Who has seen the wind? Neither I nor you. But when the leaves hang trembling, The wind is passing through. Who has seen the wind? Neither you nor I. But when the trees bow down their heads, The wind is passing by.
Chi ha mai visto il vento?
Io no, e neanche tu.
Eppure, se le foglie oscillano tremando,
è lui, il vento, che le sta attraversando.
Chi ha mai visto il vento?
Non tu, e io nemmeno.
Ma se la chioma degli alberi si abbassa
è lui: è il vento che passa.
Christina Rossetti, (Sing Song, a Nursery Rhyme Book, 1872, trad. mia)
Mi credevo originale quando scrissi qualche anno fa una mia poesiola intitolata “Percezioni indirette“:
Sfollano passeri nella sera
dai rami, lo avverti al brivido
lucido delle foglie, come la danza
acrobatica del ragno al flettere
del filo della tela, e il frullo
in punta delle dita ai suoni
che divampano sul frigido
aplomb della tastiera.
(Pietra e farfalla, 2017)
Invece non era proprio così. Bisogna rassegnarsi, se si scrive poesia, al nihil novi. Senza sentirsi, peraltro, affatto sminuiti. Anzi. La originalità assoluta non esiste, almeno sul piano tematico. E la fratellanza poetica è un dono. D’altra parte la poesia (l’arte in generale) è un po’ come il sole oraziano: aliusque et idem nascitur, sempre…
Perché ce l’ho tanto con la pubblicità? Forse perché sono un disadattato, un passatista, un donchisciotte che combatte i mulini a vento della modernità. Non so: lascio ai lettori giudicare. Mi basta, per parte mia, fare alcune considerazioni sparse per circostanziare la mia strana idiosincrasia:
1) tra la fine degli anni sessanta e gli inizi dei settanta Pier Paolo Pasolini indicava nel modello di sviluppo consumistico il vero, nuovo fascismo. Non aveva torto: anche se formalmente questo sistema non ti impone nulla, nei fatti è talmente condizionante e totalizzante che non ti lascia alternative né scappatoie. E la pubblicità di questo sistema è l’anima, il cuore pulsante e la mano operativa.
2) Pasolini avrebbe confermato in pieno il suo giudizio (profetico) sul sistema consumistico se fosse arrivato a conoscere l’èra di Internet, l’epoca della proliferazione all’infinito di ogni forma di marketing dentro l’immondezzaio pubblicitario della rete. Si ha un bel dire che uno, volendo, può ignorare la pubblicità; in realtà vi siamo immersi, come lo siamo nella luce del sole o nell’aria che respiriamo. Prima c’erano carosello e i tabelloni pubblicitari, vale a dire che c’erano momenti e spazi regolati per la pubblicità. Adesso è diventato uno stalking, un pressing persecutorio, con la pervasività dell’acqua che invade ogni interstizio, s’infila in ogni pertugio libero della nostra esistenza. Quello che non riesce ad avere con la seduzione raffinata vuole perseguirlo con l’invadenza spudorata ed il tambureggiante lavaggio cerebrale. La pubblicità oggi percorre mille strade senza trovare più divieti di accesso: giornali, tv, radio, spazi fisici pubblici esterni ed interni, linee telefoniche fisse e mobili, e, soprattutto, il web con tutte le sue diaboliche virtualità. Tutto il resto che questi media dovrebbero fare perché sono costituzionalmente deputati a farlo (informazione, formazione, cultura, spettacolo) diventa secondario e ancillare rispetto alla pubblicità, nel senso che essi non potrebbero nemmeno esistere senza i finanziamenti che solo la pubblicità garantisce loro. Figuriamoci se possono esprimersi senza uniformarsi più e meno direttamente alla sua filosofia.
