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Covid-19: Prestiti alle imprese nel collo di bottiglia della burocrazia e  di un credito con tanti banchieri e pochi bancari | Nens | nuova economia  nuova società

Sono andato ieri prima in banca e poi in un ufficio comunale e ho trovato: file rigorosamente distanziate all’esterno, entrata uno alla volta, impiegati protetti da alti schermi di plexiglas… Insomma: tutte le cautele possibili (e comprensibili) in questa fase di nuovo critica della pandemia. Che cosa mi raccontano invece colleghi che insegnano nei licei? Classi superaffollate come sempre, nessun distanziamento, ammucchiate incontrollabili nei cambi d’ora (lascio immaginare i trasporti scolastici); quarantene ormai continue di intere classi per casi positivi con conseguente Dad… Insomma: c’è chi si difende al meglio e chi invece lavora mandato allo sbaraglio. Ora la situazione reale della scuola prima e durante la pandemia purtroppo la conosciamo tutti (anche se fingiamo di ignorarla). Quello che personalmente non digerisco è che alla base di tutto questo non c’è tanto un nobile motivo pedagogico (“la scuola non si deve mai fermare”) quanto l’opportunismo inerte e demagogico di governi che, pur di non disturbare le comodità delle famiglie, non ha nemmeno imposto alla scuola quella che poteva essere la misura più ovvia e sensata, oltre che davvero responsabilizzante ed educativa, quantomeno per i ragazzi delle superiori: il possesso del green pass per poter frequentare le aule con maggior tranquillità. Quelli che inneggiano in maniera astratta ed incondizionata alla sacralità delle lezioni in presenza dovrebbero prima capire che populismo giovanilistico e educazione dei giovani non sono per niente la stessa cosa. E che confonderli comporta, anche con le migliori intenzioni, i peggiori disastri.

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Covid e nuove sfide educative, incontro online con lo psicanalista Massimo  Recalcati - piacenzasera.it

«Se i nostri ragazzi non hanno potuto beneficiare di una didattica in presenza nel corso di quest’anno, se hanno perduto una quantità di ore e di nozioni significative e di possibilità di relazioni, questo non significa affatto che siano di fronte all’irreparabile. Il lamento non ha mai fatto crescere nessuno, anzi tendenzialmente promuove solo un arresto dello sviluppo in una posizione infantilmente recriminatoria. A contrastare il rischio della vittimizzazione è il gesto etico ed educativo di quegli insegnanti che spendono se stessi facendo salti mortali per fare esistere una didattica a distanza. Insegnare davanti ad uno schermo significa non indietreggiare di fronte alla necessità di trovare un nuovo adattamento imposto dalle avversità del reale testimoniando che la formazione non avviene mai sotto la garanzia dell’ideale, ma sempre controvento, con quello che c’è e non con quello che dovrebbe essere e non c’è. Si tratta di una lezione nella lezione che i nostri figli dovrebbero fare propria evitando di reiterare a loro volta la lamentazione dei loro genitori. Non ci sarà nessuna generazione Covid a meno che gli adulti e, soprattutto, gli educatori non insistano a pensarla e a nominarla così lasciando ai nostri ragazzi il beneficio torbido della vittima: quello di lamentarsi, magari per una vita intera, per le occasioni che gli sono state ingiustamente sottratte». [M.Recalcati, La Repubblica 23.11.20 (grassetti miei)]

