Feeds:
Articoli
Commenti

Posts Tagged ‘libertà’

culto di iustitia - temi

B.B. non c’è più. Beppe Broccia, il prof Giuseppe Broccia, è scomparso qualche giorno fa. Forse lui, che non amava le parole di circostanza, non avrebbe gradito che un suo ex allievo ne avesse scritto post mortem un ricordo. Ma io ne sento comunque il dovere.  B.B. (così lui si firmava) è stato per me un maestro di primissimo ordine, benché l’università in cui l’ho incontrato fosse un piccolo ateneo di provincia. Piccoli luoghi per grandi incontri. Certo si è trattato di un colpo di fortuna, ma che questo sia capitato in una piccola università non stupisce. Perché in un ambiente accademico ristretto, negli anni Settanta, era ancora possibile sia trovare docenti di rango, sia stringere con loro rapporti didattici e umani oggi impensabili. Del mestiere di filologo classico B.B. mi ha insegnato tutto: la pazienza, l’accuratezza, la concretezza, la diffidenza verso le mode culturali. Egli è stato soprattutto un maestro impareggiabile del metodo. Il metodo è una parola greca che significa la via, la strada che si percorre per inseguire e raggiungere qualcosa o qualcuno, La virtù più grande (ma non certo l’unica) di B.B. è stata proprio quella di educare alla metodologia rigorosa della ricerca menti già iniziate da altri all’amore dello studio e della cultura. B.B. non era un comune insegnante universitario: era, a suo particolare modo, uno scienziato o un detective, anche se si occupava di lingua e di letteratura del mondo classico. Un bravo insegnante che abbia anche la stoffa del grande ricercatore trasmette ai suoi studenti un dono prezioso che trascende di gran lunga la materia specifica che insegna. Mentre tiene uno splendido corso su Ovidio egli insegna nel contempo, senza volerlo, a leggere e a comprendere – con lo stesso acume, la stessa profondità e la stessa onestà intellettuale – anche Shakespeare o Foscolo o, semplicemente, un articolo di giornale o, ancora di più, il mondo stesso. Fu così che B.B., durante i miei anni universitari, integrò e completò al meglio quanto avevo assimilato nei miei studi liceali. Fu grazie a lui che divenni intellettualmente una persona adulta.

E tuttavia B.B. non mi ha insegnato soltanto questo. A tutte le sue qualità professionali, infatti, egli affiancava anche un lodevole ‘difetto’ caratteriale, poco compatibile con il mondo universitario in cui lavorava: una rara dirittura morale. Era uno straordinario uomo di scienza, latinista e grecista originale, apprezzato più all’estero che in Italia (il che è molto significativo), eppure non volle mai partecipare, in nessuna misura, del potere feudale della nostra accademia.  Anzi: la sua indole fierissima di battitore libero e indipendente lo poneva spesso e volentieri in guerra aperta e senza quartiere coi signori del castello. Se solo una parte dei docenti universitari di casa nostra avesse mai seguito il suo esempio professionale, i suoi principii etici, il suo stile, la nostra università sarebbe da tempo guarita dai molti mali che da sempre la affliggono. B.B. invece ha voluto e dovuto contrastare da eroe solitario le tante storture del sistema baronale nostrano. Non so se e quanto sia riuscito a vincere la sua guerra personale, ma certo l’ha combattuta, fino all’ultimo giorno in cui è stato in cattedra, con un coraggio ed una coerenza ammirevoli. Ci ha in questo modo insegnato che la libertà, la dignità e il rispetto della giustizia (la Dike esiodea) – anche in un contesto del tutto ostile – non hanno prezzo: è questa, credo, l’eredità più grande e impegnativa che, sul piano umano e morale, lascia a me come a tutti i suoi ex allievi che insegnano oggi dispersi in vari licei delle Marche e non solo. Una lezione indimenticabile. Unica.

Tibi sit terra levis, magister.

