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Costruire il futuro 2017/2018 | Cos'è la Scienza? Come progredisce? |  19.12.2017 | Fondazione per la Scuola

Scrivevo in un post di alcuni anni fa che negli ultimi decenni il senso della parola libertà è profondamente cambiato in peggio. Si è snaturato. Nel novecento infatti, dopo le esperienze tragiche dei totalitarismi, nel linguaggio politico e sociale libertà significava soprattutto la condizione di chi non è schiavo né assoggettato a qualsiasi dominio prevaricatore o dispotico. Già nell’Italia degli ultimi venticinque anni, tuttavia, lo stesso termine ha cominciato a campeggiare sui vessilli e nella propaganda di vari partiti politici nel più ambiguo significato di licenza, arbitrio, diritto di fare ciò che si vuole a dispetto del bene collettivo e del rispetto della legalità. Ora la pandemia ha fatto il resto. Come succede spesso nelle situazioni di grave emergenza, il covid ha portato inequivocabilmente in superficie (nei media e nelle piazze) il fondo semantico nuovo ed impuro che si nascondeva sotto la vecchia e nobile etichetta verbale.

Non è difficile capire, per altro, che cosa abbia provocato la mutazione semantica del termine. La nuova libertà è figlia della società dei consumi e dell’individualismo edonistico sfrenato generato prima dal boom economico degli anni sessanta e nutrito poi dal liberismo ideologico trionfante degli anni ottanta e novanta: quello – per capirci – che ha trascinato il pianeta verso tutte le catastrofi (economica, ecologica, sanitaria) che incombono oggi sul nostro immediato futuro.

Colpisce tuttavia (ma non stupisce) che i crociati di questa nuova libertà rappresentino ancora, sopra i loro scudi e sui loro stendardi, il nuovo idolo secondo la vecchia e più rispettabile immagine originaria. Dichiarano infatti per lo più che la libertà che idolatrano è un valore prezioso minacciato da un qualche oscuro disegno totalitario: una sorta di complotto (?!) politico-plutocratico insomma che, con la scusa di difendere la gente dal virus, vorrebbe imporre a tutti il guinzaglio di regole e di divieti liberticidi.

Ora è chiaro come il sole che questa difesa a spada tratta della libertà (intesa come licenza di continuare a vivere beatamente spaparazzati dentro l’occhio del ciclone di una tragedia immane) riposa sopra una gigantesca rimozione dei limiti insuperabili della condizione umana. Limiti che la corruzione edonistico-consumistica degli ultimi decenni hanno reso ormai impercettibili e perciò inaccettabili alla coscienza di molti individui.

È chiaro altresì come questi strenui fautori della libertà/licenza abbiano razionalizzato, rimuovendola e nobilitandola in ideologia antiscientifica inscalfibile, la propria difficoltà psicologica di accettare il principio di realtà e di affrontare e di elaborare da persone adulte la paura della privazione, della sofferenza e della morte.

È chiaro anche e più che comprensibile che a questi oltranzisti del principio del piacere guardino con interesse e simpatia, oltre che le solite forze politiche di cui sopra, anche numerose categorie sociali concretamente e talora duramente danneggiate dal virus sul piano economico

Non riesco invece, proprio per nulla, a comprendere come tra i simpatizzanti o addirittura tra i fiancheggiatori di questi irriducibili possano esserci insegnanti e dirigenti della scuola pubblica. Perché pare proprio, ahinoi, che ce ne sia qualcuno in giro. Pochissimi, per fortuna – almeno a quanto mi risulta. Ma pur sempre troppi, a mio avviso. Un insegnante e, ancora peggio (vista la sua posizione dirigenziale), un preside non possono infatti in nome di questa strana e malintesa libertà negare l’autorevolezza e il primato della scienza. Parlo della Scienza autentica (perciò ufficiale), quella galileiana, per intenderci a scanso di equivoci. Non possono negarli, perché chi insegna e chi dirige la scuola ha tra i suoi compiti deontologici primari quello di preparare i giovani a diventare uomini e cittadini adulti. Di emanciparli cioè in maniera critica da quella condizione di sudditanza agli istinti, al pressapochismo culturale, alla seduzione delle mode, della pubblicità e delle ideologie che la società attuale, attraverso mille canali, esercita su di loro. Chi insegna e chi dirige la scuola di questi tempi ha insomma il compito ingrato di immunizzare i giovani dai molti rischi della massificazione. E io non vedo (pur essendo un letterato) come oggi la scuola possa riuscire in questo compito senza affidarsi principalmente alla scienza e al suo  metodo.

