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Archive for gennaio 2013

La scuola italiana – l’ho detto e scritto più volte – è stata negli ultimi decenni sempre più preda di attività para- ed extra- astutamente introdotte col pretesto della modernizzazione del sistema, in realtà mirate non di rado a foraggiare talune intraprese private esterne di presunti formatori e/o aggiornatori (che questo non sia un semplice cattivo pensiero lo dimostra proprio il tentativo – per ora rientrato – dell’ultimo governo di far cassa aumentando a dismisura e gratis il normale lavoro degli insegnanti senza – così si voleva procedere  in un primo momento – toccare i fondi per tutte queste presunte attività ‘qualificanti’ di contorno).

Qualche anno fa scrissi un racconto satirico tuttora praticamente inedito (uscì nel 2008 in una pubblicazione collettiva a tiratura molto limitata della Gilda degli Insegnanti di Modena) che credo aiuti – meglio di ogni discorso astratto – a capire ai non addetti ai lavori di che cosa concretamente si tratti talora (non voglio ingiustamente generalizzare) quando si parla di attività di aggiornamento nella scuola, specie se affidato a ‘esterni’. Lo ripropongo volentieri all’attenzione su richiesta esplicita di alcuni lettori ed amici.

Il testo è disponibile (insieme ad altri miei) sul web nella sezione Narrazioni della rivista Stilos: http://www.stilos.it/paolo_mazzocchini_corso_di_facilitazione.html

Ovviamente i personaggi e la storiella in sé sono frutto di fantasia, ma la realtà che il racconto dipinge è tutt’altro che immaginaria.

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   Risultati immagini per franco i e franco iv

Leggo Catullo in classe da tanti anni e (come tutti i prof del classico che cercano di apparire moderni e accattivanti) non riesco mai a resistere alla tentazione di proporre – a margine della lezione vera e propria, negli esigui interstizi temporali che la separano dal suono della campanella – paragoni con la canzonetta nostrana. Sì, perché chi tra quelli della mia età – leggendo da mihi basia mille deinde centum ecc. – non richiama automaticamente alla mente i 24mila baci di Celentano o il più recente Baciami ancora di Cherubini – Jovanotti? Paragoni, diciamolo, decisamente azzardati sul piano culturale, per il dislivello artistico che separa il poeta antico dai moderni autori nostrani della pop music; paragoni impropri, per la disomogeneità totale dei generi, e per la probabile, totale ignoranza che i canzonettisti nostrani hanno del poeta latino. Paragoni oggettivamente offensivi per Catullo. Se non per altro, per il fatto che l’aristocratico, elitario culto della poesia del veronese fa a pugni con la deliberata intenzione commerciale della canzonetta d’amore moderna. Poi però, altrettanto regolarmente, cerco di riprendermi dalla caduta di stile confrontando Catullo con De André: non solo perché il cantautore genovese si pone su di un gradino letterariamente molto più alto rispetto a quegli altri due, ma anche perché è innegabile –  filologicamente parlando – che la Canzone di Marinella quando dice furono soltanto i fiordalisi/ che videro con gli occhi delle stelle/ fremere al vento e ai baci la tua pelle riecheggi (volutamente?) il catulliano quam sidera multa, cum tacet nox / furtivos hominum vident amores (VII). De André, d’altro canto, frequentò il liceo classico.

Ma questa volta, pochi giorni fa, forse l’ho fatta grossa. Perché sono sceso troppo in basso. Perché di fronte all’epigramma di Catullo che lamenta, a partire da Lesbia, la inaffidabilità della donna sed mulier cupido quod dicit amanti / in vento et rabida scribere oportet aqua (LXX),  mi è sovvenuta, per un rigurgito freudiano della memoria rimossa, una canzonetta di fine anni sessanta che i miei coetanei forse ricorderanno : ho scritto t’amo sulla sabbia/ e il vento a poco a poco/ se l’è portato via con sé…. E non sono riuscito a tenere per me questo sciagurato confronto. L’ho detto, coram discipulis. Nessuno ha mostrato – data la verde età dei miei alunni – qualche particolare reazione. Ma io ho provato poi una certa vergogna con me stesso. Sì, perché in realtà non ricordavo bene neppure io di che epoca fosse quella canzoncina, né chi la cantasse. La ricordavo come si conservano automaticamente e indelebilmente le musichette della propria adolescenza. Rammentavo vagamente che era interpretata da un duo di illustri sconosciuti. Sono andato, curioso, sul web e ho trovato che il duo si chiamava Franco I e Franco IV; correva l’anno 1969… I due avevano appiccicato un pomposo e regale numero ordinale al proprio nome perché – spiegava il sito – erano parte di una compagnia di amici tra i quali molti, troppi si chiamavano Franco (imperdibile notizia per gli storici del costume!) e perciò bisognava distinguersi. Non solo: un altro sito riportava il testo (orrendo) della canzonetta e persino la sua (orecchiabile) base musicale: una bambola come te/ io l’ho / sognata sempre / ma non l’ho avuta mai, mai, mai… Dopo quel successo effimero i due Franchi scomparvero completamente (et pour cause) dalla scena musicale italiana dei decenni successivi.

