La bestia ingorda dell’ambizione assume mille maschere e mille nobili nomi: ora si fa chiamare aspirazione ad un giusto riconoscimento del merito; ora diritto alla gratificazione degli sforzi e del lavoro compiuto; ora realizzazione di legittime aspettative ecc. ecc.
Per chi insegna nella scuola l’ambizione assume in prevalenza le facce e i nomi di genitori divorati dall’ansia di veder arrivare in alto i propri i figli a tutti i costi, anche calpestando – con astuzie o lusinghe o lamentele o pressioni indebite- regole e persone.
Perché l’ambizione non arretra di fronte a nulla pur di raggiungere il proprio scopo.
Ma ha un limite: non può fare a meno, per affermarsi, del giudizio altrui.
Del riconoscimento cioè di coloro che sono preposti a valutare chi oggettivamente sta più in alto di chi.
Perciò l’insegnante si trova spesso (suo malgrado) a diventare testimone ed arbitro della gara senza esclusione di colpi che l’ambizioso ingaggia coi suoi simili.
E allora, se non asseconda i suoi metodi e i suoi fini, se osa soltanto rinfacciargli la sua stupida ossessione, ne diventa il nemico numero uno, il bersaglio da insultare e da beffeggiare, l’ostacolo da abbattere.
Sperimenta a proprio danno tutta la gamma delle sue sgradite metamorfosi zoologiche: dal serpente, alla volpe, allo squalo.
Quando nessuna di esse raggiunge lo scopo, allora l’ambizioso comincia la pubblica delegittimazione dell’arbitro: incompetente, rigido, passatista, presuntuoso; incapace di riconoscere il talento altrui.
L’ultima arma dell’ambizione scornata è – per dirla con Saviano – la ‘macchina del fango’.
Un gioco facile oggi contro una categoria derelitta e sbeffeggiata come quella dei docenti italiani.