La scienza galileiana svolge il ruolo principale in questa educazione, proprio perché insegna a distinguere la sfera dell’opinabile da quella dello scibile: quella sfera nella quale qualcosa si può affermare solo sulla base di una esperienza riproducibile e di una rigorosa dimostrazione. Un qualcosa cioè che non può essere confutato da nessuna idea opinabile ma soltanto da un’altra esperienza e dimostrazione contraria altrettanto riproducibile e rigorosa. Un metodo che vale per le varie scienze matematiche e naturali, ma che dovrebbe, per quanto possibile, essere applicato anche nelle varie discipline umanistiche, se non si vuole insegnarle in maniera dilettantesca.

Perché questo è il guaio della nostra epoca: il primato schiacciante, multiforme e pervasivo del marketing ha prodotto il trionfo totale di una nuova sofistica: il dominio cioè della persuasione, della chiacchiera e del vacuo debate a scapito della vera conoscenza.

Ma già gli antichi sapevano che tra opinione e verità scientifica c’è un abisso.

Dovrebbero saperlo ed accettarlo anche tutti quanti gli insegnanti e i dirigenti della nostra scuola pubblica se vogliono continuare a esercitare legittimamente il proprio mestiere.

[ NB: Qualche doverosa puntualizzazione aggiuntiva:

1) è chiaro che bisogna distinguere tra conoscenze scientifiche e le conseguenti applicazioni operative adottate da governi e amministrazioni varie: queste ultime sono ovviamente discutibili da molti punti di vista, soggette perciò al libero dibattito politico.

2) Se la scienza in sé è neutra e non opinabile non si può dire sempre la stessa cosa degli scienziati, purtroppo. Ma per distinguere gli scienziati affidabili da quelli disonesti non serve essere a propria volta scienziati, bensì essere solidamente formati – dalla scuola in primis – a una mentalità (cioè a un modo di ragionare e di valutare) altrettanto scientifica.

3) La scienza può diventare strumento di poteri dispotici solo quando le sue conoscenze restano nelle mani di pochi potenti che possono sfruttarle a loro elitario ed esclusivo vantaggio: quanto più numerosi sono i cittadini che acquisiscono una robusta formazione scientifica, tanto più facilmente le conoscenze della scienza possono ricadere positivamente, ispirando le scelte pubbliche, sulla collettività. Ma una robusta, seria e diffusa formazione scientifica può solo essere fornita dalla scuola, non certo da internet né dai media. ]

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Civis Mundi - Diego Battistessa: Testi e documenti in italiano sul  femminismo, gratis e scaricabili in PDF

Un paio dei miei venticinque lettori (due persone per altro colte e intelligenti) mi ha fatto garbatamente notare che nei miei ultimi racconti-monologhi (Nota di addebito) circola, a dir loro, un certo spirito antifemminile. La cosa mi ha sorpreso, e non poco.

Ci sono, è vero, in queste mie brevi storie personaggi femminili non proprio edificanti (una moglie maniaca e bigotta, una figlia pazza che fa fuori la madre troppo vecchia e ingombrante, una prof intrigante e prevaricatrice che pilota gli esami di stato, una giovane moglie che tradisce il marito prigioniero di guerra), ma ci sono anche figure femminili rassicuranti, incantevoli e persino salvifiche. E se anche questo contrappeso positivo non ci fosse, basterebbe un minimo di attenzione al contesto narrativo e di confronto con le figure maschili a decretare, se guardiamo a questi miei racconti nell’insieme, la superiorità (o almeno la parità) indiscussa delle donne rispetto a loro.

