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Archive for marzo 2020

Scuola a distanza – Istituto Comprensivo di Carbonera Azzolina annuncia una piattaforma per la scuola a distanza. Ma non ...

Non vorrei scrivere nulla, e di nulla, in questo periodo. Maiora premunt. Ma evidentemente non se ne accorge il ministero della istruzione che continua a spargere comunicati e proclami sospinti dal vento della solita retorica efficientista, come se attorno alla scuola italiana (ai suoi ragazzi e ai suoi prof) nulla o quasi stesse succedendo. In senso contrario soffiano le solite brezze della denigrazione qualunquistica e gratuita contro gli insegnanti come privilegiati fannulloni. Cosa di cui neanche più mi sorprendo, tanto questa moda miserabile ormai si accende – complici i social – a prescindere da ogni dato reale, innescata da scintille polemiche costruite ad arte (vedi ad es. le farneticazioni deliranti e meritevoli in sé di denuncia per diffamazione – ma molto emblematiche – che ho trovato quasi per caso in questa pagina web: https://www.facebook.com/541288079571840/posts/1091504701216839/?d=n&substory_index=0p ).

In questo momento la scuola reale sta in mezzo, equidistante mille miglia tanto dalle fanfar(onat)e del ministero e di taluni dirigenti quanto dalle calunnie dei social.

Non faccio – lo ripeto da sempre– il difensore d’ufficio della mia (ex) categoria. Eppure posso testimoniare giurando di dire solo la verità che in questo momento i dipendenti pubblici che stanno impegnandosi e faticando di più, dopo medici e infermieri, sono proprio gli insegnanti.

Non c’è scuola nella quale i prof non proseguano ormai da settimane il loro lavoro quotidiano sotto altra e non facile forma. La stragrande maggioranza di loro continua, ma in condizioni diverse e spesso complicate e disagiate, a tenere lezione davanti ai loro studenti. La stragrande maggioranza di loro si sveglia alla solita ora e dopo colazione si siede al computer facendo l’appello virtuale dei propri alunni che compaiono uno ad uno dall’altra parte dello schermo. Così per tutta la mattinata. La maggior parte di loro, poi, passa il pomeriggio e la sera a preparare tra vari problemi tecnici le lezioni del giorno dopo. Questa è la pura verità.

Tutto ciò perché – in attesa di tempi migliori – il filo di Arianna del percorso educativo iniziato nella scuola reale non si spezzi ma rimanga annodato e teso, dalle mani di chi insegna a quelle di chi apprende. Questo è lo scopo. Nobile e irrinunciabile. Ma difficile da perseguire. Perché insegnare davanti a uno schermo anziché immersi nel milieu di una classe viva e reale non è la stessa cosa. Ci sono ostacoli tecnici e soprattutto svantaggi notevoli sul piano della immediatezza e della trasparenza della relazione educativa. Quanto si perda nella scuola virtuale rispetto a quella reale è ben spiegato, in un recente articolo che condivido in gran parte e a cui rimando, da Tomaso Montanari: https://emergenzacultura.org/2020/03/23/tomaso-montanari-insegnamento-a-distanza-come-stare-in-cattedra/.

Devo dire però che questo esperimento forzato dalle circostanze potrebbe avere in sé, oggettivamente e preterintenzionalmente, al di là dei suoi limiti e del suo auspicabile carattere temporaneo, un paio di vantaggi eventuali, almeno per la scuola superiore, di cui si potrebbe far tesoro in futuro.