Read Full Post »

Chi si salverà dal logorio della pubblicità invadente, fracassona e  politically correct di oggi? - Atlantico Quotidiano, Atlantico Quotidiano

Sbaragliate senza fatica tutte le altre religioni, la pubblicità è diventata il nuovo oppio delle masse. [pensiero giocato, oltre che sulla ripresa del noto motto marxiano, sulla identificazione tra religione e pubblicità]

La vera minaccia e la più impudente offesa alla nostra libertà sono le energie che oggigiorno siamo condannati a spendere inutilmente per difenderci dall’impunibile invadenza, sotto qualsiasi forma, della pubblicità. [pensiero più discorsivo, attualizzante ma fondato su di una polemica implicita verso una diversa concezione della libertà rispetto a quella dell’autore]

Chiedo scusa: mi piacerebbe incontrarmi e intrattenermi con qualcuno che non voglia vendermi qualcosa: è ancora possibile? [adagio, diciamo così, drammatizzato, discorsivo, travestito da battuta interrogativa rivolta a un interlocutore virtuale, in una situazione non ben precisata]

Come a frequentar preti si può perdere la fede, così a frequentar medici si perde la fiducia nella medicina.[adagio giocato su una similitudine imperfetta]

La politica è la continuazione degli affari con altri mezzi. [parodia o calco fraseologico di altro adagio famoso]

La civiltà è una bella torta: ce la siamo cucinata con pazienza per divorarcela in fretta. [adagio fondato su metafore]

Read Full Post »

Costruire il futuro 2017/2018 | Cos'è la Scienza? Come progredisce? |  19.12.2017 | Fondazione per la Scuola

Scrivevo in un post di alcuni anni fa che negli ultimi decenni il senso della parola libertà è profondamente cambiato in peggio. Si è snaturato. Nel novecento infatti, dopo le esperienze tragiche dei totalitarismi, nel linguaggio politico e sociale libertà significava soprattutto la condizione di chi non è schiavo né assoggettato a qualsiasi dominio prevaricatore o dispotico. Già nell’Italia degli ultimi venticinque anni, tuttavia, lo stesso termine ha cominciato a campeggiare sui vessilli e nella propaganda di vari partiti politici nel più ambiguo significato di licenza, arbitrio, diritto di fare ciò che si vuole a dispetto del bene collettivo e del rispetto della legalità. Ora la pandemia ha fatto il resto. Come succede spesso nelle situazioni di grave emergenza, il covid ha portato inequivocabilmente in superficie (nei media e nelle piazze) il fondo semantico nuovo ed impuro che si nascondeva sotto la vecchia e nobile etichetta verbale.

Non è difficile capire, per altro, che cosa abbia provocato la mutazione semantica del termine. La nuova libertà è figlia della società dei consumi e dell’individualismo edonistico sfrenato generato prima dal boom economico degli anni sessanta e nutrito poi dal liberismo ideologico trionfante degli anni ottanta e novanta: quello – per capirci – che ha trascinato il pianeta verso tutte le catastrofi (economica, ecologica, sanitaria) che incombono oggi sul nostro immediato futuro.

Colpisce tuttavia (ma non stupisce) che i crociati di questa nuova libertà rappresentino ancora, sopra i loro scudi e sui loro stendardi, il nuovo idolo secondo la vecchia e più rispettabile immagine originaria. Dichiarano infatti per lo più che la libertà che idolatrano è un valore prezioso minacciato da un qualche oscuro disegno totalitario: una sorta di complotto (?!) politico-plutocratico insomma che, con la scusa di difendere la gente dal virus, vorrebbe imporre a tutti il guinzaglio di regole e di divieti liberticidi.

Ora è chiaro come il sole che questa difesa a spada tratta della libertà (intesa come licenza di continuare a vivere beatamente spaparazzati dentro l’occhio del ciclone di una tragedia immane) riposa sopra una gigantesca rimozione dei limiti insuperabili della condizione umana. Limiti che la corruzione edonistico-consumistica degli ultimi decenni hanno reso ormai impercettibili e perciò inaccettabili alla coscienza di molti individui.