Una voce controcorrente, quella dello psicoanalista Recalcati sulla cosiddetta DAD, nel fiume delle lamentazioni vittimistiche e giovanilistiche del mainstream mediatico degli ultimi mesi. Condivido dalla prima all’ultima parola: già scrivevo qualcosa di molto simile (ignorando ancora le posizioni di Recalcati) nel post Bambini adulti e adulti bambini di qualche tempo fa. Ho sempre ritenuto per parte mia che storicamente il vittimismo perpetuo di persone, gruppi, categorie, popoli interi – anche quando si fondi su di un grave torto o su di una sventura effettivamente patiti – rischi di diventare nel tempo un intollerabile alibi per fuggire le proprie responsabilità e per giustificare la propria inerzia, la propria inettitudine, persino gravi e (altrimenti) imperdonabili colpe. Ma forse Recalcati non sa che nella scuola attuale moltissimi dirigenti e non pochi insegnanti concedono ai giovani questo beneficio torbido della vittima molto a buon mercato, anche in tempi normalissimi e per ragioni molto più banali e pretestuose di una pandemia. Chi non vive nella scuola non può in effetti sapere che la deresponsabilizzazione e la vittimizzazione degli adolescenti sono oggigiorno una pratica quotidiana, figlia di una fede ideologica per alcuni e di una strategia politica per altri. Ma entrambi i comportamenti convergono verso un unico effetto diseducativo. Da un lato ci sono educatori (quelli che io definisco i prof ‘psicosocio’) convinti, per inclinazione personale e/o per soggezione a certo pedagogismo alla moda, che i ragazzi siano angeli incarnati, incapaci di ogni malizia e di ogni malefatta che non derivi dagli errori e dal cattivo esempio degli adulti o dalle storture dell’ambiente e della società. Questi educatori non riescono nemmeno a concepire che un diciottenne sia un essere autonomo e debba ormai accollarsi i suoi doveri e le sue responsabilità: di fronte a problemi grandi e piccoli che riguardano la comunità scolastica essi non sanno fare altro, di conseguenza, che giustificare i giovani e flagellare se stessi. Dall’altro lato ci sono dirigenti che da anni oramai hanno abbracciato un facile e spudorato populismo giovanilistico come unica e formidabile arma per riscuotere la customer satisfaction, cioè per accattivarsi il favore delle famiglie e per raggranellare iscrizioni. In questo sono spalleggiati sempre e trasversalmente dalla politica e da gran parte dei mass media. Quando parliamo della questione giovanile non riflettiamo mai abbastanza sul fatto che gli adolescenti e i giovani sono anzitutto un formidabile e vastissimo target pubblicitario, non solo per gli istituti scolastici, ma anche e soprattutto per l’industria, per il commercio e per la politica. Il consenso dei giovani muove interessi vari ed enormi. Ecco perché esso interessa molto di più che la loro crescita e la loro autentica educazione. Ecco il perché, nemmeno tanto recondito, di un giovanilismo così diffuso e spesso così malinteso e sospetto, nella scuola e fuori di essa. Ecco, insomma, il vero motivo di tanta campagna mediatica contro la DAD. Una campagna in gran parte inopportuna e strumentale, dati i tempi e le circostanze. Perché avrei voluto vedere che cosa sarebbe stato della scuola, nei mesi più bui della pandemia, senza questo pur limitato e imperfettissimo strumento. Ripeto: i miei genitori persero anni di istruzione elementare e media durante l’ultima guerra mondiale. Hanno sofferto molto, ma poi hanno vissuto e costruito la loro vita con rinnovata energia, con saggezza e con spirito di iniziativa. Ed è stata paradossalmente quella traumatica esperienza a insegnare loro come affrontare al meglio le avversità. Pathei mathos: soffrendo si impara. E si matura. Vale ancora e per tutti il vecchio motto eschileo. Ma vale molto di più per i giovani, perché la loro è l’età più adatta per imparare, appunto. Anche e soprattutto dalle sofferenze. Grazie Recalcati. Anche se siamo in pochi ormai a pensarla così, una volta tanto abbiamo trovato un compagno di strada autorevole ed ascoltato.

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Seguo da sempre il calcio con un amore che il calcio forse non merita. Ma si sa che al cuore non si comanda. Questa passione che mi insegue sin da bambino mi ha permesso, credo, di giocarmi una carta in più nel mio lavoro di insegnante. Il collega e scrittore Marco Lodoli confessa in un suo libro che il calcio spesso lo ha salvato nel proprio lavoro in classe. Gli ha permesso di instaurare un canale di comunicazione con scolaresche difficili (Lodoli ha insegnato a lungo in scuole di frontiera come le grandi periferie urbane) che altrimenti sarebbe rimasto chiuso. Parlando di schemi tattici, di arbitri, di rigori assegnati o negati, Lodoli è riuscito a ritagliarsi con i suoi studenti uno spazio di intesa e di comunicazione senza il quale sarebbe stato difficile farsi seguire ed accettare nel ruolo di docente e di educatore. Ora io ho insegnato quasi sempre in licei classici di provincia, scuole frequentate per lo più da ragazzi di buona famiglia, in genere ben integrati sul piano sociale. Niente a che vedere con le scuole di frontiera. Inoltre i licei classici sono oggi frequentati in prevalenza da ragazze. E le ragazze si interessano di calcio in percentuale decisamente minore rispetto ai loro coetanei maschi. Tuttavia anche per me il calcio, laddove ho potuto usarlo come leva comunicativa, è stato importante a scuola. Non solo come pretesto di dialogo e di familiarizzazione con gli alunni ‘sportivi’ della classe negli interstizi della lezione ufficiale, ma anche – questo sorprenderà forse di più – come strumento educativo.

Riuscire a far ammettere, ragionando, all’allievo fanatico della squadra x che il rigore concesso a suo sfavore era giusto; o a far riconoscere, argomentando, che la squadra x ha perso meritatamente, non per sfortuna o per ostilità arbitrale, ma perché meno in forma, meno attrezzata tatticamente degli avversari ecc.; insomma: porre un ragazzo – che altrimenti giudicherebbe un fatto sportivo solo secondo i dettami di una cieca e irrazionale parzialità – di fronte al dovere e alla fatica di esercitare quanto più oggettivamente possibile il suo giudizio critico è un potentissimo propulsore di crescita, una leva formidabile di emancipazione della ragione dall’istinto, del logos dal mythos. Altro che divagazione ricreativa negli intervalli della lezione!

