Il top e la quintessenza della lirica oraziana: il carpe diem. Qui più che altrove si deve rispettare, traducendo, lo spirito profondo del testo e meno che mai soggiacere allo scrupolo di una pedissequa fedeltà alla sua lettera esteriore. Ci ho provato. Ho azzardato, per esempio, “bambina mia” per rendere il nomignolo greco parlante Leuconoe (‘ragazza dalla mente ingenua, candida’). Nessuno credo se ne scandalizzerà.
«A noi non interessa tanto, Mr. Humbird, che le nostre studentesse diventino dei topi di biblioteca o che sappiano elencare tutte le capitali d’Europa […] o che imparino a memoria le date di tante battaglie dimenticate. Quello che ci interessa è che si adattino alla vita di gruppo. Ecco perché ci concentriamo sulle tre D: Dramma, Danza, Discussione – e sugli appuntamenti coi giovanotti. […] Per farla breve, pur adottando determinate tecniche d’insegnamento, noi siamo più interessati alla comunicazione che non alla composizione, e cioè, con tutto il rispetto per Shakespeare e compagnia, noi vogliamo che le nostre ragazze comunichino liberamente con il mondo vivo intorno a loro, invece che tuffarsi in vecchi libri ammuffiti.[…] Abbiamo eliminato quella massa di argomenti incongrui che venivano tradizionalmente offerti alle ragazze e non lasciavano spazio, nei tempi passati, alle conoscenze, alle tecniche e agli indirizzi di cui avranno bisogno nel gestire le proprie vite e – potrebbe aggiungere il cinico – le vite dei mariti. Mr. Humberson, mettiamola così: la posizione di una stella è importante, ma per una massaia in boccio il posto più pratico che in cucina deve occupare il frigorifero può essere ancora più importante. […] Si rende conto che per la preadolescente di oggi i programmi scolastici contano meno di quelli cinematografici [occhiolino!] […] Viviamo non solo in un mondo di pensieri, ma anche in un mondo di cose. Le parole, se non sono confortate dall’esperienza, non hanno significato. Che cosa può importare a Dorothy Hummerson della Grecia e dell’Oriente, coi loro harem e le loro schiave adolescenti?».Quel programma mi inorridiva, ma parlai con due signore intelligenti che avevano avuto a che fare con la scuola, le quali asserirono che le ragazze facevano una quantità di solide letture, e che la politica della ‘comunicazione’ era solo uno specchietto per le allodole con cui si voleva dare un tocco di remunerativa modernità alla Beardsley School, che era e restava vecchia come il cucco.
(V. Nabokov, Lolita, trad. di Giulia Arborio Mella, Milano 1993, pp. 222ss.)
Questo è già il secondo stralcio tratto da capolavori della narrativa anglofona del novecento che parla, in termini di una attualità sorprendente ma per me familiare, della autopromozione di un istituto scolastico. Il primo l’avevo scovato ne Il giovane Holden di Salinger e pubblicato in un post precedente.
Sorprendente come la dirigente scolastica di un istituto privato femminile cerchi di allettare il protagonista, che sta per iscrivervi la giovanissima Lolita, con argomenti che (mutatis mutandis per via dei tempi: siamo nell’America dei primi anni cinquanta!) sono nella sostanza identici a quelli che le nostre scuole autonome usano ancora oggi nei loro open days, nei loro siti e nelle innumerevoli altre occasioni in cui si fanno pubblicità: millantata modernità e concretezza pedagogica, rincorsa sfrenata delle mode e delle tendenze del costume e della realtà attuale, disprezzo della cultura ‘alta’ e della formazione teorica a favore di una istruzione di facile e immediata spendibilità pratica (il ‘saper fare’!), ecc. Ci sono persino le “tre D” (Dramma, Danza, Discussione) che riecheggiano incredibilmente le nostre famigerate “Tre I” (Internet, Impresa, Inglese) di recente memoria…
L’attenzione di grandi scrittori ed intellettuali come Nabokov e Salinger verso questo aspetto della vita sociale americana degli anni ’50 non è una mera curiosità letteraria ma ha, secondo me, un significato storico notevole per chi si interessi oggi di scuola. Della nostra attuale scuola.
Significa molto, intanto, che entrambi gli autori ne scrivano con una tagliente penna satirica, rappresentando l’autopromozione scolastica come una prassi ridicola e deprecabile insieme. Un conforto per me, che da sempre condanno questa consuetudine come un inutile, controproducente e dispendioso (in termini di energie e di soldi) malcostume, mentre tra molti dirigenti ed addetti ai lavori della scuola italiana la cura dell’immagine è un’attività primaria e benemerita ed un totem sacrosanto e inviolabile.
Significa molto, poi, che la nostra scuola, per apparire moderna oggi, non sappia far altro che riciclare i cascami pedagogici della scuola privata anglosassone di settanta anni fa. Segno inequivocabile di quale (e quanto decrepita!) sia la matrice ideologica cui la nostra scuola- azienda, in maniera tardiva e caricaturale, si ispira.
Meno male che, in fin dei conti, a questo reclamizzato efficientismo modernistico non corrisponde, nella prassi didattica concreta di molti insegnanti, la realtà dell’insegnamento, oggi come allora: con sollievo infatti il personaggio di Nabokov viene alla fine a sapere da persone ‘più intelligenti’ e informate che in quella scuola, a dispetto dei proclami della prèside, si continuano a fare, secondo tradizione, buone letture e che tutto quel programma pubblicitario altro non era che uno ‘specchietto per le allodole’. Meno male che molti insegnanti della nostra scuola, come nella Beardsley School di Lolita, continuano ancora ad insegnare le proprie materie e a non trascurare la cultura alta. E che questo, questo solo, interessa davvero i genitori intelligenti.
Sì, ma intanto quanti saranno oggi in percentuale questi genitori intelligenti? E per quanto ancora questi insegnanti eroici potranno svolgere il loro vero lavoro? E con quale speranza di essere ancora ascoltati, assediati come sono ogni giorno e da ogni lato – dentro e fuori la scuola – da messaggi e da parole d’ordine che denigrano e delegittimano quel lavoro agli occhi stessi degli studenti?
Se non si scrive in proprio si può tradurre, riscrivere poesia altrui. La traduzione letteraria – questa benemerita – è stata definita in molti modi. Oggi mi va di spiegarla come un doppiaggio. Simile al doppiaggio del cinema. Dunque quello che leggete sopra (due odi celebri di Orazio) non vorrebbe assomigliare ai sottotitoli in traduzione di un film, bensì proprio a un doppiaggio. I sottotitoli sarebbero come la cosiddetta traduzione di servizio (quella ‘letterale’ che troviamo in tanti manuali scolastici o universitari). Il doppiaggio invece è una re-interpretazione in piena regola. Il doppiatore presta all’attore (cioè all’interprete originale) la sua diversa voce, la sua diversa lingua, ma anche una cadenza, un ritmo, un timbro suoi propri. Insomma: un po’ della sua personalità, della sua anima. Quello che ne risulta è una nuova interpretazione del personaggio che non è né completamente quella dell’attore né completamente quella del doppiatore, bensì un tertium figlio di entrambi. Operazione artisticamente tanto più riuscita quanto più il doppiatore rispetta sì l’originale ma anche e soprattutto sé stesso. Questo, fondamentalmente, penso sia la traduzione letteraria.