darci da fare per arraffare pure noi qualcosa … Dai, buttiamo un altro sasso in piccionaia! Diamogli in pasto, a quelli là, un altro di quei paroloni dei nostri, che suoni avanzato, pretenzioso, à la page; che li impaurisca ben bene, quelli là, ma che non dispiaccia al capo e ai suoi amici banchieri e confindustriali. Poi quelli là si arrangeranno, come sempre, a gratis. Armiamoci e partite! (ahahahah…) Che dici, va sempre tanto di moda l’orientamento: buttiamoci stavolta sulla “didattica orientativa”. Orientativa ai mestieri e al mercato del lavoro, s’intende, quella che tanto garba ai nostri amici della Fondazione… Che ne dici? Che è la solita pappa rimediata con la rigovernatura dei piatti, come quella di Gianburrasca? Che noi la spacciamo da anni sui nostri proclami cambiandole soltanto il nome? Eh, tranquillo, hanno tutti la memoria corta, nessuno se ne accorgerà! Suona troppo bene, perdinci, orientativo: moderno, aziendalistico, impattante, figo… abbastanza per mettere in soggezione e in agitazione tanti creduloni, ahahah… questo importa! Se poi quelli là ci chiedono (ma non lo faranno mai…) di spiegare concretamente che cos’è, diremo, come sempre, ai loro caporali e ai loro sindacati: che volete? C’è già una montagna di letteratura pedagogica su questo: la nostra anzitutto – quella dei nostri consulenti accademici e dei nostri formatori – ma pure in inglese, da anni! Il web ne pullula: saggi, articoli, webinar… e voi non la conoscete? E diffidate pure? Non sapete nemmeno, ignoranti, di che cosa si tratta? Che scandalo! E poi vorreste guadagnare come in Belgio o in Germania? Ma i prof belgi e tedeschi lo sanno bene di che cosa si tratta: figuratevi che già da vent’anni la mettono in pratica… [questa panzana, tranquillo, gliela possiamo impapocchiare perché della scuola belga e tedesca non sa un c… nessuno!] Vergogna! I professionisti dell’insegnamento siete voi… facciamo a capirci! Noi indichiamo la strada, «poi ogni istituto, con l’aiuto dei nostri tutor, la percorra con i mezzi che possiede e nei modi che crede: declini [bello eh: declini…, scrivi, scrivi, comincia ad appuntarti qualcosa per una ‘nota esplicativa ufficiale’, ihihih] declini l’orientamento didattico secondo lo spirito dell’autonomia » Che figata: declini… e poi: spirito! Sublime! Con tutto ‘sto latinorum qui parecchi di quelli se la faranno subito sotto! Siamo troppo forti!”

Intercettazione ambientale del tutto immaginaria (ma del tutto verosimile) captata da una talpa negli uffici di un certo Ministero… Chi avesse invece tempo da perdere o necessità (ahilui, non lo invidio..) di sapere seriamente di più di questa ennesima parola d’ordine inflitta con dolo e con danno alla nostra scuola per evidenti secondi fini e per indicibili guadagni, si rivolga altrove, perché il web ne pullula, appunto. Io invece oramai rinuncio a scalare certe altezze… De hoc satis. Per me parli il sergente Murtaugh di Arma letale: « Sono troppo vecchio per queste str…te!».

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«Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! […] Quanto più si avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti.» (A. Manzoni, I promessi sposi, cap. VIII)

Prima parte dell’arcinoto Addio monti manzoniano. E adesso, a fronte, un passaggio di Tempi difficili di Dickens:

«[…] Se ne andò sul far dell’alba abbracciando con lo sguardo, per l’ultima volta, la stanza e chiedendosi se l’avrebbe rivista mai più. La città era vuota come se gli abitanti avessero preferito abbandonarla che avere con lui un qualsiasi contatto. A quell’ora le cose sembravano diafane e sbiadite. Perfino il sole nascente pareva una chiazza pallida nel cielo simile a un mare triste.  Passò […] lungo vie fiancheggiate da case di mattoni rossi; passò accanto alle grandi fabbriche immerse nel silenzio, non ancora scosse dai fremiti delle macchine; accanto ai binari dove le luci di segnalazione sbiadivano pian piano, sopraffatte dal chiarore del giorno; accanto agli assurdi quartieri intorno alla ferrovia, costruiti a metà e a metà diroccati; accanto alle ville di mattoni rossi, sparse qua e là, dove sempreverdi, ormai affumicati e cosparsi di polvere nera, sembravano sudici fiutatori di tabacco; lungo sentieri ricoperti di scorie di carbone; accanto a una grande varietà di brutture, fino a che, raggiunta la sommità del colle, non si voltò a guardare indietro.  Un sole radioso splendeva sopra la città e nelle fabbriche le sirene annunciavano l’inizio del lavoro. Nelle case non era stato ancora acceso il fuoco, e le alte ciminiere avevano il cielo tutto per loro. Fra un po’ avrebbero nascosto l’azzurro con i loro sbuffi di fumo velenoso, ma, ancora per mezz’ora, le finestre sarebbero state d’oro sotto i raggi del sole; poi la gente di Coketown vi avrebbe visto, attraverso i vetri sporchi di fumo, un sole in fase di eterna eclissi.  Che strana sensazione allontanarsi dalle ciminiere, vedere gli uccelli, sentire il loro canto! Che strana sensazione avere sui piedi la polvere della strada invece della polvere del carbone! Che strana sensazione trovarsi a cominciare tutto da capo alla sua età, come un ragazzo, in quella mattina d’estate! Con questi pensieri nella mente e il fagotto sotto il braccio, Stephen si volse a guardare, assorto, la strada maestra.» (Tempi difficili, parte II, cap. 6)

Non so se Dickens tenesse presente o meno, scrivendo questo pezzo, il passo manzoniano. Improbabile, anche se non impossibile, dato che I promessi sposi erano discretamente noti a metà dell’Ottocento negli ambienti letterari inglesi. Oggettivamente, che risenta o no di una suggestione manzoniana (più o meno consapevole), il pezzo di Dickens è comunque un ideale, scioccante controcanto all’Addio monti. Narrativamente, un esodo il primo e uno speculare ‘controesodo’ il secondo: rispettivamente dalla campagna alla città e dalla città alla campagna. Ma metaforicamente entrambi sono immagine della dilemmatica oscillazione tra visioni ( o aspirazioni o condizioni) opposte e complementari della vita moderna: dalla natura alla anti-natura e ritorno; dalla (presunta) felicità all’infelicità (certa) e viceversa. Manzoni parla di una migrazione forzata e dolorosa; Dickens di una fuga liberatoria. In mezzo però, punto indesiderato di arrivo prima e poi di partenza, rimane sempre la città: prigione volontaria, male assoluto ma necessario, luogo dell’inumano stipato di umani, vertice e abisso della civiltà evoluta, ombelico e cloaca dell’universo industriale, madre e figlia del nostro sviluppo senza progresso… Un primo e lontano germe di consapevolezza di questa drammatica e direi fondante antinomia del nostro mondo c’era già nel secondo libro delle Georgiche. Ma il vecchio Virgilio non poteva avere ancora sentore della esponenziale e potenzialmente distruttiva escalation dello sviluppo urbano/industriale di oggi. Cosa di cui Dickens (et pour cause) possedeva invece, più di Manzoni e già a metà dell’ottocento, chiarissima consapevolezza.

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