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Archive for gennaio 2011

TOSSILO [servo]
O melma ruffianica [lutum lenonium], cacatoio pubblico impastato col fango, sporcaccione disonesto, sacrilego, fuorilegge, rovina del popolo, sparviero del denaro altrui, avido ed invido, procace, rapace, furace [procax, rapax, trahax]…. ti decidi ad arraffare la grana?
 
DORDALO [lenone]
Lasciami respirare e ti risponderò. O uomo straordinario che eccelli tra la folla, o stalla degli schiavi [stabulum servitricium], liberatore di mignotte, pietra per affilare lo staffile, logoratore di ceppi, iscritto all’anagrafe delle macine, servo fino alla fine dei tempi [perenniserve], vorace, edace, furace e fugace [lurco, edax, furax, fugax].
 

Questo dialogo è tratto da una commedia di Plauto intitolata Persa e scritta circa 2.200 anni fa. I  personaggi (un servo che ha racimolato una somma per riscattare una cortigiana [oggi ‘escort’] e un lenone, protettore-trafficante della medesima ) si insultano in un  tono non molto diverso, mi pare, da quello di molti pseudodibattiti televisivi odierni.
 

Ma bisogna dire che, nella sua la trivialità linguistica, la scena plautina possiede uno stile, un estro inventivo, un’originalità sanguigna e plebea, un compiacimento artistico – direi – del turpiloquio che gran parte dei duellanti mediatici nostrani, con la loro misera, inelegante e trita volgarità – lessicale e morale –,  non potrebbero mai eguagliare.
 

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No, ragazzi, il mondo non si può cambiare.

Almeno se per ‘cambiare’ si intende rifondare ex novo, rivoluzionare il mondo sulla base di leggi e principi che magari ci piacciono, ma non gli appartengono.
No, rivoluzionarlo non si può, perché semplicemente le rivoluzioni non esistono.
Quelle che avvengono nella storia (del genere umano e dei singoli individui) sono solo parvenze.
Sono come la frattura improvvisa, un'eruzione violenta della crosta terrestre che segue a lenti e profondi movimenti tettonici.
Ma migliorarlo – il mondo – si può.
Anzi si deve. Sempre e continuamente.
A partire da noi stessi, anzitutto, e poi – di conseguenza – fuori di noi stessi.

Con tutta la tenacia e la determinazione di cui siamo capaci.
Però attenzione: il risultato arriverà (se mai arriverà) con una lentezza e una piccolezza  inversamente proporzionali alla nostra immane fatica.
Probabilmente non ci spetterà alla fine -per questo nobile sforzo- alcun premio, nemmeno un briciolo di gloria o di gratitudine.
Ma ci gratificherà, come gli antichi eroi greci, il fatto stesso di aver agito e reagito, contro un destino avverso, in un’impari lotta.
Di non aver vissuto come inutile peso della terra.

 

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MERITOCRAZIA AL CUBO


Meritocrazia significa 
'dominio del merito'.
Di chi merita nel mondo
per le proprie e speciali virtù

un posto, un compito, un ruolo 
da mettere al servizio del mondo.
Fin qui, dunque, una pietra

angolare, la roccia 
su cui costruire ogni
società
sana, quale non è
quella italiana.

Ma se poi diciamo
che merita di più anche il cane
che piega
di più la sua spina dorsale, 
quello che scodinzola di più
ai voleri del capo, ecco
che 'meritocrazia'  mi comincia
a sapere malamente
di 'metonomasia'
di truffa lessicale, di maschera
nobile del vecchio (e nuovo,

marchionnico) servilismo nostrano.

Se poi ancora (elevando
e storpiando al cubo filosofico
la semantica del nome)
si vuol dire che il merito
ha da trionfare
perché è legge 
universale,
perché ognuno
merita la sorte che ha
la moglie (o il marito) che ha
i soldi che ha
il governo che ha
persino la salute che ha,
ecco  allora che 'meritocrazia'
mi diventa la visione del mondo
comoda e idiota

di chi tiene gli occhi chiusi
sulle sue (del mondo) puzzolenti vergogna,

e tende una rozza, lurida
coperta tra la propria pelosa
coscienza
e l’enigma
scandaloso del male.

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CADUCITA'

Il grembo gelato
della notte ha partorito
da un balcone, per un tubo
slabbrato di plastica,
il fiore
scintillante
di un ghiacciolo: glicine
di cristallo, ghiribizzo scolpito
di fontana barocca, zampillo
di sorgente rappreso
che cattura e ridona
al mattino d’inverno
le sue luci discrete. Ma ecco
la mano del sole accarezza
fatale
la creatura di vetro.
Una prima lacrima
fredda
percorre lo stelo
stilla nel vuoto. Presto
è un pianto diffuso
dirotto. Si strugge in un amen
(di pudore, o di rabbia?)
la corolla di ghiaccio,
di botto precipita
nei rigagnoli sozzi
che un tombino divora.

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