Quello, anzitutto, di decomprimere la scuola dall’assillo – che la tormenta e la agita da qualche decennio – della misurazione e della valutazione ‘obiettiva’ dei risultati. Da tempo ormai (lo scrissi in un vecchio post) la nostra scuola è diventata un votificio e un diplomificio nel quale l’assegnazione compulsiva di test di verifica scritti e orali da tradurre costantemente in voti numerici (spesso gonfiati) è diventato il rovello principale di docenti e utenti. Il tempo e le energie che questo stressante meccanismo sperpera sono così grandi da oscurare e marginalizzare il vero obiettivo del fare scuola: quello di promuovere la formazione (sentimentale, intellettuale, morale, civile) della persona attraverso un sereno e stimolante dialogo culturale. Ora succede che nella ‘scuola remota’ la verifica ufficiale e obiettiva diventa materialmente quasi incontrollabile e la valutazione – di conseguenza – quasi impossibile, tanto che alla fine la migliore giustizia valutativa coinciderà giocoforza con la promozione d’ufficio. Ai più tra gli addetti ai lavori (e a molte famiglie che aspettano dalla scuola solo gratificazioni formali e pezzi di carta) questa impossibilità sembrerà una catastrofe. A me invece una insperata opportunità. Ho sempre sognato, negli ultimi anni della mia carriera, di liberare il mio tempo scolastico da compiti in classe, test, interrogazioni formali ecc per poter leggere di più, approfondire di più, dialogare e dibattere di più. Paradossalmente questa scuola emergenziale, a differenza di quella normale, deve/può farlo. Ha teoricamente un vantaggio a dispetto di varie innegabili controindicazioni.

Il secondo vantaggio dell’insegnamento online corrisponde anch’esso a un mio sogno che non ho mai realizzato: quello di poter ricondurre la scuola al suo compito più autentico e più puro. Alla sua quintessenza educativa e culturale, appunto. Alla sua anima originaria. Sgombrando il terreno da tutte le superfetazioni patologiche che lo infestano da anni come rigogliose erbe maligne: parlo – per farmi capire – delle gite e delle assemblee, delle settimane bianche e di quelle pseudoculturali, dei progetti extra e para, dell’alternanza scuola-lavoro, degli incontri promozionali con università, carabinieri, vescovi, industriali, ecc ecc ecc. Insomma, liberandosi di tutti i fronzoli e gli orpelli dell’antiscuola, cioè di tutto quel micidiale fardello di attività di contorno inutilmente obbligatorie che ha sempre più oppresso l’organismo e paralizzato l’attività fisiologica della scuola autonoma.

Vantaggi come questi potrebbero, una volta superata l’emergenza, essere riconsiderati utilmente quando si ritornerà nelle aule. Temo purtroppo che non accadrà. Che, nella scuola almeno, tutto tornerà ad essere esattamente come prima.

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Risultato immagini per iacona sulla scuola finlandese     Risultato immagini per iacona sulla scuola finlandese

Seguo le inchieste televisive di Riccardo Iacona. Le trovo quasi sempre incisive, coraggiose, utili. Questa volta però -pochi giorni fa – ha voluto parlare di scuola. E chissà perché ne è venuta fuori una trasmissione anomala rispetto al suo stile usuale e, per i miei gusti, profondamente irritante, piena di intollerabili imprecisioni, falsificazioni, forzature: in una parola, completamente fuorviante. Se prendessimo per verità quanto è stato detto in quella trasmissione dovremmo credere che – semplifico per chiarezza – la scuola italiana odierna è ancora ferma alla riforma Gentile e che tutti noi insegnanti dovremmo andare a imparare come (modernamente) si fa in Finlandia. Sì, in Finlandia. Sotto il circolo polare artico, perché qui, alle nostre latitudini, la nostra attività di insegnamento si farebbe ancora, secondo Iacona, con metodologie preistoriche e con una organizzazione vetusta e polverosa.

La medicina finlandese starebbe tutta in una presunta rivoluzione didattica fatta essenzialmente, per esempio, di flipped classroom e di cooperative learning, di soft skills e di debates e via (anglomaniacalmente) blaterando.

Vale a dire in una scuola fatta di:

– classi ‘rovesciate’ e apprendimento in cooperazione (flipped-classroom e cooperative learning), dove il prof si fa da parte e i ragazzi, disposti i banchi a cerchio, non ascoltano più il maestro che insegna dalla cattedra, ma eseguono ricerche sul web acquisendo nozioni e materiali, mentre il prof si limita a fare il tutor, a controllare cioè la attendibilità delle fonti, l’attinenza all’argomento dei documenti acquisiti e la coerenza del loro assemblaggio/rielaborazione

– affinamento delle competenze trasversali (soft skills) che bisogna sviluppare per affrontare con successo il mondo del lavoro: autonomia, autostima, flessibilità, resistenza allo stress ecc.

