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Archive for Maggio 2019

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Seguo da sempre il calcio con un amore che il calcio forse non merita. Ma si sa che al cuore non si comanda. Questa passione che mi insegue sin da bambino mi ha permesso, credo, di giocarmi una carta in più nel mio lavoro di insegnante. Il collega e scrittore Marco Lodoli confessa in un suo libro che il calcio spesso lo ha salvato nel proprio lavoro in classe. Gli ha permesso di instaurare un canale di comunicazione con scolaresche difficili (Lodoli ha insegnato a lungo in scuole di frontiera come le grandi periferie urbane) che altrimenti sarebbe rimasto chiuso. Parlando di schemi tattici, di arbitri, di rigori assegnati o negati, Lodoli è riuscito a ritagliarsi con i suoi studenti uno spazio di intesa e di comunicazione senza il quale sarebbe stato difficile farsi seguire ed accettare nel ruolo di docente e di educatore. Ora io ho insegnato quasi sempre in licei classici di provincia, scuole frequentate per lo più da ragazzi di buona famiglia, in genere ben integrati sul piano sociale. Niente a che vedere con le scuole di frontiera. Inoltre i licei classici sono oggi frequentati in prevalenza da ragazze. E le ragazze si interessano di calcio in percentuale decisamente minore rispetto ai loro coetanei maschi. Tuttavia anche per me il calcio, laddove ho potuto usarlo come leva comunicativa, è stato importante a scuola. Non solo come pretesto di dialogo e di familiarizzazione con gli alunni ‘sportivi’ della classe negli interstizi della lezione ufficiale, ma anche – questo sorprenderà forse di più – come strumento educativo.

Riuscire a far ammettere, ragionando, all’allievo fanatico della squadra x che il rigore concesso a suo sfavore era giusto; o a far riconoscere, argomentando, che la squadra x ha perso meritatamente, non per sfortuna o per ostilità arbitrale, ma perché meno in forma, meno attrezzata tatticamente degli avversari ecc.; insomma: porre un ragazzo – che altrimenti giudicherebbe un fatto sportivo solo secondo i dettami di una cieca e irrazionale parzialità – di fronte al dovere e alla fatica di esercitare quanto più oggettivamente possibile il suo giudizio critico è un potentissimo propulsore di crescita, una leva formidabile di emancipazione della ragione dall’istinto, del logos dal mythos. Altro che divagazione ricreativa negli intervalli della lezione!

Nel mio caso di insegnante di greco, per altro, parlare di sport ha significato spesso riferirsi ad uno degli aspetti fondanti della civiltà classica: la civiltà che di fatto ha inventato lo sport agonistico nel senso moderno del termine, come specchio e surrogato ludico, pacifico e incruento di una competizione violenta, feroce, sanguinaria che devastava continuamente con il polemos e la stasis – la guerra esterna e quella interna – la società delle poleis.

I Greci antichi erano d’altra parte così assetati di competizione e di vittoria (nella vita come nello sport) da dover giocoforza sviluppare sin dagli inizi una pensosa, tormentata riflessione sulla sconfitta. Perché vittoria e sconfitta sono la stessa cosa, come la salita e la discesa di Eraclito: dipende solo da che parte la si guarda. Se si cerca ardentemente la prima, si deve frequentemente scontare la seconda. Ragionare sulla sconfitta, partendo da una partita di calcio per arrivare agli antichi greci, è stato per me un’altra intrigante e frequente occasione educativa: l’occasione di disinnescare lo spirito fazioso e tribale che si annida dietro il fenomeno del tifo sportivo per promuovere al suo posto una riflessione più sana e civile intorno alla competizione: che è gioco delle parti, coscienza dei propri limiti e della instabilità del successo, rispetto delle regole e degli avversari.

Ultimamente poi l’introduzione nei campi da gioco di quello strumento di giudizio che viene chiamato VAR (la moviola in campo), mi ha offerto più di una volta lo spunto per riflettere in classe su di un altro problema capitale della conoscenza umana. Sì, perché il VAR è un marchingegno tecnologico introdotto per eliminare gli errori arbitrali, passare al setaccio di una analisi visiva meticolosissima vari episodi di difficile valutazione oggettiva per un arbitro (rigori, espulsioni, fuorigioco). Ebbene il paradosso è che quegli errori sono stati sì in gran parte ridotti dal Var, ma non eliminati. Si sbaglia ancora a interpretare un fatto, nonostante lo si guardi con l’occhio – apparentemente infallibile – della tecnologia. Per quanto questa tecnologia possa spostare in alto l’asticella della nostra capacità di valutare oggettivamente la realtà, la realtà ci sfuggirà sempre. Ci avvicineremo senza mai raggiungerla. Come Achille alla tartaruga.