3) Siamo costretti da questo sistema non solo a subire continuamente la pubblicità ma anche a diventarne soggetti attivi e collaborativi. Oramai non esistono quasi più, per esempio, professioni o mestieri o occupazioni che non implichino strategie o attitudini promozionali, cioè ‘pubblicitarie’ in senso lato. Se fai il commerciante o l’artigiano o libro professionista una bella dose di autopromozione devi sobbarcartela. Ma anche se sei insegnante, per fare il mio esempio, non puoi oggi più esimerti dal contribuire (negli open days, nelle giornate dell’orientamento ecc.) alle iniziative propagandistiche del tuo istituto a caccia di iscritti; perciò non puoi più permetterti di fare il Socrate o il libero pensatore… Persino se fai a tempo perso lo scrittore puoi scordarti il buen retiro nel tuo eremo creativo, perché dovrai presentare e pubblicizzare i tuoi scritti, un’attività ingrata di cui quasi tutti gli editori ormai si infischiano altamente. Accanto a questo proliferare di attori e agenzie pubblicitarie scarseggia sempre più la presenza di filtri critici oggettivi e competenti: per mille vini in vendita ci sono mille osti a decantarcene la bontà, ma sempre meno enologi a garantircela.
4) Scopo primario ma non esplicito della pubblicità (al di là della vendita del prodotto) è inculcare negli individui una visione edonistico-consumistica del mondo, e sollecitare (o indurre) in loro sogni e desideri talmente primitivi e profondi che non c’è razionalità che possa (tanto meno voglia) resistervi. Prima che promuovere consumi la pubblicità mira a plasmare in chi la subisce la forma mentis del consumatore.
5) Il sistema edo-consumistico è giovanilista, non solo perché si rivolge ai giovani ma perché tende ad affermare un modello pan- giovanilistico: brillantezza, intraprendenza, energia, ottimismo, salute, eros, prestanza, vitalità. Ci induce a immaginarci e a desiderarci sempre giovani e belli come gli antichi dèi greci… Questo modello infatti, per quanto irrealizzabile, conquista facilmente l’immaginario collettivo e lo rende più sensibile alla corruzione indotta del sistema e il più utile alla sua perpetuazione. Tracce della terza età nei messaggi pubblicitari sono rare e patinate, mentre i cinquantenni che vi compaiono sono opportunamente vitaminizzati in vista di prestazioni giovanili. D’altro canto il sistema che produce pubblicità ha bisogno di un pubblico inesauribilmente desiderante, sempre proiettato al nuovo e al futuro: quindi, almeno psicologicamente, giovane.
6) L’ottimismo della pubblicità è – per i miei gusti – quanto di più artefatto, irritante e disgustoso si possa immaginare, ma – dal punto di vista di chi produce la pubblicità – irrinunciabile, obbligatorio. Come creare un pubblico di consumatori se soltanto si ammette la sfiducia o lo scetticismo nella positività del reale, nella realizzabilità dei desideri, nella felicità sostanziale di un mondo votato e destinato al piacere?
Di conseguenza di fronte a vari problemi la pubblicità offre soluzioni pronte e miracolistiche, di fronte alle tragedie invece tace, rimuove, glissa, al massimo allude.
Esempio eclatante di questa rimozione e/o di questo ricorso alla allusività obliqua e sfumata si è avuto nel periodo iniziale e più drammatico della pandemia. Mentre la gente viveva impaurita e chiusa in casa alle prese con una tragedia collettiva, la pubblicità continuava a correre come sempre nei palinsesti televisivi: in parte riproponendosi uguale a prima, come se nulla stesse accadendo, in parte invece alludendo in maniera vaga o metaforica o indiretta al dramma del momento, evitando accuratamente di chiamarlo per nome, e lusingando o incoraggiando quotidianamente lo spirito di ‘resilienza’ del consumatore. Come tutte le ideologie (o fedi) forzosamente ottimistiche, infatti, la pubblicità non può ammettere l’esistenza tragica e insuperabile del male, deve rimuoverla o declassarla a variabile dipendente della nostra capacità di resistenza e di reazione. Nell’insieme il gusto di questi spot nel colmo della pandemia risultava caramelloso, paternalistico, consolatorio. Ma il messaggio di fondo che veniva sempre e comunque – scontatamente – trasmesso era l’invito martellante a tenere lo sguardo alto, proiettato al di là dell’innominabile presente, verso il futuro di una possibile, vicina liberazione. Quella liberazione dal pericolo mortale che tutti ovviamente desideravano per sé ma che il sistema edo-consumistico desiderava ancora di più per rilanciare la locomotiva, per poter ricominciare a correre a pieno ritmo, come prima.