Nel mio caso di insegnante di greco, per altro, parlare di sport ha significato spesso riferirsi ad uno degli aspetti fondanti della civiltà classica: la civiltà che di fatto ha inventato lo sport agonistico nel senso moderno del termine, come specchio e surrogato ludico, pacifico e incruento di una competizione violenta, feroce, sanguinaria che devastava continuamente con il polemos e la stasis – la guerra esterna e quella interna – la società delle poleis.

I Greci antichi erano d’altra parte così assetati di competizione e di vittoria (nella vita come nello sport) da dover giocoforza sviluppare sin dagli inizi una pensosa, tormentata riflessione sulla sconfitta. Perché vittoria e sconfitta sono la stessa cosa, come la salita e la discesa di Eraclito: dipende solo da che parte la si guarda. Se si cerca ardentemente la prima, si deve frequentemente scontare la seconda. Ragionare sulla sconfitta, partendo da una partita di calcio per arrivare agli antichi greci, è stato per me un’altra intrigante e frequente occasione educativa: l’occasione di disinnescare lo spirito fazioso e tribale che si annida dietro il fenomeno del tifo sportivo per promuovere al suo posto una riflessione più sana e civile intorno alla competizione: che è gioco delle parti, coscienza dei propri limiti e della instabilità del successo, rispetto delle regole e degli avversari.

Ultimamente poi l’introduzione nei campi da gioco di quello strumento di giudizio che viene chiamato VAR (la moviola in campo), mi ha offerto più di una volta lo spunto per riflettere in classe su di un altro problema capitale della conoscenza umana. Sì, perché il VAR è un marchingegno tecnologico introdotto per eliminare gli errori arbitrali, passare al setaccio di una analisi visiva meticolosissima vari episodi di difficile valutazione oggettiva per un arbitro (rigori, espulsioni, fuorigioco). Ebbene il paradosso è che quegli errori sono stati sì in gran parte ridotti dal Var, ma non eliminati. Si sbaglia ancora a interpretare un fatto, nonostante lo si guardi con l’occhio – apparentemente infallibile – della tecnologia. Per quanto questa tecnologia possa spostare in alto l’asticella della nostra capacità di valutare oggettivamente la realtà, la realtà ci sfuggirà sempre. Ci avvicineremo senza mai raggiungerla. Come Achille alla tartaruga.

Il problema della ‘oggettività impossibile’ lo si affronta spesso in classe, anche insegnando le mie materie, in vari modi e con vari esempi. Uno su tutti la narrazione dei fatti storici nelle pagine degli storiografi antichi. Ma Cesare e Senofonte, devo ammetterlo, non mi sono stati così utili – per far passare immediatamente il concetto – come il VAR.

 

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Nego nel modo più reciso che le macchine (anche le più evolute) possano educare una persona, tantomeno valutarne la maturità. Possono aiutare gli educatori, possono in parte o in tutto sostituirli nell’addestrare tecnicamente qualcuno, ma non nel formare e nell’educare, tantomeno nel giudicare i frutti di quella educazione e di quella formazione. Perché l’educazione è il prodotto di una relazione umana. Solo umana. Non surrogabile da attori o strumenti diversi dagli esseri umani. Anche una prova di valutazione generale e sommativa quale dovrebbe essere l’esame di maturità è condotta da esseri umani, docenti e alunni. Per quanto si incontrino per un breve periodo, in un contesto particolarmente formale, insegnanti e ragazzi della maturità si incontrano, in quel momento, anzitutto come persone. Come tali si relazionano, sperimentano utilmente gli uni degli altri la correttezza, la lealtà, il rigore, la flessibilità, la cordialità, la serietà, la caratura intellettuale, persino la simpatia e l’antipatia reciproca.

Pare che tutto questo sfugga sempre più ai tecnocrati del ministero dell’istruzione. Pare per esempio che l’orale del nuovo esame di maturità debba essere un mega-test, un quizzone, dove persino il momento per me fondamentale della interazione intellettuale, dialettica ed emotiva tra educatore ed educando che sono i colloqui orali, sarà spersonalizzato e banalizzato. Pare che il nuovo orale si baserà sulla scelta di tre buste contenenti ciascuna una serie prestabilita di domande legate da un qualche file rouge tematico, su di una interrogazione pre-scritta insomma, prevedibilmente nozionistica, ma soprattutto sottratta alla estemporaneità socratica del confronto tra docente e allievo che è un confronto vivo di persone, un dibattito tanto più fruttuoso quanto meno prevedibile nei suoi sviluppi. Un colloquio orale che si rispetti, a mio avviso, si sa da dove parte, ma non proprio dove possa arrivare. Anche da questa im-programmabile libertà di sviluppo si misura la bravura e la maturità dell’esaminando (oltre che quella dell’esaminatore).