È chiaro altresì come questi strenui fautori della libertà/licenza abbiano razionalizzato, rimuovendola e nobilitandola in ideologia antiscientifica inscalfibile, la propria difficoltà psicologica di accettare il principio di realtà e di affrontare e di elaborare da persone adulte la paura della privazione, della sofferenza e della morte.

È chiaro anche e più che comprensibile che a questi oltranzisti del principio del piacere guardino con interesse e simpatia, oltre che le solite forze politiche di cui sopra, anche numerose categorie sociali concretamente e talora duramente danneggiate dal virus sul piano economico

Non riesco invece, proprio per nulla, a comprendere come tra i simpatizzanti o addirittura tra i fiancheggiatori di questi irriducibili possano esserci insegnanti e dirigenti della scuola pubblica. Perché pare proprio, ahinoi, che ce ne sia qualcuno in giro. Pochissimi, per fortuna – almeno a quanto mi risulta. Ma pur sempre troppi, a mio avviso. Un insegnante e, ancora peggio (vista la sua posizione dirigenziale), un preside non possono infatti in nome di questa strana e malintesa libertà negare l’autorevolezza e il primato della scienza. Parlo della Scienza autentica (perciò ufficiale), quella galileiana, per intenderci a scanso di equivoci. Non possono negarli, perché chi insegna e chi dirige la scuola ha tra i suoi compiti deontologici primari quello di preparare i giovani a diventare uomini e cittadini adulti. Di emanciparli cioè in maniera critica da quella condizione di sudditanza agli istinti, al pressapochismo culturale, alla seduzione delle mode, della pubblicità e delle ideologie che la società attuale, attraverso mille canali, esercita su di loro. Chi insegna e chi dirige la scuola di questi tempi ha insomma il compito ingrato di immunizzare i giovani dai molti rischi della massificazione. E io non vedo (pur essendo un letterato) come oggi la scuola possa riuscire in questo compito senza affidarsi principalmente alla scienza e al suo  metodo.

La scienza galileiana svolge il ruolo principale in questa educazione, proprio perché insegna a distinguere la sfera dell’opinabile da quella dello scibile: quella sfera nella quale qualcosa si può affermare solo sulla base di una esperienza riproducibile e di una rigorosa dimostrazione. Un qualcosa cioè che non può essere confutato da nessuna idea opinabile ma soltanto da un’altra esperienza e dimostrazione contraria altrettanto riproducibile e rigorosa. Un metodo che vale per le varie scienze matematiche e naturali, ma che dovrebbe, per quanto possibile, essere applicato anche nelle varie discipline umanistiche, se non si vuole insegnarle in maniera dilettantesca.

Perché questo è il guaio della nostra epoca: il primato schiacciante, multiforme e pervasivo del marketing ha prodotto il trionfo totale di una nuova sofistica: il dominio cioè della persuasione, della chiacchiera e del vacuo debate a scapito della vera conoscenza.

Ma già gli antichi sapevano che tra opinione e verità scientifica c’è un abisso.

Dovrebbero saperlo ed accettarlo anche tutti quanti gli insegnanti e i dirigenti della nostra scuola pubblica se vogliono continuare a esercitare legittimamente il proprio mestiere.

[ NB: Qualche doverosa puntualizzazione aggiuntiva:

1) è chiaro che bisogna distinguere tra conoscenze scientifiche e le conseguenti applicazioni operative adottate da governi e amministrazioni varie: queste ultime sono ovviamente discutibili da molti punti di vista, soggette perciò al libero dibattito politico.

2) Se la scienza in sé è neutra e non opinabile non si può dire sempre la stessa cosa degli scienziati, purtroppo. Ma per distinguere gli scienziati affidabili da quelli disonesti non serve essere a propria volta scienziati, bensì essere solidamente formati – dalla scuola in primis – a una mentalità (cioè a un modo di ragionare e di valutare) altrettanto scientifica.