7) Domanda ultima: perché opporsi alle sirene della pubblicità se esse ci offrono quello che ci piace o che comunque può piacerci? Perché opporci al sistema edo-consumistico se promette di realizzare, come il genio della lampada, i nostri desideri? Se con un clic posso avere a casa mia in poche ore e a prezzi stracciati un prodotto che desidero, perché preoccuparmi se chi lo produce è uno schiavo e se chi me lo recapita è un rider h24 e se l’impresa che me lo fornisce è un megalodonte planetario che sta sbranando tutte le concorrenze locali? Sperare in una autoregolamentazione etica generalizzata degli individui/consumatori è forse una pia illusione. E un individuo che si opponga al sistema edo-consumistico rischia di apparire a se stesso, prima che agli altri, uno sciocco e anacronistico piagnone. Eppure, se ragionassimo in termini di convenienza e non di giustizia, ci accorgeremmo che l’illusione più catastrofica è oramai proprio la fiducia, cieca e illimitata, che il genio della lampada possa esaudire all’infinito i nostri desideri. Presto infatti, così continuando, non riuscirà ad accontentarci più neanche nei nostri bisogni primari. E la catastrofe non riguarda i nostri discendenti in un futuro lontano. Incombe su di noi e sui nostri figli. Disastro ambientale e climatico, esaurimento delle materie prime, sovrappopolazione, miseria e immiserimento crescenti, diseguaglianze abissali. Senza porre dei limiti alla espansione di questo sistema si finisce presto – domani o dopodomani – nel baratro.
8) Eppure il vecchio Epicuro, senza sapere nulla di noi né del neocapitalismo edonistico moderno, aveva già capito tutto. Aveva capito sì che il piacere, proprio lui, è la mèta e che il desiderio di esso è il motore della nostra esistenza. Ma proprio perciò aveva stabilito limiti rigorosi e regole selettive alla fruizione del piacere stesso, perché sapeva bene che, assecondandoli e titillandoli all’infinito, piacere e desiderio producono solo infelicità e conducono alla catastrofe. Aveva già abbozzato a suo modo la teoria di una “non-crescita felice”. L’edonista Epicuro sarebbe oggi il più fiero antagonista del sistema edo-consumistico e della sua deriva pubblicitaria. Non avevano capito male di lui, nell’antichità, quei moralisti cristiani che lo consideravano un loro fratello spirituale. Per essere un vero edonista, per godersi davvero la vita, bisogna saper rinunciare a molto. Anche Orazio, che era un edonista laico ed epicureo, la pensava allo stesso modo. Ma questa della rinuncia è una virtù che le ultime generazioni – successive a quella uscita dall’ultima guerra – hanno completamente smarrito. Sulle loro coscienze il nuovo fascismo di cui parla Pasolini ha funzionato alla perfezione.
Presso la rivista online Letture.org è appena uscita una mia intervista intorno al mio volume miscellaneo di contributi di filologia e letteratura classica e leopardiana Noctes vigilare serenas, pubblicato alcuni anni fa presso l’editore Aracne:
L’intervista offre una riflessione sintetica, divulgativa e aggiornata su autori e tematiche affrontate nel libro. Vi si parla nella fattispecie di aspetti importanti della personalità e dell’opera di Esiodo, di Archiloco, di Tucidide, di Lucrezio e di Orazio, oltre che di Giacomo Leopardi. Credo perciò che possa risultare una lettura utile in sé (riguardando grandi scrittori del mondo antico e moderno) oltre che propedeutica, per chi volesse approfondire i singoli argomenti, alla conoscenza diretta del libro.