No invece: nel nome di una presunta oggettività di trattamento e di misurazione bisogna seguire un binario obbligato, un binario preordinato, un binario morto.

Credo che anche questo nuovo monstrum della maturità discenda dalla imperante concezione tecnocratica dell’istruzione che regna ormai nelle stanze della Minerva. La sua origine (anglosassone) la conosciamo bene. Ma da noi arrivano sempre le caricature e i cascami, il peggio del peggio, ahinoi. Cambiano i governi, ma non cambia l’apparato, il fantomatico Komintern anonimo o dai nomi astrusi (Invalsi, Indire ecc.) che partorisce e impone, da un governo all’altro, da un lustro all’altro, i frutti più deformi della propria malata (ed asservita ai soliti poteri) subcultura pedagogica.

Pareva che l’abolizione della famigerata tesina preludesse a un qualche tardivo ma beneaugurante rinsavimento, discendesse da una inaspettata ma benvenuta iniezione di buon senso. Invece no. Ecco la seconda prova, che per supplire all’abolizione della terza (che non era certo da buttar via, per la sua aderenza ai programmi effettivamente svolti e per l’esercizio di puntualità e di sintesi che richiedeva) pasticcia insieme un paio di materie con pretesa (teorica) ambiziosa di interdisciplinarità ed effetto (pratico) probabilissimo di confusione e di disorientamento (al classico non si traduce più un testo di versione: anzi sì, si traduce ancora, ma un pezzo più corto di latino o di greco, o forse un po` di latino e un po’ di greco; ma poi si aggiungono delle domande di comprensione del testo e di commento storico-letterario, come se uno, dopo aver tradotto male o addirittura frainteso un passo di Cicerone, possa poi interpretarlo e commentarlo bene…).

E poi, tornando a noi, ecco l’orale: prima l’esposizione della esperienza della ASL, cioè dell’Alternanza Scuola Lavoro (notoriamente magnifica e indimenticabile per i liceali…), poi l’estrazione delle buste (uno, due, tre) di cui sopra.

Diciamolo: per quello che vale ormai questo pezzo di carta nel mondo del lavoro o nel proseguimento degli studi universitari, mantenere a tutti i costi e a questo prezzo l’esame di maturità è non solo insensato, ma altamente nocivo. Deleterio cioè per insegnanti ed alunni, perché la distorta impostazione della prova finale obbliga purtroppo i primi come i secondi ad adeguarsi durante tutto il corso degli studi agli sciagurati pseudo-principi didattico-docimologici cui l’esame è ispirato. Cambiare continuamente (come sta avvenendo da anni) il tetto della scuola richiede infatti, per evitare crolli e dissesti, che si ristrutturino alla bell’e peggio e contro ogni regola dell’arte anche i muri portanti e le fondamenta. Mi si perdoni la metafora architettonica, che è tirata (è il caso di dire) con gli argani, ma penso che renda, meglio di ogni considerazione, il succo amaro di questa deprimente storia.

