Leggo Catullo in classe da tanti anni e (come tutti i prof del classico che cercano di apparire moderni e accattivanti) non riesco mai a resistere alla tentazione di proporre – a margine della lezione vera e propria, negli esigui interstizi temporali che la separano dal suono della campanella – paragoni con la canzonetta nostrana. Sì, perché chi tra quelli della mia età – leggendo da mihi basia mille deinde centum ecc. – non richiama automaticamente alla mente i 24mila baci di Celentano o il più recente Baciami ancora di Cherubini – Jovanotti? Paragoni, diciamolo, decisamente azzardati sul piano culturale, per il dislivello artistico che separa il poeta antico dai moderni autori nostrani della pop music; paragoni impropri, per la disomogeneità totale dei generi, e per la probabile, totale ignoranza che i canzonettisti nostrani hanno del poeta latino. Paragoni oggettivamente offensivi per Catullo. Se non per altro, per il fatto che l’aristocratico, elitario culto della poesia del veronese fa a pugni con la deliberata intenzione commerciale della canzonetta d’amore moderna. Poi però, altrettanto regolarmente, cerco di riprendermi dalla caduta di stile confrontando Catullo con De André: non solo perché il cantautore genovese si pone su di un gradino letterariamente molto più alto rispetto a quegli altri due, ma anche perché è innegabile – filologicamente parlando – che la Canzone di Marinella quando dice furono soltanto i fiordalisi/ che videro con gli occhi delle stelle/ fremere al vento e ai baci la tua pelle riecheggi (volutamente?) il catulliano quam sidera multa, cum tacet nox / furtivos hominum vident amores (VII). De André, d’altro canto, frequentò il liceo classico.
Ma questa volta, pochi giorni fa, forse l’ho fatta grossa. Perché sono sceso troppo in basso. Perché di fronte all’epigramma di Catullo che lamenta, a partire da Lesbia, la inaffidabilità della donna sed mulier cupido quod dicit amanti / in vento et rabida scribere oportet aqua (LXX), mi è sovvenuta, per un rigurgito freudiano della memoria rimossa, una canzonetta di fine anni sessanta che i miei coetanei forse ricorderanno : ho scritto t’amo sulla sabbia/ e il vento a poco a poco/ se l’è portato via con sé…. E non sono riuscito a tenere per me questo sciagurato confronto. L’ho detto, coram discipulis. Nessuno ha mostrato – data la verde età dei miei alunni – qualche particolare reazione. Ma io ho provato poi una certa vergogna con me stesso. Sì, perché in realtà non ricordavo bene neppure io di che epoca fosse quella canzoncina, né chi la cantasse. La ricordavo come si conservano automaticamente e indelebilmente le musichette della propria adolescenza. Rammentavo vagamente che era interpretata da un duo di illustri sconosciuti. Sono andato, curioso, sul web e ho trovato che il duo si chiamava Franco I e Franco IV; correva l’anno 1969… I due avevano appiccicato un pomposo e regale numero ordinale al proprio nome perché – spiegava il sito – erano parte di una compagnia di amici tra i quali molti, troppi si chiamavano Franco (imperdibile notizia per gli storici del costume!) e perciò bisognava distinguersi. Non solo: un altro sito riportava il testo (orrendo) della canzonetta e persino la sua (orecchiabile) base musicale: una bambola come te/ io l’ho / sognata sempre / ma non l’ho avuta mai, mai, mai… Dopo quel successo effimero i due Franchi scomparvero completamente (et pour cause) dalla scena musicale italiana dei decenni successivi.
È stato probabilmente un inconfessabile amarcord adolescenziale a fregami. Niente di grave in sé, ovviamente. Ma riconsiderando a mente fredda questo lapsus, trovo, in generale, un po’ sconveniente che per scovare ad ogni costo paralleli à la page con Catullo un prof si riduca a citare, oltre a Celentano e a Jovanotti, persino Franco I e Franco IV, carneadi triturati rapidamente dal tempo (e da tempo) nella macina massmediatica e riconsegnati alla storia solo grazie a quel prodigioso museo delle cianfrusaglie o patetico bazar della nostalgia che – tra mille altre, più e meno utili, cose – sa essere il web.
Tante volte ho provato a spiegare ai miei allievi che la grande letteratura antica era spesso (malgrado – in certi casi – le opposte intenzioni degli autori) anche popolare. Magari fraintesa o non pienamente compresa, ma diffusa e conosciuta anche tra il popolo. I giovani di Roma, di Pompei e di Ostia Antica scrivevano sui muri messaggi in distici elegiaci riecheggiando o parodiando Properzio o Ovidio o lo stesso Catullo. Oggi, paradossalmente, non è più così. Strati sociali diversi viaggiano su molteplici piani culturali differenti, spesso drammaticamente paralleli e incomunicanti, specie per coloro – i più – che frequentano i piani bassi. Così la canzonetta si è appropriata del tema d’amore e lo ha interpretato banalizzandolo per la schiera – foltissima, ultramaggioritaria – di coloro che (a differenza dell’antichità) – non frequentano più – neanche a pagarli – la grande letteratura. E non c’è scuola che tenga, non c’è Prevert né Neruda, perché la moneta cattiva emargina sempre quella buona.
Ma in questo caso il problema, si badi bene, non sono le canzonette in sé, compagne gradevoli e innocue delle stagioni della vita di tutti noi. Il problema non è parlare en passant di musica leggera a scuola.
Il problema è che, citandole a fronte di un grande poeta, si rischia comunque – anche con la perdonabile intenzione di apparire brillanti o con quella più lodevole e istruttiva di rilevare la persistenza di luoghi comuni in generi espressivi diversi– di far credere che Catullo e le canzonette siano commensurabili, abbiano la stessa dignità artistica.
Insomma: ogni volta che si sporge troppo avanti a scrutare e ad additare il buco nero, il megafrullatore pseudodemocratico della subcultura di massa, la scuola rischia di finirci fatalmente dentro.
PS.: non posso alla fine di questa riflessione bislacca e un po’ frivola non citare un libro serio e stimolante– che recensii qualche anno fa – sullo stesso argomento: Claudio Giunta, L’assedio del presente, Bologna, Il Mulino 2008; così come non posso non aggiungere una pungente massima di Giuseppe Pontiggia (Le sabbie immobili, Milano, Mondadori 2007) su quello che oggi comunemente viene considerata ‘cultura’: Facile da definire; tutto quello che non pensiamo sia cultura è cultura.
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