È stato probabilmente un inconfessabile amarcord adolescenziale a fregami. Niente di grave in sé, ovviamente. Ma riconsiderando a mente fredda questo lapsus, trovo, in generale, un po’ sconveniente che per scovare ad ogni costo paralleli à la page con Catullo un prof si riduca a citare, oltre a Celentano e a Jovanotti, persino Franco I e Franco IV, carneadi triturati rapidamente dal tempo (e da tempo) nella macina massmediatica e riconsegnati alla storia solo grazie a quel prodigioso museo delle cianfrusaglie o patetico bazar della nostalgia che – tra mille altre, più e meno utili, cose  – sa essere il web.

Tante volte ho provato a spiegare ai miei allievi che la grande letteratura antica era spesso (malgrado – in certi casi – le opposte intenzioni degli autori) anche popolare. Magari fraintesa o non pienamente compresa, ma diffusa e conosciuta anche tra il popolo. I giovani di Roma, di Pompei e di Ostia Antica scrivevano sui muri messaggi in distici elegiaci riecheggiando o parodiando Properzio o Ovidio o lo stesso Catullo. Oggi, paradossalmente, non è più così. Strati sociali diversi viaggiano su molteplici piani culturali differenti, spesso drammaticamente paralleli e incomunicanti, specie per coloro – i più – che frequentano i piani bassi. Così la canzonetta si è appropriata del tema d’amore e lo ha interpretato banalizzandolo per la schiera – foltissima, ultramaggioritaria – di coloro che (a differenza dell’antichità) – non frequentano più – neanche a pagarli – la grande letteratura. E non c’è scuola che tenga, non c’è Prevert né Neruda, perché la moneta cattiva emargina sempre quella buona.

Ma in questo caso il problema, si badi bene, non sono le canzonette in sé, compagne gradevoli e innocue delle stagioni della vita di tutti noi. Il problema non è parlare en passant di musica leggera a scuola.

Il problema è che, citandole a fronte di un grande poeta, si rischia comunque – anche con la perdonabile intenzione di apparire brillanti o con quella più lodevole e istruttiva di rilevare la persistenza di luoghi comuni in generi espressivi diversi– di far credere che Catullo e le canzonette siano commensurabili, abbiano la stessa dignità artistica.

Insomma: ogni volta che si sporge troppo avanti a scrutare e ad additare il buco nero, il megafrullatore pseudodemocratico della subcultura di massa, la scuola rischia di finirci fatalmente dentro.

PS.: non posso alla fine di questa riflessione bislacca e un po’ frivola non citare un libro serio e stimolante– che recensii qualche anno fa – sullo stesso argomento: Claudio Giunta, L’assedio del presente, Bologna, Il Mulino 2008; così come non posso non aggiungere una pungente massima di Giuseppe Pontiggia (Le sabbie immobili, Milano, Mondadori 2007) su quello che oggi comunemente viene considerata ‘cultura’: Facile da definire; tutto quello che non pensiamo sia cultura è cultura.

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NATURALEZZA (DEL GENIO)

  

Il genio – come il fuoriclasse sportivo, come qualsiasi altra eccellenza in qualsivoglia attività umana – si riconosce non solo dall’eccezionalità dei suoi gesti ma anche e soprattutto dalla semplicità e dalla naturalezza con cui li compie. Senza apparente fatica.

Come il dio Ermes che svelle (nel X dell’Odissea) agevolmente dal terreno la magica erba molu per consegnarla a Ulisse. Una pianta che – commenta Ulisse stesso – gli uomini farebbero invece enorme sforzo a sradicare.

Ma siccome qui si parla di umani – non di dèi – attenti a credere a quella apparenza di facilità.

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INSEGNANTI RIPETENTI?

Tra le tante assurdità che circolano nella communis opinio intorno all’insegnamento c’è quella secondo la quale un insegnante non avrebbe affatto bisogno di ri-studiare, ampliare e approfondire quello che insegna perché, dopotutto, non fa altro che ripetere per anni le stesse cose.