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È pratica oggigiorno onnipervasiva e lecita e illimitata (nel senso che non conosce limiti di legge o di censura sociale tranne quelli che un soggetto culturalmente forte e psicologicamente maturo può con fatica porre a se stesso) quella che in civiltà antiche veniva ritenuta una gravissima colpa e come tale perseguita: la corruzione morale, specialmente se rivolta ai più giovani. Per corruzione morale intendo l´esatto opposto dell´educazione morale. Dove quest´ultima cerca di incanalare e contenere gli istinti e le pulsioni secondo una misura e in una direzione che giovi all´individuo, ne promuova la personalità in sé ed in relazione alla società in cui quello vive o si prepara a vivere, la corruzione persegue invece l´obiettivo contrario: quello di assecondare e stimolare all´infinito quegli istinti e quelle pulsioni individuali primitive in maniera da indurre, pervertire o ingigantire comportamenti e desideri che giovino esclusivamente agli interessi dei corruttori. Il punto di differenza tra la nostra epoca e le più antiche è che in quelle i singoli colpevoli di corruzione (spesso presunti, come Socrate) avevano un volto e un nome ben identificabile, mentre oggi non più. Chi è infatti, adesso, che inonda tutti i giorni, ogni momento del giorno, sul display del mio cellulare, notizie ed annesse pubblicità sul calcio, la scuola, la pensione, il meteo ecc. solo perché statisticamente risulta al portale che il sottoscritto cerca un po’ di più su Google notizie di quel tipo? Ho provato a digitare più di una volta altre parole ed altri contenuti culturalmente più nobili, evidentemente meno appetiti ed appetibili dalla massa dei fruitori di quel portale, ma non ne è sortito nulla di nuovo: ancora calcio, meteo, scuola, pensione… fino alla nausea. Questa è corruzione bella e buona, sistematica, infallibile, figlia di algoritmi e di altre diavolerie del marketing on line. La distopia realizzata su scala planetaria, mutatis mutandis e con la nostra complicità, del Grande Fratello orwelliano. Un sedicenne che digiti (come ne vedo fare tantissimi), che so io, cartoni, videogiochi o divi da cronaca rosa sarà scientificamente inondato h24 da notizie, spesso desunte da fonti di scadente levatura giornalistica, unicamente di quel tipo. Non gli sarà aperta (ciò che invece fa la vera educazione) nessuna porta nuova, né indicata una strada diversa. Lo si farà girare in cerchio fino alla compulsione, facile ma patologica, attorno all´ombelico dei suoi desideri (indotti o spontanei che siano) senza mai indurlo a faticare per tentare nuovi percorsi o avvistare nuovi orizzonti. Così succede (come mi è capitato di vedere davanti al palazzo dei consoli a Gubbio) che giovanissimi turisti di fronte a un bellissimo monumento di una nostra città d’arte stiano fissi a testa bassa ognuno sul proprio telefonino a navigare e a chattare, sordi alle spiegazioni della guida. È facile capire come contro questi meccanismi corruttivi la battaglia dell’educazione (familiare e scolastica) sia perduta in partenza, perché educazione è etimologicamente elevarsi con fatica e con un irrinunciabile dose di sacrificio e di rinuncia sopra di sé, sopra le proprie abitudini e i propri impulsi primari, non ripiegarsi in questa coazione a ripetere – autistica e direi quasi autoerotica – su di essi. Vige in questa compulsione indotta dal mezzo elettronico un principio adulterato del piacere che, replicandosi all’infinito, divora o smarrisce se stesso. Il vecchio Epicuro parlerebbe di piacere innaturale e non necessario e perciò controproducente. Un piacere primario stimolato  all’infinito e perciò snaturato. L’esatto contrario del sereno e maturo e pieno godimento della vita.

Non so perché queste riflessioni mi fanno venire in mente una scena, per me raccapricciante, cui ho assistito di recente in un parco giochi di una capitale del Nord Europa. I visitatori gettavano in continuazione ai pesci di uno stagno artificiale piccole esche di cibo che si potevano acquistare a pochi centesimi da macchinette erogatrici a gettone. Ebbene ho ancora davanti agli occhi le mille bocche mostruosamente spalancate di quei pesci. Erano pesci piccoli e grandi, scuri e colorati, ma io vedevo soltanto le loro bocche frementi, enormi e insaziabili a pelo dell’acqua. Nient’altro. Una calca ribollente di bocche stipate e schierate nell’attesa spasmodica di intercettare la pastura che veniva loro continuamente gettata. Questa è, per immagine, la corruzione di cui parlavo sopra.

Curioso ma non sorprendente che gli antichi Greci (sprovvisti di tecnologie mediatiche paragonabili alle nostre, ma ben abituati alla demagogia politica) avessero già dei termini molto pregnanti e adatti a definirla: charìzesthai / pròs chàrin. Ovvero: agire o parlare per compiacere interessatamente agli altri e indurli così a fare ciò che è nell’interesse del persuasore, non certo nel loro.

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Doppio danno riceve la pecora che si traveste e si atteggia da lupo: la diffidenza (e/o l’ostilità) delle pecore ed il disprezzo (e/o l’irrisione) dei lupi. 

Chi ti ammira e ti apprezza non ti adula, mai. Chi ti adula, nel migliore e più frequente dei casi sta cercando di usarti. Nel peggiore ti disprezza o ti invidia, mortalmente.

Non c’è persona più spiacevole di quella che vuole a tutti i costi piacere.

Sincerità: tra tutte le virtù la più nociva.

Essere (venire) educati significa in fondo rassegnarsi poco a poco a fare, soltanto o soprattutto, la volontà altrui.

Ancor di più che quello tra genitori e figli, il rapporto tra il maestro e l’allievo è, di norma, cosa quanto mai fragile ed esposta a proiezioni e a fraintendimenti: a (rare) infatuazioni e a idealizzazioni da un lato; dall’altro a (più frequenti) scambi di persona, a rancori immotivati, a risentimenti inespressi o a cocenti delusioni. Tutto questo perché maestro e allievo sono l’uno per l’altro – come, ma più che in altre relazioni umane – fondamentalmente estranei e sconosciuti. Illusoriamente familiari sono soltanto i fantasmi (ovvero i personaggi) che ciascuno crea di sé per l’altro e/o si crea dell’altro nel tempo e nel luogo (circoscritti, fittizi, teatrali) che condividono.