3) La scienza può diventare strumento di poteri dispotici solo quando le sue conoscenze restano nelle mani di pochi potenti che possono sfruttarle a loro elitario ed esclusivo vantaggio: quanto più numerosi sono i cittadini che acquisiscono una robusta formazione scientifica, tanto più facilmente le conoscenze della scienza possono ricadere positivamente, ispirando le scelte pubbliche, sulla collettività. Ma una robusta, seria e diffusa formazione scientifica può solo essere fornita dalla scuola, non certo da internet né dai media. ]

Read Full Post »

I Social Network sono una nuova caverna? | by Jeshua Stenta | eMemory

Puoi distorcere la realtà (e negare la verità) per ideologia o per interesse.

Ma la distorsione prodotta dall’ideologia è molto più grave e molto più pericolosa di quella prodotta dall’interesse.

Perché chi è mosso dall’interesse smetterà di distorcere e di negare quando la realtà comincerà a incalzarlo e la verità ad accecarlo.

Chi è preda invece di una ideologia – il più grande e il più sistematico e il più opaco e pretenzioso dei pregiudizi – è in buona fede, purtroppo.

Non si lascerà né minacciare né accecare. Perché, ahilui, è già ceco. O ipovedente.

L’ideologia è una benda sugli occhi o un pessimo paio di occhiali che affoga i colori del mondo in una nebbia monocroma, o in un vortice fantasmagorico di illusioni.  

L’ideologia ti inchioda ad una geometrica, morta controfigura della realtà. Ma la realtà è viva e informe, e scappa via, velocissima, tanto veloce che i più bravi tra noi riescono al massimo ad avvicinarla, mai ad agguantarla…

L’ideologia ti impedisce di capire e di godere della varietà e della pluralità del mondo.

Ti proibisce di abbandonarti al flusso libero e imprevedibile della vita.

Ti impedisce di godere del rapimento dell’arte. Della bellezza vivificante del dubbio. Dell’estasi della ricerca.

Ti offre risposte pericolosamente facili a domande terribilmente complicate.

Rinchiude l’incertezza sconfinata della libertà nella falsa sicurezza di una gabbia angusta.

Scambia l’indagine della verità con l’idolatria delle proprie proiezioni mentali, come succedeva ai prigionieri nella caverna di Platone.

L’ideologia è gemella della stupidità, sorella della malattia mentale, parente di certe forme di religiosità. Quelle, per capirci, che ti offrono, in cambio della tua devozione, una salvezza precotta e una comoda verità preconfezionata.

L’ideologia invade i gangli del tuo cervello. È un Alzheimer precoce. Pensa al tuo posto senza che tu te ne avveda. Perché tu ti sei arreso a lei come ci si arrende, in cambio di un conforto avvelenato, alle seduzioni di un paradiso artificiale.

Uno dei sintomi più rivelatrici e allarmanti della malattia ideologica è la negazione ostinata di essa.

Non c’è peggior malato di ideologia di quello che nega di esserlo.

Non a caso il nostro tempo, che si professa convintamente antiideologico, è – per molti versi – più ideologico ancora dei tempi che l’hanno preceduto.

Ai primi sintomi di malattia ideologica guardati bene allo specchio. Meglio: fatti vedere da uno bravo. Presto. Prestissimo. Prima che non ti accorga più di essere malato. Prima che tu creda di essere più sano, più giusto, più onesto e più intelligente di tutti gli altri. Perché quello è l’ultimo stadio della malattia. Il più (auto)distruttivo.

Read Full Post »

Risultati immagini per follia immagini

Follia nana genera figli (e nipoti) giganti.

Follia è diamante: perfetto in sé, nella sua geometrica, tagliente e inattaccabile durezza. Tutto essa può incidere, da nulla può essere scalfita.

La follia è invidiabilmente autarchica, autosufficiente. Si alimenta delle sue ossessioni all’infinito; poggia il suo edificio farneticante sopra quelle fondamenta incrollabili. Non è mai sfiorata dal dubbio. O dal bisogno di qualcosa di diverso da ciò che, senza mai saziarla, la nutre. Corre sicura dentro la realtà (e fuori da essa) come un treno in un tunnel senza uscita.