Il problema della ‘oggettività impossibile’ lo si affronta spesso in classe, anche insegnando le mie materie, in vari modi e con vari esempi. Uno su tutti la narrazione dei fatti storici nelle pagine degli storiografi antichi. Ma Cesare e Senofonte, devo ammetterlo, non mi sono stati così utili – per far passare immediatamente il concetto – come il VAR.

 

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Durante un talk show un giornalista famoso ed una famosa scrittrice, entrambi appartenenti alla stessa area di pensiero della sinistra benpensante all’eau de rose, parlano della nostra scuola.

Il giornalista riferisce con stupore di una statistica che inchioda alla croce di una evidenza inoppugnabile la povera realtà dell’ignoranza linguistica dei giovani italiani. Grande accusata – con attenuanti – è ovviamente la scuola. Le attenuanti consisterebbero nel fatto che essa – la scuola – non riesce più da sola a contrastare l’influenza deleteria dei media, dei social e via discorrendo.

Mi colpisce di più però, nelle parole dei due interlocutori, lo stupore con cui essi constatano una presunta contraddizione del mondo giovanile. I ragazzi – secondo loro – sarebbero straordinari per la loro sensibilità verso le grandi sfide dell’attualità (diritti civili, volontariato, accoglienza, ecologia ecc ecc ), per la varietà dei loro interessi culturali e sociali ecc. Con questa loro eccezionale vitalità ricettiva confliggerebbe però (in una maniera che i due interlocutori ritengono inspiegabile) la difficoltà nel recepire e nel padroneggiare le regole della grammatica della loro lingua madre.

Questo stupore può sussistere, a mio avviso, solo se si ignora la scuola reale di oggi e si soggiace nel contempo a qualche equivoco ideologico. È tipico della sinistra radical chic credere infatti che una scuola davvero moderna debba fondarsi essenzialmente su di una fervida e costante rincorsa della modernità e della attualità. Poco importa se nella foga di questa rincorsa si lasciano indietro (come se fossero obsoleti) saperi fondamentali e  metodi consolidati. Ora, questi saperi e questi metodi richiedono fatica e tempo. Sono il duro allenamento che prepara alla performance sportiva. Ma se quell’ allenamento viene sacrificato e quel tempo viene dedicato quasi interamente ad inseguire, in maniera spesso scomposta e giocosa e spontaneista e immetodica, l’attualità, ecco che poco tempo e poca fatica restano per la vecchia grammatica, per le vetuste matematiche ecc.

Non ho dubbi che i giovani accorrano entusiasti alle conferenze che quella famosa scrittrice tiene nelle scuole sui più disparati temi d’attualità: quei temi sono sicuramente importanti, ma non costa nulla ai ragazzi affollare un’aula magna per una conferenza sul clima, porre qualche brillante domanda al relatore e alla fine applaudire tutto e tutti scordandosi in un’ora gran parte di quello che si è ascoltato. Non solo non costa, ma può persino gratificare. Il punto è proprio questo: grammatica e matematiche sono troppo ingrate. Chi si ostina a insegnarle ancora annoia, mortifica, esaspera. Meglio sostituirle con progetti à la page, conferenze con personaggi famosi, giornate di cultura moderna. Così fanno le scuole adesso. Tutte. La sistematicità dell’insegnamento si è dispersa in un frullato di mille attività eterogenee e accattivanti. Perciò nulla più di sistematico si insegna e si impara nelle nostre scuole. Non si riesce più a farlo neanche a volerlo. Perché l’unico sistema che vige e domina ormai nel mondo scolastico è l’antisistema. La scuola del frullatore. L’antiscuola.

Già una scuola (ipotetica) che si incaponisse oggi ad insegnare bene e sistematicamente l’italiano avrebbe partita persa contro i media e i social. Figuriamoci una scuola (reale) come questa, arresa e venduta alle mode. In tutt’altre faccende affaccendata.

Di che cosa si meravigliano allora i due signori di cui sopra?

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