 

 

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Una volta una classe (una buona classe liceale) era in subbuglio perché contestava le ‘interrogazioni’: dicevano che noi prof facevamo domande diverse e affrontavamo argomenti diversi da un alunno all’altro; e che pertanto le valutazioni dell’orale non erano eque. Mancavano – secondo loro – della dovuta ‘oggettività’. Proponevano quindi di uniformarle, le interrogazioni: bisognava o porre a tutti le stesse domande o porne quantomeno di esattamente equivalenti. Se no, tanto valeva – secondo loro – abolire gli orali e sostituirli integralmente (come avviene in certe scuole e università straniere) con test scritti, magari ‘a crocetta’. Mi sembrò subito che i ragazzi non fossero semplicemente spinti, nell’avanzare queste richieste, dal legittimo desiderio di una valutazione equanime. Erano piuttosto stregati dal feticcio del voto. Parlavano quindi in preda alla sindrome, oramai pandemica, della valutazione cosiddetta ‘scientifica’: quella che pretende dal prof una capacità di misurazione esatta, millimetrica, infallibile della performance dell’allievo. Un’utopia, secondo me, ovvero un delirio tecnocratico rovinoso. Quello che induce tanti di noi insegnanti (preoccupati di saziare le richieste sempre più pretenziose della cosiddetta ‘utenza’) a spendere il tempo nell’elaborazione di astruse e cervellotiche ‘griglie’ valutative più che nella lettura di buoni libri e nella proficua preparazione delle lezioni.

Rimasi lì per lì un po’ stupito di quelle proteste. Abolire gli orali! Sostituirli del tutto con freddi quiz da test computerizzato, senz’anima, senza dibattito, senza più quel cerchio virtuoso che si crea nel duello verbale tra maestro e allievo, quel dialogo pubblico che il Socrate platonico aveva eletto a strumento privilegiato dell’Educazione, non proprio della valutazione; tanto meno della misurazione! Ecco quello che secondo me sfuggiva ai ragazzi: che la cosiddetta interrogazione, se ben condotta, non ha affatto come scopo principale la trascrizione di un numero sul registro, ma il confronto, la precisazione, la correzione, la trasformazione, l’arricchimento delle idee intorno ad un argomento. L’interrogazione così concepita è (dovrebbe essere) un momento formativo per tutti, non uno strumento meramente valutativo per ciascuno. Se così è, allora non importa tanto l’argomento in sé, quanto il metodo (logicamente e linguisticamente rigoroso) secondo il quale quel duello verbale si svolge e soprattutto dove (a quali deduzioni o ipotesi ulteriori) ci conduce. Così intesa e praticata la tradizionale ‘interrogazione’ sarà pure soggetta quanto si vuole a una valutazione finale relativamente intuitiva o discrezionale da parte del docente, ma ha un valore educativo insostituibile. È, si parva licet…, la nostra piccola maieutica quotidiana.

Non ci rinuncerei facilmente solo per tacitare malintese richieste di oggettività, tanto meno per seguire docimologie esterofile alla moda. Non scambierei mai il vecchio Socrate con un robot didattico dell’ultima generazione…

[PS: forse il ministero non la pensa proprio come me (vedi p.e.: http://www.scuoladirobotica.it/it/download.html?f=CorsiLaboratori_pdf&d=13&c=e1517631ff50cf6fb843b27c373dd37ba606b5db) e non me ne meraviglio affatto; ma poi bisogna vedere di che robot vogliamo parlare e soprattutto come e perché li vogliamo usare]

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Leggo qua e là che diversi miei colleghi (tra loro il mio amico Massimo Rossi (https://profrossi.wordpress.com/2016/04/30/la-buona-scuola-si-sta-rivelando-un-fallimento/) riconoscono solo adesso i disastri che la legge 107 (la cosiddetta Buona scuola) sta infliggendo alla nostra scuola. Meglio tardi che mai, ovviamente. Ma non erano disastri difficili da prevedere. Già un servizio televisivo di Riccardo Iacona lo aveva a suo tempo ben previsto e dimostrato more geometrico (http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-b2f6d908-a308-4af1-a2f5-78c6812d86f7.html). E le aperture di credito erano davvero male indirizzate. Un conto è infatti la prudente astensione da giudizi prematuri, un conto l’ingenuità di fronte al costante, evidente accanimento contro la scuola dei marpioni della nostra politica.