Il sigillo, minuto e prezioso, del primo libro delle Odi di Orazio. Un piccolo scrigno che custodisce intero il tesoro della sua visione della vita: lontano dai lussi, dallo scialo e dalle raffinatezze delle classi elevate della sua epoca, Orazio ambisce a una felicità fatta di semplicità e di misura. L’unica felicità possibile, perché basta a se stessa. Non soffre il bisogno insaziabile di più né di altro. È la ricetta dell’aurea mediocritas, e i suoi pochi e classici ingredienti sono tutti qui chiamati a raccolta: il vino, un sobrio ambiente simposiale in un angolo ombroso ed ameno, una gradita compagnia. Ma anche l’amore: di una qualche etèra o dello stesso puer? Non viene esplicitato, ma chiaramente alluso dalla prediletta presenza del mirto, la pianta di Venere. Si conclude qui, con la fine del primo libro, una prima fase del mio lavoro di traduzione antologica dalle Odi.
Orazio e la battaglia di Azio. Il poeta e il regime. Orazio è, con tutti i distinguo e la dignità del caso, anche un poeta di regime. Di fronte al trionfo decisivo di Ottaviano su Antonio e Cleopatra, quello che consegna al futuro Augusto il dominio assoluto sull’impero, Orazio non può (o non vuole?) tacere. Non può esimersi, come artista protetto e vezzeggiato da Ottaviano e dai suoi, dal levare una voce di plauso. E allora si inventa questo epinicio atipico, questa ode per altro ispiratissima e (con)geniale, dove il plauso per Ottaviano è in apparenza centrale (perché ne occupa il centro compositivo) ma in realtà marginale: il centro della scena, infatti, dall’inizio alla fine, nella grandezza del male e del bene, è occupato da lei, da Cleopatra, la regina sconfitta. Una donna che non solo oscura il ruolo, qui completamente rimosso, di Antonio, il suo compagno e complice maschio, ma relega in secondo piano persino il vincitore. Lei, Cleopatra, è stata certo un fatale monstrum, un prodigio di esotica e barbarica malvagità che ha minacciato mortalmente l’impero. Ma poi – sconfitta dal salvatore della patria – si trasforma in una splendida figura tragica, cui Orazio non lesina una profusione sincera di elogi: nobiltà (generosius), animo virile (nec muliebriter), coraggio (ausa) e fermezza (vultu sereno) in faccia alla morte, voluta con fierezza indomabile (deliberata morte ferocior), e non subita, per il morso dei serpenti. Così Cleopatra si è sottratta all’umiliazione di essere esibita, schiava e in catene, nel trionfo, dietro al carro del vincitore. È stata, nella sconfitta, una regina degna di questo nome. Man mano che procediamo nella lettura Orazio, come in un abile e rapido gioco di prestigio, cambia completamente di segno e di prospettiva la fisionomia morale della protagonista. Alla fine, di Cesare Ottaviano non ci ricordiamo quasi più. E nemmeno più ci rammentiamo granché del fatale monstrum. Ci rimane negli occhi solo la magnanimità dell’eroina. Tradurre quest’ode è (stato) ancora più difficile del solito. La pregnanza del dettato oraziano e la rapidità (pindarica) dei passaggi logici e temporali, richiedono più che mai – per essere resi in un italiano moderno accettabile – duttilità e una certa dose di azzardo nello sbrogliare concetti e nel ricomporre sintagmi e giunture. Chiedo venia ai miei colleghi filologi se la fedeltà è stata spesso sacrificata alla libertà e al gusto (notoriamente soggettivo) della scrittura poetica.