Come se ri-leggere e ri-spiegare Virgilio, Dante o Manzoni fosse ogni volta la stessa cosa.

Come se un capolavoro quale è Il cavaliere inesistente di Calvino parlasse a un insegnante (e per inevitabile riflesso agli studenti che di volta in volta lo seguono) allo stesso modo a trenta, a quaranta e a cinquant’anni.

Come se si potesse nel nostro mestiere, come in qualsiasi altro (e nella vita), scendere due, tre, quaranta volte nello stesso fiume.

Come se i grandi della poesia, dell’arte  e del pensiero non ci avessero consegnato tesori così ricchi e complessi da potersi esaurire (per gli studiosi come per gli insegnanti) in una sola lettura, senza che ogni volta, ogni anno, di fronte a ogni nuova classe, non si possa scoprire un gioiello di stile prima nascosto, una piega recondita di pensiero, un riflesso di senso che ci era sfuggito e che illumina ora diversamente quello che prima ci pareva oscuro.

Sarebbe, a considerare bene, come se pensassimo che il primo incontro basta a conoscere del tutto e definitivamente una persona.

Senza contare che i giovani cui si insegna sono anch’essi, di anno in anno, diversi, per personalità intrinseca e per mentalità e contesto generazionale.

E che ci aiutano perciò anch’essi, ogni volta, a rovistare meglio in quei tesori e a scoprirvi qualcosa di nuovo.

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SERVOPADRONE

Il servo che pensa da padrone

farà felice soltanto il padrone:

non altro otterrà che doppiare

le catene al collo dei suoi pari.

Il servo che pensa da padrone

farà di tutto per inverare un giorno

la sua potenza. Quel giorno, guai

a coloro che saranno suoi servi.

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PARADOSSI FILANTROPICI

Chi ama un’idea troppo bella ed astratta di umanità finirà per nuocere, anziché giovare, agli uomini reali.

Perché li riterrà inevitabilmente maligni, offensivi ostacoli alla realizzazione di quell’ idea.

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Molti anni fa, durante gli scritti di latino di un concorso a cattedra (di quelli che si facevano allora per diventare prof), rimasi di stucco sentendomi chiedere prima della prova da alcuni colleghi-concorrenti se ero disposto a collaborare con loro (insomma: a farli copiare). Mi pareva ovvio che in un con-corso, come in una com-petizione sportiva, ciascuno dovesse pensare – giustamente – per sé, e che ogni pretesa (chiamiamola così) di ‘solidarietà’, oltre che espressione di una comica e assurda regressione di aspiranti prof alle loro pessime abitudini di alunni in un contesto concorsuale, fosse specchio di una grave patologia culturale; di una radicata distorsione della retta concezione della giustizia e del merito. Una ennesima e odiosa e paradossale maschera, insomma, della solita furbizia italica.

Quell’episodio mi è rivenuto in mente sfogliando il recente e documentato saggio Ragazzi, si copia, del sociologo Marcello Dei, edito da Il Mulino. Il libro parla con dovizia di analisi e acume interpretativo di un fenomeno scolastico rilevante ed emblematico della nostra mentalità nazionale. Copiare a scuola è infatti un aspetto solo apparentemente minore del malcostume italico. Anzi esso ne costituisce, a mio parere, lo stadio d’origine, perché contagia la persona nel momento stesso della sua formazione, morale e mentale. Quello che emerge e sconcerta in effetti nell’analisi di Dei non è tanto la diffusione del fenomeno (e la sua evoluzione in più sofisticate forme ‘tecnologiche’), ma l’indulgenza, altrettanto diffusa, con cui gli italiani lo osservano, pur nella consapevolezza generale che si tratti di un comportamento individualmente inutile e socialmente nocivo, oltre che immorale.

Non aggiungerei nulla alle deduzioni stimolanti di questo libro se non la considerazione (che è poi una deformazione professionale del classicista) che la furbizia è sempre stata la deteriore virtù di popoli inferiori (e sconfitti) anche nell’antichità: si pensi all’astuzia punica tanto detestata e vinta dall’intelligenza dei Romani; ma anche (retrocedendo al mondo greco) a quale destino (non a tutti noto) di disprezzo e di condanna andò incontro persino il personaggio omerico di Ulisse nelle mani di non pochi letterati e intellettuali di età successive che avevano ormai ben focalizzato la pericolosa insufficienza e la ‘inferiorità’ di quel modello comportamentale.

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