– dibattiti a gruppi (debates), regolati da un insegnante-conduttore, pro e contro una tesi.

Ora, questi metodi – che arrivano tutti dall’area pedagogica anglosassone, ma sono stati ampiamente e acriticamente sposati da anni dalla pedagogia nostrana – non sono né miracolistici, né culturalmente neutri (a prescindere da una loro pretesa ma discutibile scientificità), né – si badi bene – così nuovi.

Per spiegarmi meglio con i non addetti ai lavori, la flipped classroom e il cooperative learning non sono altro che le nostre vecchie, care ricerche assegnate dai prof e i nostri altrettanto vetusti lavori di gruppo. Metodi che la nostra scuola (soprattutto quella dell’obbligo, ma non solo) ha ampiamente e gradualmente adottato almeno da mezzo secolo a questa parte. Metodi che io stesso ho, con molta parsimonia, usato da insegnante di liceo, rendendomi conto però (forse perché non ero bravo ad applicarli come i finlandesi) che essi rischiano di fare molti danni. Le ricerche a casa o in classe (una volta su libri e su enciclopedie, adesso sul web) spingono spesso a uno sbrigativo e acritico copia e incolla. I lavori di gruppo spesso ricadono soprattutto sulle spalle degli studenti più bravi e responsabili di ciascun gruppo, mentre gli altri vanno svogliatamente od opportunisticamente al traino. Perché riescano utili, queste metodologie hanno bisogno di un ferreo (non discreto, né defilato) lavoro di orientamento, di controllo e di correzione dell’insegnante e soprattutto – questo è il loro tallone d’Achille – richiedono tempi lunghi, molto più lunghi della biasimata lezione frontale. Insomma: essi possono funzionare solo ad alcune condizioni ed a patto che siano dosati ed inseriti in un percorso che comprenda anche altre metodologie, mai assolutizzati, altrimenti il gioco – per quanto carino possa apparire ad alcuni – non vale didatticamente la candela. Stesso dicasi per il mitico debate, ovvero il dibattito organizzato in classe pro e contro su un argomento assegnato. Ogni insegnante italiano che si rispetti ha ripetutamente nella sua carriera inserito debates nelle sue programmazioni. Ma non si può fare scuola tutti i giorni (come la si vede sportivamente fare nei film e negli sceneggiati americani) a suon di dibattiti. Anzi questi vanno inseriti nel proprio piano di lavoro cum grano salis, ogni tanto e al momento opportuno: cioè alla fine di una parte di programma che ha già permesso di acquisire e consolidare nozioni e concetti intorno a un dato argomento. Non si può buttare in pasto ai ragazzi un dibattito sulla pena di morte, senza mai averne letto e parlato approfonditamente prima. Si rischierebbe di improvvisare una sorta di talk show approssimativo, confuso, velleitario e inconcludente (simile a quelli che si vedono in tv o si leggono sul web), difficile da gestire proficuamente anche dal più bravo insegnante. Quanto alla novità di questa tecnica didattica, beh, basti dire che su di essa (ma con un rigore dialettico e retorico che oggi non ci sogniamo neppure) erano basate le antiche scuole di retorica greche e romane. Il debate a Roma si chiamava controversia. E già allora, benché le controversiae fossero il pane quotidiano degli studenti della classicità, molti intellettuali antichi vedevano in questo sistema di insegnamento vari punti deboli e lo criticarono spesso con asprezza.

Il programma di Iacona invece ha presentato tutte queste metodologie pseudo-innovative come il miracolistico toccasana di ogni problema didattico, la panacea ultramoderna di tutti i mali di un insegnamento vecchio e stantio.

Un programma che doveva essere di inchiesta e di denuncia si è rivelato, incredibilmente, un manifesto ideologico e acritico (oltre che male informato e disinformante) dei luoghi comuni della più bassa pedagogia aziendalistico-funzionalista, quella che imperversa da anni nelle università e negli ambienti ministeriali al soldo dei poteri economici forti.