Una abiura del proprio credo epicureo? – Orazio in effetti lo definisce qui addirittura una filosofia insaniens, folle e insensata (io ho preferito, forzando un po’, il dantesco bugiarda) – Una ritrattazione dei cardini della propria concezione di vita? Orazio confessa in effetti qui di essersi riconvertito alla fede negli dèi tradizionali. Sarebbe stato un tremendo temporale a spaventarlo, a rammentargli la precarietà della condizione umana soggetta al potere arbitrario e violento degli dèi, e del caso (Fortuna). Il caso, già. Ecco, qui c’è a mio parere la nota – l’unica – sincera della confessione oraziana: il dubbio, cioè, che irrompe nella coscienza del poeta quando nel sereno arazzo epicureo di un universo regolato da leggi naturali il Caso, ovvero la Sorte imprevedibile (la greca Tyche), affonda improvviso e lacerante il suo artiglio (così ho voluto tradurre, concretizzando l’astrazione, Fortuna rapax). È una angoscia che emerge repentina dal profondo dell’animo di Orazio e che squassa le sue certezze, la sua illusione di dominare, con la sapienza, il mondo. Orazio – non mi stanco di ripeterlo – è un poeta molto meno tranquillo ed olimpico di quanto si creda. Non è neanche (e qui lo ammette) un epicureo di stretta osservanza. Ma non è (non potrebbe costituzionalmente esserlo, mai) un San Paolo sulla via di Damasco. È e rimane (tutta la sua opera sta lì a testimoniarlo) uno spirito scettico, profondamente laico. La apostasia filosofica di cui parla qui non è altro, in realtà, che il rovesciamento ironico di un topos epicureo consacrato dalla poesia di Lucrezio. Nell’incipit celebre del De rerum natura (vv. 62ss.) si legge infatti del maestro Epicuro che non si lascia abbattere da tuoni e fulmini di un tremendo temporale, come fa invece la gente comune pensando che siano mandati da Giove. Anzi Epicuro sconfigge quel terrore interpretando razionalmente (scientificamente) quei fenomeni in chiave puramente fisica. Insomma, le certezze epicuree di Orazio barcollano, sì, per un istante almeno, sotto i colpi della Fortuna, ma la sua dichiarata, oscurantistica riconversione alla religio dei padri è solo una deliziosa messa in scena. Puro e ammiccante (doppio)gioco letterario. I suoi coltissimi amici, Mecenate e gli altri (spiriti scettici e laici da par loro), erano in grado di afferrare benissimo questo esprit de finesse. Augusto avrà forse fatto finta di non coglierlo. Qualche lettore moderno troppo devoto, invece, potrebbe magari cascarci ed esclamare (come il bigotto di Nanni Moretti che ho citato in un altro post): «Vedete, anche Orazio, pure lui, era uno dei nostri!!».
L’eterna giostra dell’amore: chi insegue a sua volta fugge, in una catena di desideri inappagati o beffati, di felicità frustrate o tormentate. Evocare questo motivo, topico sotto ogni latitudine letteraria (tra i tanti e più di tutti mi sovvien l’Ariosto), serve ad Orazio per offrire all’ amico Albio (Tibullo?), appena e malamente scaricato dalla sua amichetta, un conforto: «Così succede a tutti, che vuoi farci, è legge di Venere e io stesso – lo vedi – ci son dentro e mi tocca sottostare…». Ma il poeta osserva questa giostra, come sempre, da un gradino più in alto rispetto alla comune umanità: per quanto non sia indenne da quei tormenti, c’è in Orazio una metabolizzazione del vissuto che lo immunizza, una consapevolezza ironica che consente il distacco e disinnesca il dramma. Trattandosi di linguaggio sentimentale mi sono permesso, nella traduzione, qualche licenza sintattica e lessicale modernizzante (non era facile tradurre inmitisGlycerae con un termine più incisivo di quello che ho scelto…). Il gioco crudele (saevus iocus) di Venere l’ho reso (e non solo per motivi metrici) con una perifrasi tratta dal nostro frasario quotidiano (giocando come il gatto con il topo) che trovo abbastanza calzante.