Tra follia e ragionevolezza non c’è possibilità di dialogo, transfert o benefica frequentazione. La follia è sintonizzata su di una frequenza inaccessibile alla ragionevolezza. Chi tenterà di intercettarla e di correggerla non solo fallirà nel suo scopo ma metterà a serio repentaglio – con una infinita frustrazione – il proprio equilibrio mentale.

Il metodo e la travolgente ostinazione con cui il folle persegue i propri folli scopi gli permettono a suo modo e non di rado – purtroppo, e con qualsiasi mezzo – di raggiungerli; più facilmente di quanto non accada per gli scopi ragionevoli perseguiti da persone ragionevoli: da persone cioè che riconoscano gli ostacoli del principio di realtà e si fermino saggiamente davanti ad essi.

La follia ha i suoi indubbi vantaggi: primo fra tutti, quello di credersi con cieca e autoritaria presunzione – senza la titubanza minima del dubbio né il timore della smentita – suprema e incontestabile saggezza. Ma anche un tragico svantaggio: che non trova di norma nessuno pronto a condividere questa – di per sé – così gratificante autoconvinzione. La follia è quindi, di norma, etimologicamente ‘autistica’, solitaria, autodistruttiva. Sottolineo, tuttavia, di norma: perché purtroppo si sono avute nella storia, rispetto a questa norma, tragiche e spaventose deviazioni: esempi di una follia divenuta infettiva o diabolicamente indotta, ogniqualvolta il sistema immunitario della razionalità collettiva sia gravemente debilitato ed esposto ad un contagio altrimenti impossibile.

La follia solitaria non immagina (né tollera) ostacoli o limitazioni o mediazioni di sorta. Gode perciò, rispetto alla ragionevolezza, dell’illusione e della pretesa di una libertà sconfinata. Quella del fuoco che danza, guizza e imperversa in una foresta. O quella di una nottola che svolazza nel buio, all’impazzata, cozzando sulle pareti di una caverna.

La psichiatria moderna (con valide ragioni, che io sappia) ha molto sfumato i confini tra follia e normalità: col risultato che ogni nostra più comune stranezza, bassezza, debolezza, stronzaggine ecc. rischia di ottenere oggi una patente di sindrome psicopatologica x,y,z,k…. Così rischiamo di essere sempre giustificati nei nostri peggiori difetti e vizi, ed esentati da qualsiasi sforzo per correggerli. Per ogni peccato abbiamo, oramai, pronto un certificato.

Di converso l’incertezza del confine può portare (direi piuttosto astrattamente e ideologicamente) a considerare anche la follia più delirante come una diversa e originale forma di normalità o di razionalità. Con la conseguente dismissione (o demonizzazione) di qualsiasi pratica psichiatrica minimamente coercitiva. E il risultato che anche le più pericolose forme di follia si aggirano a piede libero in mezzo a noi o si accaniscono, devastandola, sulla incolpevole e sventurata umanità loro prossima.

Se nella storia pensatori e artisti hanno paradossalmente elogiato e pericolosamente corteggiato la follia è stato soltanto perché – si badi bene – essi sovente l’hanno metaforicamente (antifrasticamente) intesa e contrario quale fuga coraggiosa, atto di libertà contro la suprema e disumana e autentica follia ordinaria ed ‘ordinata’ in un sistema.

Chi ragiona intorno alla follia, chi pretende di osservarla da vicino per capirla o addirittura dom(in)arla è un esploratore sull’orlo del vulcano, un danzatore sul ciglio di un baratro, un Penteo che si lascia issare sulla cima di un albero per osservare il delirio delle Baccanti: il suo destino è quello di esserne avvistato, abbrancato e sbranato prima ancora di averle potute studiare e comprendere a fondo. (Forse sarà perciò che certi psichiatri o psicanalisti particolarmente assidui nei media producono, in chi li ascolta e li guarda, l’effetto di persone un po’ inquietanti).