Quanto ai punti di debolezza del sistema scolastico magnificato dalla trasmissione, bastino un paio di obiezioni:

– una scuola plasmata su quella finlandese, tutta proiettata a promuovere i soft skills degli studenti, cioè -in soldoni- le loro capacità adattative a un qualsiasi contesto professionale e ambientale, sarebbe una scuola sostanzialmente indifferente ai contenuti culturali. Tutto può servire ai soft skills: parlare di Topolino o di Manzoni è equivalente (tant’è vero che i ragazzi in Finlandia pare si scelgano i contenuti e i percorsi che vogliono). E allora che ne sarà, in una scuola del genere, della formazione critica e consapevole dell’uomo e del cittadino? Che fine faranno la preparazione garantita solo da un rigoroso e comune e articolato apprendimento disciplinare? Mi pare chiaro che un sistema ‘finlandese’, se adottato da noi in toto, implicherebbe la liquidazione definitiva del nostro sistema liceale, già in grave sofferenza da anni per l’introduzione strisciante e surrettizia di questi corpi estranei nel suo organismo costituzionalmente incompatibile con essi. La nostra scuola superiore diventerebbe una blanda prosecuzione della scuola media, un indistinto calderone dove ciascuno studia ciò che vuole, seguendo le strade che vuole, senza un preciso indirizzo culturalmente qualificante: l’importante è che egli sviluppi quelle capacità trasversali che lo rendono bell’e pronto, flessibile e adattabile al punto giusto, ad uso e consumo del mercato del lavoro. Vogliamo davvero buttare a mare i nostri licei per una scuola superiore di questo tipo?

– una dirigente scolastica finlandese, intervistata a proposito della valutazione e della selezione nella loro scuola, ha ammesso che in realtà, da loro, valutazione e selezione non esistono. I giudizi oscillano tra il bravo e il bravissimo. Tutto ciò perché non si può né si deve intaccare l’autostima dei ragazzi in una età particolarmente sensibile e fragile. Ammettiamo che questa risposta sia stata data in buona fede, che cioè lassù, in Finlandia, si creda davvero che gratificare l’autostima sia più proficuo per un ragazzo che non educarlo a riconoscere tempestivamente i propri limiti e ad imparare dai propri errori (questa infatti dovrebbe essere la funzione di una valutazione seria): fino a quale età – mi chiedo – si spingerà questa pratica pedagogica della gratificazione assoluta e incondizionata dell’amor proprio? Fino a sedici, a diciotto, a vent’anni? Qual è il limite? Perché se non sarà la scuola a prendersi la responsabilità di giudicare (questo i ragazzi lo sanno benissimo), sarà poi la società e il mondo del lavoro a farlo con una brutalità selettiva direttamente proporzionale alla delicatezza con cui la scuola li ha prima tutti quanti amorevolmente gratificati. Questo è il nodo. Lo ha riconosciuto d’altronde implicitamente la stessa intervistata. Quando le è stato chiesto come in Finlandia si reclutano i bravissimi insegnanti della loro miracolistica scuola ha risposto: con una selezione durissima e spietata. Già. Ma tra chi? Tra quelli che fino a poco prima erano tutti o bravi o bravissimi? Come la prenderanno i moltissimi esclusi? Quale colpo irreparabile e inaspettato per la loro, fino a quel punto sacra e intangibile, autostima!

PS: scrivendo queste righe mi sono venuti giocoforza in mente i molti e illuminanti interventi – a proposito delle trasformazioni recenti della nostra scuola- di Lucio Russo, a partire da Segmenti e bastoncini fino alla sua recente recensione al libro di Galli della Loggia (L’aula vuota) apparsa in https://anticitera.org/2019/09/01/recensione-a-laula-vuota-di-ernesto-galli-della-loggia/, dove Russo, discutendo le varie tesi di Galli della Loggia, tocca con molto acume molteplici aspetti della questione.

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