La legge del tempo che rovescia un destino. Crudele e beffarda. Una legge che Orazio avverte e soffre con una sensibilità speciale, quasi unica. Vale per tutto e per tutti, ma specialmente per la bellezza, e in amore. Lidia è stata un’etèra (una escort) affascinante, desiderata e inseguita da molti. Si è potuta permettere di tenere sulla corda i suoi spasimanti, di umiliarli, di prendersene gioco. Ma adesso lei invecchia. E allora il gioco presto muterà in un atroce contrappasso. Sarai lei tra non molto a soffrire e a spasimare, come una lupa insaziata o una cavalla in amore, per giovanotti che a loro volta la umilieranno con il loro disprezzo e con la loro irriverente allegria. Forse l’acrimonia di Orazio cela un risentimento: ha amato molto anche lui, come tanti altri, questa donna ed è stato probabilmente anche lui vittima dei suoi capricci e della sua superbia. Ma, come sempre in poesia, la vicenda personale e il senso di rivalsa individuale sono trascesi in una rappresentazione – cruda e tragica – di valore universale. Nella traduzione ho voluto/dovuto sciogliere e ‘modernizzare’ talune espressioni oraziane che non avrebbero conservato in italiano, se rese alla lettera, una efficacia pari a quella dell’originale: così, per esempio, amat ianua limen (‘la tua porta ama la soglia’) è diventato la tua porta ormai non si separa/ per un solo istante dalla soglia; e non sine questu (‘non senza lamenti’) è diventato (con una endiadi adatta – credo – alla temperie drammatica del contesto) ti farà piangere e urlare.
Ode in morte di Quintilio Varo, amico comune di Orazio e di Virgilio. Ma si tratta anche di una consolazione rivolta a Virgilio, il più toccato dalla scomparsa di Quintilio. Le parole di Orazio invitano Virgilio alla rassegnazione, ma sono anche piene di innegabili – per quanto tipiche della poesia funeraria – sottolineature della implacabile ed iniqua durezza degli dèi. Ovvero (nell’ottica laica ed epicurea di Orazio) della assurdità di una qualche fiducia nella loro provvidenza. Merita attenzione, a mio parere, l’espressione frustra pius (da me tradotto con inutile fede) con cui Orazio definisce Virgilio cogliendone la tormentatissima fede religiosa (quella che il poeta mantovano ha proiettato spesso nei personaggi e nelle situazioni della sua poesia, nell’Eneide in particolare). La traduzione di questa ode mi ha posto più che in altri casi di fronte a un bivio: o tentare di riprodurre lo stile particolarmente lapidario e pregnante dell’originale rischiando una resa illeggibile (oltre che poeticamente inaccettabile) per il lettore italiano odierno; oppure giocoforza sciogliere molte delle iuncturae callidae dell’originale in una sintassi più esplicita e in una cadenza più ampia, piana e cantabile, salvaguardando comunque tutti i nodi semantici e concettuali del testo di partenza. Ho scelto questa seconda strada, non facile, nonostante le apparenze, ma meno accidentata e improduttiva della prima.
Il fascino della femminilità adolescente nello sguardo di un maturo e raffinato viveur. Una giovanissima etèra, ritrosa e timida come una cerbiatta, sfugge alle attenzioni del poeta. Orazio riprende un paragone topico della lirica greca sviluppando con finezza di tratto naturalistico (e notevole autonomia poetica) la psicologia della giovane cerbiatta spaventata. Salvo poi tornare con ironia maliziosa e bonaria al termine reale del paragone. Ho differenziato un po’, traducendo, i registri dei due estremi della similitudine. All’immagine della cerbiatta tremante e spaurita ho riservato, con aderenza all’originale, un certo grado di ricercatezza espressiva (con tracce leopardiane evidenti, quasi centonarie, anche se inizialmente – devo dire – inconsapevoli: vento… stormire di fronda… spaura ), ma poi nel finale, quando si riparla direttamente della (e alla) ragazza, mi sono preso la libertà di un tono moderatamente più colloquiale.
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