Possibile che queste modeste, sparse e profane riflessioni abbiano addirittura alimentato, anziché dissiparlo, il dubbio su che cosa sia veramente follia e che cosa invece ragionevolezza. Sulla incerta demarcazione di un confine tra l’una e l’altra. Sulla loro facile confusione o sovrapposizione. È un dubbio legittimo e persino agghiacciante. Ma finché dubitiamo abbiamo almeno la confortante certezza di non essere (ancora) completamente folli. Il dubbio – come sempre – è la nostra unica, fragile àncora di salvezza.

[PS: leggendo questo post ci si potrà chiedere che cosa mi abbia spinto (tempo fa, a dire il vero) a scriverlo e (adesso) a pubblicarlo: molte ragioni, non tutte confessabili. Più di tutte la considerazione che la follia, quella almeno (‘ordinaria’ e diffusa, non diagnosticata e/o subclinica) di cui parlo qui, è – che ce ne accorgiamo o no – compagna di strada più e meno assidua di noi tutti, non maledizione di pochi.]

Read Full Post »

Risultati immagini per eschilo   Risultati immagini per francis crick

Fa dire Eschilo a Oreste, nell’imminenza del matricidio di cui si macchierà per vendicare il padre Agamennone, che il suo gesto gli è imposto dal volere ineludibile del dio Apollo che prevede per lui, in caso di disubbidienza all’oracolo, un’orribile morte per lebbra (Coefore, vv. 269ss.). E gli fa aggiungere: «Come dunque in tale parola del dio non aver fede? E anche se fede non avessi, è pur forza che io quest’opera compia. Ché tutto ciò che m’incita a questo unico punto converge: e gli ordini del dio e il cordoglio grande del padre; e anche povertà m’angustia; e lo sdegno per il fatto che dei cittadini – i più gloriosi fra gli uomini, quelli che con glorioso coraggio distrussero Troia -siano così sottomessi a due femmine; perché costui [Egisto, amante di Clitemnestra e succube della volontà di lei] ha un cuore di femmina!» (ibid. 296ss.)

La vendetta di Oreste è dunque frutto non di un solo movente, ma di una somma, di un ‘fascio’ convergente di motivazioni (religiose, etiche, sentimentali, sociali, materiali): ordine del dio, rabbia e dolore per la morte invendicata del padre, povertà di figlio abbandonato dalla madre e privo del potere che legittimamente gli spetta, responsabilità politica e morale verso i propri concittadini.

Dire insomma che la vendetta sia per Oreste la risultante semplice e diretta della sua volontà e del suo libero arbitrio significherebbe, di fronte al testo di Eschilo, ricorrere a categorie interpretative improprie e  fuorvianti.

Oreste sarà matricida non tanto per libera scelta, quanto in obbedienza a una serie di condizionamenti interni ed esterni che lo inchiodano a quella scelta stessa, tanto da farla apparire paradossalmente obbligata.

Ho pensato a questi versi di Eschilo, di sapore apparentemente così arcaico, così legati a una cultura magica e religiosa, quando ho letto l’altro giorno in un articolo di Mauro Bonazzi nell’inserto culturale del Corriere (Siamo liberi? Yes, Edipo, we can, in: La lettura del 03.07.2016) che le risultanze dei moderni studi di neuroscienze concludono per la stessa complessità di condizionamenti alla base del nostro agire. Cita Bonazzi in proposito una frase del premio Nobel per la medicina Francis Crick «Il tuo senso di identità personale e di libero arbitrio in realtà non sono niente più che il comportamento di un’ampia serie di cellule nervose e delle molecole loro associate». Versione aggiornata, mutatis mutandis, della pluralità convergente di motivazioni che Eschilo attribuisce a Oreste (identica problematica anche in Eteocle, quando si accinge ad affrontare il fratello ne I sette a Tebe). Conferme scientifiche attuali di intuizioni antiche, già consapevolmente tematizzate da quel fecondissimo crogiolo critico di mito ancestrale e razionalità indagatrice che è la tragedia greca.

Read Full Post »