Un paio dei miei venticinque lettori (due persone per altro colte e intelligenti) mi ha fatto garbatamente notare che nei miei ultimi racconti-monologhi (Nota di addebito) circola, a dir loro, un certo spirito antifemminile. La cosa mi ha sorpreso, e non poco.
Ci sono, è vero, in queste mie brevi storie personaggi femminili non proprio edificanti (una moglie maniaca e bigotta, una figlia pazza che fa fuori la madre troppo vecchia e ingombrante, una prof intrigante e prevaricatrice che pilota gli esami di stato, una giovane moglie che tradisce il marito prigioniero di guerra), ma ci sono anche figure femminili rassicuranti, incantevoli e persino salvifiche. E se anche questo contrappeso positivo non ci fosse, basterebbe un minimo di attenzione al contesto narrativo e di confronto con le figure maschili a decretare, se guardiamo a questi miei racconti nell’insieme, la superiorità (o almeno la parità) indiscussa delle donne rispetto a loro.
In Nota di addebito, per esempio, la moglie maniaca e bigotta riesce comunque a dominare su di un marito pusillanime e sottomesso, un antieroe per parte sua di una meschinità disarmante. La figlia pazza di Ciccina può sconcertare molto di più per la tipologia psichica patologica in sé che per questioni di genere, anche se avrei fatto fatica, nella fattispecie (soprattutto per il linguaggio che le ho attribuito), a immaginarla in vesti maschili. La moglie che, completamente ignara della sorte del coniuge, tradisce il marito da anni prigioniero di guerra in Africa, vive una situazione di solitudine simile a quella di tantissime altre donne vittime degli eventi drammatici dell’ultima guerra mondiale, ed è per altro un personaggio secondario sullo sfondo della tragedia esistenziale vissuta autonomamente dal marito. Quanto a Beatrice Faccenda, la professoressa saputa, piaciona e faccendona del racconto P&P, non è certo una figura simpatica, ma la sua irritante fisionomia umana è fortemente distorta e peggiorata attraverso il punto di vista maschile, tutt’altro che oggettivo e benevolo, dell’io narrante, il giovane prof di matematica che prova nei suoi confronti un frustrante senso di invidia e di inferiorità, oltre che di segreta attrazione.
Insomma, un personaggio letterario non va isolato dal contesto, ma va considerato in rapporto dialettico con gli altri personaggi con cui interagisce. Tantomeno va giudicato sulla base di criteri moralistici o ideologici astratti ed estranei alle concrete ragioni interne dell’opera letteraria stessa. Che sono – sempre, e a dispetto della componente fantastica più e meno presente nella scrittura creativa – ragioni di verosimiglianza.
Non potevo insomma – rispondendo all’osservazione di quei due miei lettori – scrivere racconti badando a non offendere la sensibilità ‘femminile’ di potenziali lettrici. Uno scrittore che ragiona così si autocensura e non scriverà mai niente di originale né di artisticamente dignitoso.
L’arte offende solo chi non la capisce (o non la vuole capire). Offende quelli che non sopportano per i motivi più vari (ideologici politici psicologici ecc ) di guardare in faccia alla realtà attraverso il suo specchio – deformante in apparenza, ma in profondità molto fedele. Più fedele di ogni altro.
Ripeto (a costo di stancare chi mi legge): l’arte è soprattutto uno specchio, non un maestro delle coscienze né un giudice della realtà umana. Chi intende valutarla secondo principi etici, sociali, religiosi o politici (anche i più nobili) usa parametri del tutto impropri e, soprattutto, pericolosamente fuorvianti. Il vero o presunto antifemminismo di un testo letterario sta purtroppo diventando una di queste chiavi di lettura (e di condanna), improprie e pericolose, applicate all’arte dai nuovi bigotti del politically correct. Ma il rispetto e la dignità della donna, la parità fra i sessi ecc. sono – abbiate pazienza – degli ideali, degli obiettivi, dei principi. Non esauriscono affatto la realtà vera e vissuta delle donne (e degli uomini). Non sono quindi oggetto dell’arte. Se l’arte si adeguasse a una qualsiasi ideologia o al pensiero dominante si snaturerebbe, inaridirebbe, non produrrebbe più niente di importante. Soltanto robetta edificante, conformistica o propagandistica.
L’ arte autentica è provocazione e straniamento, perciò ci inquieta. L’ideologia è consolazione e guida, perciò ci rassicura. L’arte è complessità (concreta). L’ideologia semplificazione (astratta). Sono due cose che non vanno bene insieme. Anzi, devono rimanere ben separate. Se vengono a contatto l’ideologia diventa per l’arte (e per le sue interpretazioni) un veleno mortale.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.