In Nota di addebito, per esempio, la moglie maniaca e bigotta riesce comunque a dominare su di un marito pusillanime e sottomesso, un antieroe per parte sua di una meschinità disarmante.  La figlia pazza di Ciccina può sconcertare molto di più per la tipologia psichica patologica in sé che per questioni di genere, anche se avrei fatto fatica, nella fattispecie (soprattutto per il linguaggio che le ho attribuito), a immaginarla in vesti maschili. La moglie che, completamente ignara della sorte del coniuge, tradisce il marito da anni prigioniero di guerra in Africa, vive una situazione di solitudine simile a quella di tantissime altre donne vittime degli eventi drammatici dell’ultima guerra mondiale, ed è per altro un personaggio secondario sullo sfondo della tragedia esistenziale vissuta autonomamente dal marito. Quanto a Beatrice Faccenda, la professoressa saputa, piaciona e faccendona del racconto P&P, non è certo una figura simpatica, ma la sua irritante fisionomia umana è fortemente distorta e peggiorata attraverso il punto di vista maschile, tutt’altro che oggettivo e benevolo, dell’io narrante, il giovane prof di matematica che prova nei suoi confronti un frustrante senso di invidia e di inferiorità, oltre che di segreta attrazione.

Insomma, un personaggio letterario non va isolato dal contesto, ma va considerato in rapporto dialettico con gli altri personaggi con cui interagisce. Tantomeno va giudicato sulla base di criteri moralistici o ideologici astratti ed estranei alle concrete ragioni interne dell’opera letteraria stessa. Che sono – sempre, e a dispetto della componente fantastica più e meno presente nella scrittura creativa – ragioni di verosimiglianza.

Non potevo insomma – rispondendo all’osservazione di quei due miei lettori – scrivere racconti badando a non offendere la sensibilità ‘femminile’ di potenziali lettrici. Uno scrittore che ragiona così si autocensura e non scriverà mai niente di originale né di artisticamente dignitoso.

L’arte offende solo chi non la capisce (o non la vuole capire). Offende quelli che non sopportano per i motivi più vari (ideologici politici psicologici ecc ) di guardare in faccia alla realtà attraverso il suo specchio – deformante in apparenza, ma in profondità molto fedele. Più fedele di ogni altro.

Ripeto (a costo di stancare chi mi legge): l’arte è soprattutto uno specchio, non un maestro delle coscienze né un giudice della realtà umana. Chi intende valutarla secondo principi etici, sociali, religiosi o politici (anche i più nobili) usa parametri del tutto impropri e, soprattutto, pericolosamente fuorvianti. Il vero o presunto antifemminismo di un testo letterario sta purtroppo diventando una di queste chiavi di lettura (e di condanna), improprie e pericolose, applicate all’arte dai nuovi bigotti del politically correct. Ma il rispetto e la dignità della donna, la parità fra i sessi ecc. sono – abbiate pazienza – degli ideali, degli obiettivi, dei principi. Non esauriscono affatto la realtà vera e vissuta delle donne (e degli uomini). Non sono quindi oggetto dell’arte. Se l’arte si adeguasse a una qualsiasi ideologia o al pensiero dominante si snaturerebbe, inaridirebbe, non produrrebbe più niente di importante. Soltanto robetta edificante, conformistica o propagandistica.

L’ arte autentica è provocazione e straniamento, perciò ci inquieta. L’ideologia è consolazione e guida, perciò ci rassicura. L’arte è complessità (concreta). L’ideologia semplificazione (astratta). Sono due cose che non vanno bene insieme. Anzi, devono rimanere ben separate. Se vengono a contatto l’ideologia diventa per l’arte (e per le sue interpretazioni) un veleno mortale.

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