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Archive for ottobre 2011

 

La bestia ingorda dell’ambizione assume mille maschere e mille nobili nomi: ora si fa chiamare aspirazione ad un giusto riconoscimento del merito; ora diritto alla gratificazione degli sforzi e del lavoro compiuto; ora realizzazione di legittime aspettative ecc. ecc.
Per chi insegna nella scuola l’ambizione assume in prevalenza le facce e i nomi di genitori divorati dall’ansia di veder arrivare  in alto i propri i figli a tutti i costi, anche calpestando – con astuzie o lusinghe o lamentele o pressioni indebite- regole e persone.
Perché l’ambizione non arretra di fronte a nulla pur di raggiungere il proprio scopo.
Ma ha un limite: non può fare a meno, per affermarsi, del giudizio altrui.
Del riconoscimento cioè di coloro che sono preposti a valutare chi oggettivamente sta più in alto di chi.
Perciò l’insegnante si trova spesso (suo malgrado) a diventare testimone ed arbitro della gara senza esclusione di colpi che l’ambizioso ingaggia coi suoi simili.
E allora, se non asseconda i suoi metodi e i suoi fini, se osa soltanto rinfacciargli la sua stupida ossessione, ne diventa il nemico numero uno, il bersaglio da insultare e da beffeggiare, l’ostacolo da abbattere.
Sperimenta a proprio danno tutta la gamma delle sue sgradite metamorfosi zoologiche: dal serpente, alla volpe, allo squalo.
Quando nessuna di esse raggiunge lo scopo, allora l’ambizioso comincia la pubblica delegittimazione dell’arbitro: incompetente, rigido, passatista, presuntuoso; incapace di riconoscere il talento altrui.
L’ultima arma dell’ambizione scornata è – per dirla con Saviano – la ‘macchina del fango’.
Un gioco facile oggi contro una categoria derelitta e sbeffeggiata come quella dei docenti italiani.

 

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Non c’è merce che si venda con maggior facilità delle illusioni.

L’abilità con cui sacerdoti e chiese di vari credi hanno radicato per millenni il loro potere sulla terra predicando le cose del cielo appare, semplicemente, diabolica.

 

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«Nei rapporti con lo stato, quando cioè si devono pagare le tasse, la persona onesta, a parità di reddito, paga di più; quella disonesta di meno; quando invece c’è da prendere, la persona onesta non prende nulla, mentre quella disonesta ci guadagna sopra un bel po’. E poi quando l’uno e l’altro ricoprono le cariche pubbliche, la persona onesta non può approfittare del danaro pubblico proprio perché è onesta; e gli tocca per di più di essere odiato da parenti e conoscenti se non vuol fare loro dei favori per non comportarsi disonestamente; alla persona disonesta invece accade tutto il contrario di quello che si è appena detto…»

Chi avrà scritto queste dolenti note sul malcostume italiano? Un opinionista di opposizione? Un blogger ‘indignato’? Un intellettuale moralista? O forse il solito Marco Travaglio?

Nessuno di costoro. Le ha scritte un grande filosofo greco di 2500 anni fa (Platone ne La Repubblica; la traduzione – un po’ libera, ma non troppo – è la mia ) che parlava dell’Atene di quei tempi remoti.

Sono peraltro parole che egli fa pronunciare a Trasimaco, uno spregiudicato e amorale sofista dell’epoca (famosa – e anche quella, ahinoi, attualissima – la sua definizione della giustizia come ‘nobile stupidità’), salvo poi farle confutare punto per punto dalla tagliente dialettica di Socrate.

Niente di nuovo dunque sotto il sole? Parrebbe di no. Tranne il fatto che Platone e gran parte dei suoi contemporanei avevano ancora – al di là delle provocazioni dei Sofisti – ben precisa consapevolezza  che il comportamento della persona ingiusta andava condannato e perseguito. Una consapevolezza che si va dissolvendo nell’Italia di oggi. E che segna una differenza – etica e culturale – di non piccolo conto.

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Chi presume una totale ‘bontà’ negli esseri umani adulti ed elabora progetti ambiziosi sopra la base di questa sciocca presunzione è destinato – machiavellianamente – a ruinare miseramente con essi. Non solo non realizzerà nulla di veramente buono e nuovo, ma finirà giocoforza per peggiorare la situazione che ha trovato. Incontrerà inoltre sulla sua strada molti loschi individui pronti a sfruttare per secondi ed ignobili fini la sua buona fede.
Chi crede poi che questa ‘bontà’ (intesa come spontanea disponibilità all’apprendimento, all’altruismo, alla solidarietà, alla generosità, al rispetto delle regole ecc.) sia quantomeno una prerogativa ‘originaria’ degli esseri umani, cioè riscontrabile almeno negli individui più giovani, commette un errore di giudizio ancora più grave. Perché il bambino e l’adolescente sono ancor più vicini dell’adulto allo stato di natura: più malleabili certo e più ingenui, meno corrotti, ma non certo più ‘buoni’ nel senso sopra illustrato; anzi, in quanto più istintivi essi sono più ‘cattivi’, etimologicamente addirittura ‘feroci’ (cioè più vicini all’animalità).
Eppure in campo educativo e scolastico- in buona e in cattiva fede – si è presupposta negli ultimi decenni in Italia l’esistenza di un ‘buon giovine’ (come il ‘buon selvaggio’ di Rousseau) del tutto docile alle astratte ed edificanti teorie ludiche dei pedagogisti nostrani. La persona, secondo queste teorie, si educa e si realizza essenzialmente attraverso il piacere del gioco. Come se l’insegnamento tradizionale avesse fino a quel momento oscurato e mortificato con chissà quali vessazioni autoritarie quella presunta nativa ‘bontà’.
In realtà il ragazzo di oggi non solo non è – come quello di ogni altra epoca- naturalmente ‘buono’ (nel senso di cui sopra), ma è esposto più che in altre epoche ab ovo (anche per la latitanza della famiglia) alle facili e attraenti pratiche corruttive dei media, i quali assecondano e pervertono (per strumentalizzarli) fino all’ennesima potenza i suoi istinti in direzione puramente anarchica ed edonistica.
Un’azione pedagogica invece deve (dovrebbe) saper comunque, prima o poi, trascendere la fase del gioco (pur importante nell’infanzia) e del piacere puro per convogliare gli istinti verso fini umani superiori, consapevolmente e razionalmente perseguiti.
Non si può insomma diventare davvero grandi senza rinunciare in buona misura – gradatamente e faticosamente – al gioco.
Né senza irretire i propri istinti e i propri desideri per convertirli nella ‘bontà’ – un valore assolutamente educativo e culturale, non naturale né spontaneo – della vita sociale.
Perciò la pedagogia ludica ha fallito e continua a fallire sotto ogni rispetto.
Più ancora di quella tradizionale (che pure racimola scarsi frutti).
Perché è intrinsecamente, direi quasi, omeopatica.
Vorrebbe – avendo orrore di contrastarli – superare gli istinti solamente blandendoli.
Ma finendo spesso per scopiazzare penosamente – nei modi e nei risultati – le pratiche dei media.

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