Vediamo come stanno le cose almeno su tre punti fondamentali:

1) Il bonus per i ‘meritevoli’: come pensare che avrebbe potuto essere applicato virtuosamente? In una scuola che, di fronte a tagli massicci di fondi aggiuntivi di istituto, non ha mai minimamente rinunciato (più per amore che per forza) alla miriade di attività extra più e meno utili, è ovvio che si cerchi in qualche modo di dirottare i soldi del bonus sui prof che continuano a fare quelle attività. Se si fatica (anche in qualcosa di inessenziale) bisogna giustamente essere ricompensati. A poco serve lamentarsi che così si tradisce lo spirito meritocratico della legge. Sono il primo a dire (e da sempre lo dico) che la qualità del lavoro in classe vale molto, molto di più dell’impegno in tremila attività promozionali, organizzative o integrative. Ma intanto bisognerebbe capire (e io ci ho rinunciato) come si fa a valutare bene la qualità del lavoro in classe senza cadere in pericolosi arbitri. E poi se i fondi aggiuntivi per quelle attività extra non ci sono più, giocoforza bisognerà impropriamente attingere a quelli stanziati per il bonus. È una scelta obbligata dalle misure studiatamente contraddittorie del governo oltre che dalla tendenza persistente e insopprimibile della scuola ‘autonoma’ a spendere per autopromuoversi.

2) L’alternanza scuola-lavoro (ASL): per i licei è un massacro; un sacrificio cruento consumato sull’altare delle pretese di banche e confindustria. Da sempre queste ultime reclamano da governi loro amici riforme scolastiche che catechizzino gli studenti alla dottrina aziendalistica e investano su di una formazione puramente tecnicistica e funzionale ai soli loro interessi. Adesso con la nuova legge hanno ottenuto che studenti di liceo (ragazzi destinati cioè a lunghi e teorici studi universitari) perdano – tra il terzo e il quarto anno – 200 (duecento!) ore del loro studio curricolare (scolastico e domestico) per seguire progetti sulla storia e l’attualità dell’industria, dell’artigianato ecc. oltre che per fare degli stage in varie aziende. Contemporaneamente il ministro annuncia proprio in questi giorni che le scuole rimarranno aperte anche d’estate per ospitare attività alternative e ricreative (leggi: per l’assistenza di minorenni che creerebbero problemi ai genitori); tutto questo significa che la scuola come istruzione e formazione è un organismo destinato, per l’effetto concentrico di questi interventi dissennati che durano da decenni, a una morte imminente, devastato ormai com’è dalla metastasi di quella che io chiamo l’Antiscuola: vale a dire da tutte quelle attività create ad hoc per paralizzarla dall’interno e dall’esterno, impedendole di funzionare fisiologicamente.

3) gli insegnanti assunti per il potenziamento: pareva all’inizio una benedizione per i più anziani avere accanto dei giovani entusiasti ed energici che potessero assumersi parte delle classi troppo numerose, attività sensate di recupero e di integrazione, supplenze… Invece alcuni di loro non sono per niente distribuiti né utilizzati come si dovrebbe: spesso sono parcheggiati in sala insegnanti ad aspettare di sostituire qualcuno assente; pare – a quanto mi risulta – che non possano per legge neanche avere supplenze lunghe nell’istituto cui sono stati assegnati (alla faccia del principio tanto sbandierato dal governo del superamento del precariato!); il prossimo anno saranno in gran parte spostati in altra sede, dove cioè si libereranno cattedre. Perché – diciamocela chiara – questa assunzione straordinaria è stata una ennesima operazione elettorale oltre che un debito assolto una tantum verso le normative europee sul precariato: tutti questi insegnanti più giovani (in realtà molti di loro sono quarantenni e insegnano già da anni come precari) saranno tutti riassorbiti – come è giusto – entro due o tre anni nei ruoli e l’organico del potenziamento si dileguerà. Ma di qui a una decina d’anni almeno i giovani neolaureati che entreranno per concorso nella scuola saranno rari come mosche bianche. D’altro canto già adesso la media anagrafica degli insegnanti di ruolo supera abbondantemente il mezzo secolo…

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L’educazione sentimentale (l’abituarsi cioè a ragionare intorno ai nostri istinti, sentimenti, emozioni, passioni: vale a dire intorno al nostro irrazionale) è componente fondamentale nella formazione degli individui. Per quanto la razionalità sia infatti la parte distintiva della specie umana, tuttavia questa parte (dopo millenni di civiltà) non è ancora – né mai lo sarà – quella che i Greci chiamavano l’egemonico. Essa è al contrario pericolosamente esposta, oggi più che in passato, alla sopraffazione e al dominio dell’irrazionale, specie quando quest’ultimo sia scientificamente e spudoratamente solleticato dall’ esterno da abili manipolatori della libido. E questo compito dell’educazione sentimentale – piaccia o no ai trionfanti profeti della istruzione tecnocratica – rimane principalmente affidato alla lettura e alla meditazione della grande letteratura, di tutti i tempi e di tutti i paesi.

Capita talora a quanti educano gli adolescenti di sentirsi malamente sconfitti. Di assistere, per esempio, impotenti a quella che chiamerei la sfioritura dell’innocenza: di osservare cioè la spontaneità, la sincerità, la ingenuità, la fiducia infantile e preadolescenziale volgersi e deformarsi, da un mese all’altro e da un anno all’altro, in malizia, doppiezza, malevolenza, calcolo interessato. In questa malinconica metamorfosi, in questo tralignare del fiore sano in un frutto bacato purtroppo si riduce e si esaurisce, per alcuni ragazzi almeno, il naturale e necessario passaggio dalla pubertà all’età adulta. Non in tutti e non in molti, per fortuna.

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È il mio mestiere parlare di lingue morte, civiltà antiche, personaggi remoti nel tempo. Proprio per questo la fauna residua dei prof di latino e greco è guardata sempre più con un mix di fastidio, di sospetto e di malevola curiosità sia dalla politica sia dall’opinione pubblica, e da molte parti si auspica continuamente – in modi più e meno scoperti – la morte per soppressione o per asfissia del liceo classico. Io non faccio, beninteso, il difensore d’ufficio di questo tipo di scuola. Non dico che vi si insegnano cose più importanti e formative che altrove. So bene che in molti altri paesi moderni il latino, il greco, la storia antica ecc. sono discipline facoltative nella scuola superiore, scelte da pochissimi che poi faranno studi umanistici all’università. So bene che rendere opzionali queste materie favorirebbe non poco la qualità didattica e la gratificazione di noi docenti così come degli alunni che scegliessero di studiarle. So bene che molti che si iscrivono oggi al liceo classico perché attratti – magari – dalla sua ancora nobile etichetta o – peggio – dall’illusione che vi si studino in maniera più blanda e leggera le matematiche e la fisica, si trovano poi spaesati e arrancano di fronte alle difficoltà della grammatica delle lingue antiche. Eppure chiudere il liceo classico – anziché magari riformarlo e aggiornarlo intelligentemente, senza snaturarlo –  sarebbe comunque un errore.

Significherebbe infatti, in primo luogo, in una nazione come la nostra (carica più delle altre di un retaggio greco-romano tanto ricco ed evidente da offrire possibilità enormi di sviluppo e di investimento nel settore del turismo dei beni culturali) calpestare un passato su cui potremmo costruire – anche economicamente – il nostro futuro. Ma fin qui adduco forse un argomento scontato e inutile, perché da sempre ignorato dalla politica.

Ma la chiusura del liceo classico comporterebbe un secondo e ancora più nefasto effetto: farebbe totalmente sparire – nella istruzione dei giovani – autori e testi antichi senza i quali io non riesco neppure a concepire una piena e completa educazione moderna: come si fa in effetti a capire bene, non dico la letteratura, ma la realtà e la cultura che ci circonda oggi senza conoscere minimamente (mi limito ad una selezione di nomi irrinunciabili oltre Omero e la grande filosofia greca) alcuni grandi di ieri ? Esiodo – intendo -, i lirici greci, la tragedia greca, Aristofane, Tucidide, l’anonimo del Sublime, Luciano e (fra i latini) almeno Sallustio, Lucrezio, Catullo, Virgilio, Orazio, Seneca, Tacito. Alcuni di questi autori sono insostituibili fondamenti della formazione sentimentale, etica ed estetica di una persona; altri, se proposti nel modo giusto, diventano – udite, udite! – le basi della sua educazione civica e politica. A mio avviso, infatti, studiando a fondo Esiodo, Tucidide, Sallustio e Tacito si possono capire valori, dinamiche e meccanismi della società e del potere attuali meglio, molto meglio che non disperdendosi nella lettura dei giornali italiani imbrattati dalle chiacchiere pretenziose e tendenziose di molti, troppi pennivendoli nostrani.

La rubrica attualità dell’antico che curo in questo blog credo sia sufficiente a dimostrarlo con diversi esempi concreti.

Personalmente osservo con penoso sconforto – in tanti nostri intellettuali veri e presunti che si esibiscono nei media – l’assenza clamorosa di un retroterra di studi classici. Storici che fanno risalire la Realpolitik a Machiavelli ignorando completamente Tucidide; critici del neoliberismo che ignorano l’Esiodo de Le opere e i giorni; pensatori sedicenti laici che non hanno letto una riga del De rerum natura

D’altro canto abbiamo politici ‘nuovisti’ e ‘giovanilisti’ che non sanno utilizzare altro che slogan pubblicitari, metafore calcistiche e un po’ di mal masticato e risibile inglesorum.

E sono proprio gli stessi che lavorano, più e meno apertamente, all’abolizione del liceo classico.

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